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Sapelli: “Così l’Argentina rivede i fantasmi del passato”

Imagoeconomica

“Cinque miliardi sono stati letteralmente buttati al vento. Rialzi così ravvicinati e così forti dei tassi d’interesse non fanno che generare panico”. L’opinione dello storico dell’economia, Giulio Sapelli, docente all’Università Statale di Milano e grande esperto dei Paesi dell’America Latina, sulle mosse della banca centrale argentina non lascia spazio a interpretazioni. I banchieri hanno alzato i tassi d’interesse tre volte in una sola settimana, portandoli al 40%, spendendo 5 miliardi di risorse pubbliche per sostenere la moneta. La svalutazione però non si è fermata.

L’Argentina torna ad attirare l’interesse internazionale, ma per i motivi sbagliati. Sebbene tutti sperassero che la “ricetta Macri” cominciasse a dare i suoi frutti, Buenos Aires si ritrova ad affrontare una nuova crisi e a combattere i fantasmi del recente passato. Quelli dei default del 2001 e del 2014 che ancora oggi non hanno smesso di far paura. Dopo la sconfitta del peronismo, il paese ha nuovamente a che fare con una svalutazione valutaria e con l’intervento di quel Fondo Monetario Internazionale che i cittadini guardano con immutato sospetto.

In questa intervista a FIRSTonline, Sapelli analizza la nuova emergenza argentina per comprendere meglio le cause di questa crisi, ma anche le conseguenze che potrebbero manifestarsi nel prossimo futuro.

Professor Sapelli, l’Argentina è di nuovo nel caos. Stavolta ad allarmare è il crollo della moneta che in dieci giorni ha perso il 15% sul dollaro. Quali sono le cause della forte speculazione sul peso argentino?

“Le cause sono molteplici. La prima, che molto spesso viene taciuta e sottovalutata, è che l’Argentina non ha ancora ritrovato credibilità, ma non all’estero, all’interno. Lo Stato, la politica, l’economia non hanno credibilità agli occhi degli stessi cittadini. Gli argentini, nel momento in cui hanno a disposizione liquidità, ancora oggi depositano parte dei loro denari a Miami o in una banca statunitense. E’ una caratteristica di quei paesi del Sudamerica dove lo Stato non ha una legittimazione e l’Argentina è tra questi. Le due ondate terroristiche, soprattutto la seconda nella metà degli anni settanta a cui ha fatto seguito la dittatura militare, hanno causato uno shock da cui le classi dominanti ma anche il ceto medio non sono ancor usciti.

A contribuire ci sono poi i problemi di stabilità parlamentare che sta affrontando il Presidente. Macri non ha una maggioranza in Parlamento e non ha trovato un modo per convivere con le diverse organizzazioni sindacali. Se a tutto questo aggiungiamo le vicissitudini del dollaro che si ripercuotono in modo immediato sulla stabilità del peso per i motivi che abbiamo elencato, la crisi è servita.

L’Argentina vive ancora nel passato, nel periodo del currency board e del tasso di cambio fisso tra dollaro americano e peso argentino che provocò la spaventosa crisi del 2001. A livello tecnico il currency board non c’è più, ma esiste ancora dal punto di vista simbolico e dal punto di vista del comportamento degli investitori con gli effetti sulla valuta che ci troviamo davanti agli occhi”.

Buenos Aires è nuovamente vicina al default?

“L’Argentina va in default se il Fondo Monetario permette che l’Argentina vada in default. Non si tratta solo di sostenere il debito di Buenos Aires, ma soprattutto di esercitare una moral suasion sui grandi gruppi di investimento, sui fondi, ecc. allo scopo di evitare che i capitali abbandonino l’Argentina. Il Fmi internazionale ha il potere di farlo perché tutto dipende dalla grande tecnocrazia economico-liberista internazionale. Riassumendo, possiamo dire che l’Argentina è nelle mani di Christine Lagarde”.

Come giudica le decisioni della banca centrale argentina dell’ultima settimana: 5 miliardi impiegati per sostenere la moneta e tre rialzi consecutivi dei tassi di interesse in così pochi giorni erano davvero necessari? Non c’erano alternative più efficaci e meno radicali per arginare la svalutazione?

“Quei cinque miliardi sono stati letteralmente buttati al vento. Rialzi così ravvicinati e così forti dei tassi d’interesse non fanno che generare panico. A mio parere bisognava dimostrare fermezza, andare direttamente a Washington a negoziare anziché effettuare mosse del genere. Doveva muoversi anche Macri, utilizzare il capitale di credibilità che si era conquistato all’estero, ma ciò non è stato fatto o è stato fatto solo in seguito. Ma a prescindere da quest’ultimo aspetto, il comportamento tenuto dai banchieri centrali è assolutamente inadeguato, sia nell’ultima settimana che in precedenza”.

A proposito di Macri, come valuta i suoi due anni e mezzo di presidenza? 

“Macri ha fallito. Dopo il crollo del partito radicale e la perdita di un leader del calibro di Alfonsin, Buenos Aires non ha più un partito internazionalmente rispettato con grandi tradizioni di tipo socialista-moderato-desarrollista in grado di attirare fiducia, cosa che sul destino dell’Argentina pesa tantissimo. Due anni e mezzo fa Macri era il meno peggio e quindi andava sostenuto. Ad oggi non c’è nessuno che possa sostituirlo e quindi va appoggiato, ma per garantire una stabilità istituzionale all’Argentina serve altro”.

Nonostante le riforme la spesa pubblica rimane altissima, il deficit supera il 7% e l’inflazione è al 25%. Occorre fare di più o serve solo tempo?

Io non credo che possa essere utilizzato il termine ‘riforme’ per i provvedimenti fatti dal presidente argentino. Le riforme favoriscono la crescita economica e le sue non lo hanno fatto. C’è modo e modo di affrontare il problema del debito pubblico, ma prima devi pensare agli investimenti e alla crescita. Lui ha usato una politica liberista che ormai non è più attuabile. Si è comportato come se fosse in sintonia con le economie mondiali di 10 anni fa. Quel mondo non esiste più, si sta ritornando verso un’economia mista e Macri, per stimolare la crescita, avrebbe dovuto attirare capitali attraverso questa nuova dialettica.

Non è riuscito nemmeno a valorizzare le risorse naturali. In questo contesto c’era spazio per creare una piccola rendita petrolifera che avrebbe potuto sostenere l’economia e invece ha preferito seguire la strada della liberalizzazione. Non ha saputo gestire il rapporto tra centro e periferia, il peso delle province che rappresentano “un’enfisema polmonare di spesa pubblica inutile e parassitaria”. La politica economica che ha perseguito è stata sbagliata e adesso si è rivoltata contro di lui”.

E’iniziata una fase politicamente discendente per l’uomo che ha sconfitto il peronismo?

“Il peronismo è il cancro dell’Argentina, il fatto che lui sia riuscito a sconfiggerlo è sicuramente positivo per il paese. Successivamente però doveva portare avanti una politica economica che favorisse la crescita e la stabilità monetaria, rafforzando la fiducia dei cittadini nella propria moneta. Purtroppo non è stato capace di farlo”.

Tornando alla crisi monetaria attuale, tra la banca centrale e il Presidente Macri c’è sintonia o sono su posizioni differenti?

“Lei ha toccato un punto centrale del problema. Non c’è alcuna sintonia, non c’è coordinamento tra la l’istituto centrale e il governo. E’vero che molti considerano imprescindibile l’indipendenza della banca centrale, ma in un caso del genere tra le parti deve esserci dialogo, congiunzione, una strategia comune che in questo caso non si è vista”.

Il Presidente Macri ha chiesto nuovamente aiuto al Fondo Monetario scatenando forti proteste nella popolazione che rivede nuovamente gli spettri del passato. Cosa pensa di questa scelta?

“Per evitare la reazione negativa dei cittadini Macri avrebbe dovuto preparare prima questa mossa. Doveva andare in Parlamento, coordinarsi con la Banca Centrale, spiegare al paese perché stava andando a chiedere un prestito. Dire soprattutto che quello attuale è un prestito che ha un connotato diverso da quelli imposti dall’alto nell’era Kirchner, doveva fare politica insomma. Solo così avrebbe evitato le proteste popolari. Per quanto riguarda la decisione in sé invece, la richiesta al Fmi è inevitabile per scongiurare il crollo, non c’era altra via”.

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