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Roma si può modernizzare o avevano ragione Fellini e Pirandello?

Imagoeconomica

Le mie propensioni verso Roma non sono polemiche, non provo acredine o sdegno, perché Roma è un baraccone capace dove entra tutto, è un magma fluttuante dove tutto viene assolto e tutto viene dissolto, una bolla che esplode, una città con dimensioni di cinismo, saggezza, indifferenza che mai cambiano e riconducono agli stessi errori, una metropoli che permette di rimanere infantili con il beneplacito della Chiesa. Per farla ci son voluti 261 papi. Come pretendere di cambiarla in qualche secolo?. Federico Fellini, su L’Espresso del 28 marzo 1971

La discussione sui destini della Capitale, momentaneamente sopita di fronte alla tragedia del Covid, si sta rianimando in vista delle elezioni in autunno. Nell’opinione pubblica sembra esservi consapevolezza diffusa dello stato penoso di Roma. Fino al 2008, con l’economia in crescita, gli squilibri erano meno percepibili ma, con la crisi, le risorse pubbliche che fino allora avevano sostenuto la città sono venute meno, la crescita si è arrestata e le fasce più basse della popolazione sono state toccate più duramente. Il rischio, ormai tangibile, è che disuguaglianze, decrescita, cattiva amministrazione inquinino l’anima profonda di Roma, la sua “entità unica e non riproducibile”, la sua immagine, quella che Walter Benjamin chiamava l’“aura” di una città. E sembra esservi consenso sull’idea che, al di là dei problemi gestionali dell’oggi (i trasporti, la raccolta dei rifiuti, il decoro urbano), pur acuti per il degrado che li caratterizza e puntualmente rilevati dalle opinioni dei cittadini, la crisi della città sia anche il frutto della mancanza di progettualità e visione sul futuro di Roma. Progettualità e visione da tempo cronicamente assenti.

La contraddizione tra la sua bellezza e il ruolo di capitale e le gravi difficoltà che la città vive da molto tempo, una vera e propria “malattia romana”, attrae da tempo scrittori, registi, studiosi, urbanisti, politici che hanno raccontato e denunciato il suo caotico disordine e la sfrenata speculazione, la pigra indole della sua popolazione, la sua inadeguatezza a rappresentare il paese. Altri autori si sono cimentati in una pars construens e hanno suggerito terapie. Si potrebbe dire che i libri su Roma siano ormai diventati un genere letterario.

Allora perché un’ennesima riflessione su Roma? Il tentativo, condotto nelle pagine di “2021: Miracolo a Roma” adottando un taglio agile ma che tiene in conto l’abbondantissima letteratura sulla Capitale, è di offrire una riflessione sulle ragioni di lungo periodo della crisi della città e su alcuni possibili percorsi per farla tornare a crescere, come si usa dire oggi, “in modo equo e sostenibile”. Il convincimento è che la mancata modernizzazione e l’assenza di progettualità non siano casuali. Piuttosto, da lungo tempo, Roma non sembra in grado di esprimere forze capaci di disegnare e realizzare un progetto di crescita duratura e di equilibrato sviluppo urbano, un “blocco sociale” portatore di un’azione modernizzatrice. In un simile quadro, il governo della città non poteva che mettere in atto, salvo rare eccezioni frutto di circostanze particolari della politica nazionale, “cattive politiche” o comunque inadeguate alla dimensione dei problemi.

Ma non è solo per questo motivo “strutturale” che ci si può domandare se sia realistico pensare di riportare Roma su un sentiero di crescita e di modernizzazione. A volte si evoca la natura storica della città, così grandiosa, che genererebbe una sorta di incantesimo tale da renderla refrattaria alla modernità. Si tratta di un fil rouge, che si potrebbe definire fatalista, che da sempre percorre studi e riflessioni su Roma. E non mancano le citazioni. Da Henry Adams, storico americano che visitava la Città Eterna poco prima di Porta Pia: “Roma non poteva essere introdotta in uno schema sistematico di evoluzione, ordinato, borghese, nato a Boston. Nessuna legge del progresso le si poteva applicare”, ad autori italiani come Pirandello che ne Il fu Mattia Pascal fa esprimere ad Anselmo Paleari quel famoso giudizio, più volte citato, liquidatorio di ogni possibile prospettiva di modernità per la Capitale:

Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio.

Anche la citazione di Fellini riportata in esergo si richiama implicitamente a quella visione ed evoca una refrattarietà di Roma nei confronti della modernità, la sua inscalfibile eternità e quindi l’impossibilità di giudicarla con metri comuni come l’efficienza o il decoro. E Mario Praz, nel suo libro dedicato alla Città Eterna, osservava come Roma, “non essendo stata mitridatizzata contro la vita moderna da una progressiva adattazione, soccombe. Ferrarotti, che una volta con la sua analisi denunciava le condizioni di vita nelle periferie romane, recentemente confida che “solo a Roma ho imparato a diffidare dell’iperattivismo, ho cominciato ad apprezzare un’indolenza, che non è ignavia e neppure accidia”. Un fil rouge che di fronte alla crisi degli ultimi anni sembra aver ripreso forza. E così “la diversità dell’esperienza”, “il sublime disastroso”, “l’unicità” vengono invocati a sostegno della tesi che Roma debba rimanere “semanticamente effimera”, che i suoi problemi non possano essere risolti, anzi che il degrado e i contrasti possano generare immaginario e quindi innovazione progettuale, fino quasi ad assurgere a “motore di sviluppo”.

È una visione che non trova eco nelle pagine di questo libro.

Non v’è dubbio che Roma, per dirla in termini sociologici, non sia riuscita a seguire con regolarità quel “percorso temporale e strutturale necessario per acquisire le caratteristiche delle società moderne”, che poi sono quelle del mondo occidentale industrializzato. Roma, se guardiamo ai criteri normalmente utilizzati per misurare la qualità della vita, non è riuscita a diventare non solo come Parigi o Londra ma neanche come Madrid. La sua storia sembra tenerla lontana da un habitat di progresso economico e sociale. Ma questi esiti non rappresentano un “ineludibile destino”: trovano piuttosto fondamento nella struttura economica e sociale di Roma e nelle scelte compiute dagli attori politici. Certo, questa interpretazione strutturale della mancata modernizzazione, l’impossibilità per Roma di identificarsi in una cultura imprenditoriale, solleva comunque un interrogativo sulle forze su cui fare affidamento per un futuro più roseo per la Capitale. E la risposta che il libro offre è che per misurarsi col secolo nuovo, per riprendere il cammino della trasformazione, ricomporre la frattura, culturale, economica, sociale tra il nucleo storico della città e l’enorme, sterminata periferia, e rimettere in atto processi di razionalizzazione, un ruolo decisivo lo dovranno svolgere le politiche pubbliche. Politiche pubbliche che dovranno finalmente tener conto che “d’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà alla tua domanda”(Calvino, Le città invisibili).

A volte, nella discussione su Roma, si è posta l’enfasi sul contrasto tra la mancata modernizzazione e il ruolo di rappresentare il Paese, il suo “dover essere” capitale. Qui si apre una seconda prospettiva con cui guardare alla città: il suo rapporto con il resto del Paese, la eventuale specificità nelle istituzioni romane dell’economia e della società rispetto alle altre grandi città italiane. Roma offre veramente un’immagine distorta dell’Italia? In realtà, sembra difficile negare che si ponga un problema di modernizzazione per l’Italia tutta che non a caso cresce di meno del resto d’Europa da più di vent’anni. Problema che riguarda la sfera pubblica – per le istituzioni di controllo invadenti e deboli a un tempo, per il cattivo funzionamento dei servizi, per la corruzione degli amministratori, per una burocrazia spesso ostile e inefficiente – ma anche la sfera privata – per il mancato rispetto per il territorio e i beni comuni, per l’evasione fiscale, per la scarsa sensibilità per i conflitti d’interesse; tutte manifestazioni di un’insufficiente diffusione della civicness che affligge, pur con intensità variabile, tutto il territorio nazionale.

La relazione tra Roma e il resto del Paese l’aveva ben colta Luigi Petroselli, il sindaco comunista di una brevissima quanto felice stagione a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando in polemica con Alberto Moravia, autore di un pamphlet assai critico verso Roma, ricordava come “gli squilibri mostruosi e assurdi di Roma e le fasce di parassitismo che ne soffocano ancora la vita non sono stati una residua palla di piombo al piede di un paese […], ma hanno fatto da contrappunto e da detonatore alla dilapidazione di risorse materiali, culturali, umane, che ha contrassegnato tutto lo sviluppo del paese”. Roma rappresenterebbe dunque in modo inequivocabile, seppure con fattezze del tutto proprie, estreme se si vuole, le debolezze italiane. Lo stesso ritardo nella modernizzazione della Capitale potrebbe essere emblema di un più generale, controverso, rapporto che il Paese ha con la modernità. Però attenzione alle facili assoluzioni: è la scala che è diversa, come in uno specchio deformante i difetti nazionali ci vengono restituiti a una potenza elevata. In questa chiave Roma ne può essere considerata amara e affascinante metafora.

Una deformazione che si coglie nell’entità e nel radicamento delle forze che sono contrarie alla modernizzazione, esaminate nel secondo capitolo. C’è la presenza millenaria della Chiesa che con la modernità… non ha esattamente un rapporto fluido e transigente e la cui influenza sulla città è stata fortissima, anche se forse oggi meno invasiva di quanto accadeva fino a trent’anni fa. C’è la rendita edilizia, traino secolare dell’economia romana, anche se oggi in parziale ripiegamento, forza costituzionalmente contraria ad alcuni processi tipici della modernità come la concorrenza, verso cui, peraltro, l’ostilità è sì diffusa nell’intero Paese, ma altrove temperata dalla maggiore industrializzazione e dalla conseguente necessità di competere internazionalmente. Non c’è una borghesia attiva, in parte come nel resto del paese, ma con l’“aggravante” della vicinanza al potere politico nazionale che esercita un richiamo difficilmente resistibile per la classe dirigente locale con le connesse attività tipicamente “intermediative” rispetto a quelle “imprenditive”. C’è la criminalità organizzata notoriamente di ascendenza tradizionale, ancorché modernissima quanto a mezzi e intrecciata con parentele culturali e politiche; anch’essa fenomeno che non risparmia il resto del Paese ma che a Roma ha trovato configurazioni proprie, alcune financo mitizzate, e diffusione elevata. C’è poi un fattore specifico, idiosincratico: il carattere locale, l’humus culturale, la “romanità” nei limiti in cui questa è identificabile, e io credo che ancora lo sia, scettica e poco incline al rispetto del bene comune e che nell’ultimo quindicennio ha tratto nuova linfa dall’incuria, spesso dalla corruzione, delle istituzioni politiche locali.

Le politiche urbane e nazionali poco hanno fatto per sanare i problemi sociali e le iniquità, tipiche di una grande metropoli, anzi, in alcuni casi, come nella politica urbanistica, hanno contribuito ad aumentarli. Il buon governo locale è stato storicamente un’eccezione: né poteva essere diversamente, vista la difficoltà di costruire un blocco sociale riformista e modernizzatore. Latitanti anche i governi nazionali che non sono stati in grado di delineare e portare avanti un progetto di valorizzazione del ruolo politico e simbolico della Città Eterna. Da questa incapacità della politica, la destra, tradizionalmente radicata nella Capitale e notoriamente ostile alla modernità, continua a trarre vigore. Gli scarsi successi e i numerosi insuccessi, in particolare quelli più recenti, della politica a Roma e verso Roma sono esaminati nel capitolo terzo.

Date queste premesse, la crisi era inevitabile. E le forme della crisi, l’economia debole e orientata verso le attività tradizionali e a basso valore aggiunto, le disuguaglianze sociali, il disastro dei servizi, sono approfondite nelle pagine del libro.

Cosa possiamo aspettarci per il prossimo futuro? Le due crisi, quella del “dopo 2008” e quella del Covid, hanno impresso una rapida accelerazione alla decadenza della città. Né l’imminente elezione del nuovo sindaco lascia spazio all’ottimismo, anche per il modo con cui si è arrivati alla scelta dei candidati da parte delle principali forze politiche dove il come valorizzare il valore politico e simbolico di Roma non ha avuto di certo un ruolo primario. A conferma della mancanza, da parte dei grandi partiti, di un’idea della città che provi a delineare un’ipotesi di soluzione dell’unica questione che dovrebbe preoccuparli: come uscire dalla decadenza, come fare di Roma una città che a un tempo sia più equa e torni a crescere e su quali leve operare per raggiungere questo obiettivo, straordinariamente ambizioso. Né si intravedono le forze sociali in grado di sostenere un progetto di questo genere e di trasferirlo nei meccanismi di decisione collettiva. Lo scenario più probabile per la Capitale appare la vittoria di quel candidato in grado di esprimere meglio, in modo più comprensibile per l’elettorato e più mediaticamente efficace, la forte domanda di redistribuzione di risorse che proviene dalla città, duramente provata dall’ultimo quindicennio.

Eppure, ci potrebbero essere alcune condizioni per una “svolta miracolosa” che faccia leva, almeno in parte, sulle forze che hanno retto Roma per centocinquant’anni. In primis, le risorse pubbliche potrebbero tornare ad affluire relativamente copiose con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e anche con il Giubileo del 2025, ma sarebbero necessarie una nuova progettualità in materia urbanistica e una rinvigorita capacità amministrativa perché possano effettivamente essere assegnate alla Capitale. E il Recovery, con le grandi imprese “semipubbliche” che svolgeranno un ruolo fondamentale nella sua implementazione, potrebbe riportare su Roma l’asse del potere economico con l’indotto di servizi professionali e finanza; ma per svolgere questo ruolo la Capitale dovrà avere infrastrutture digitali e di mobilità adeguate. Potrebbe riprendere anche il turismo ma, considerato come si è sviluppata l’offerta turistica negli ultimi vent’anni, non intervenire per riqualificarla condannerebbe Roma a rimanere sui servizi a basso valore aggiunto.

Le leve tradizionali hanno dunque bisogno di nuovi innesti per un risveglio della città. Ed è necessario, con un po’ di ottimismo della volontà, continuare a ripensare Roma e delineare le politiche pubbliche che possano segnare una discontinuità, integrare i motori tradizionali dell’economia romana e realizzare il miracolo. Tre sono i settori a cui affidare una ripresa dello sviluppo, ovviamente non esaustivi, e su cui il lettore troverà un breve approfondimento: interventi che recuperino almeno parte delle periferie all’interno di un più ampio progetto urbanistico, un rilancio in chiave industriale delle utilities, un’istituzione in grado di aggregare l’offerta culturale e promuoverla internazionalmente. Le speranze per uscire dal declino economico e il disagio sociale di Roma restano affidate alla costituzione di nuove “istituzioni economiche della Capitale”, a controllo pubblico ma con una significativa presenza privata, che possano aumentare la capacità attrattiva di risorse imprenditoriali e scientifiche e rendere la città più vivibile per tutti i suoi cittadini.

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Per leggere l’introduzione di “2021 Miracolo a Roma”, a cura di Linda Lanzillotta, clicca qui.

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