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Post Covid-19, Italia da ripensare ma indietro non si torna: parla Berta

Giuseppe Berta

“Luigi Einaudi che all’inizio era molto critico nei confronti di Giolitti, ricorda nelle sue memorie l’incontro con il presidente del Consiglio in visita alla Stampa. Quali regole, gli chiese, deve seguire un buon politico. E, in piemontese, Giolitti gli replicò secco: Venta guverné bin. Bisogna governare bene cosa che, per lo statista, equivaleva ad una buona gestione dell’amministrazione. Una regola appassita negli ultimi anni”.

Comincia così, con un ricordo sabaudo, la riflessione di Giuseppe Berta, professore di storia dell’Economia in Bocconi, sulle possibilità di ripresa dell’economia italiana dopo l’emergenza dei coronavirus, la Caporetto dell’industria tricolore. ”Ma proprio nella Prima Guerra Mondiale – sottolinea Berta in linea con l’intervento del suo collega ed amico Franco Amatori su FIRSTonline – l’Italia diede una prova di efficienza grazie al meccanismo della Mobilitazione industriale che era strutturato con un’impostazione efficientista ed interventista dello Stato. Quel precedente, però, deve stimolare un ripensamento su cosa ha funzionato sulla via dello sviluppo ma anche sui limiti del nostro sviluppo”.

Insomma, in un momento in cui latitano le certezze, merita interrogarsi anche sulle radici di virtù e difetti nazionali, anche risalendo indietro di un secolo. 

“Si può. In linea di massima si possono individuare due tesi distinte, in un certo senso opposte. E’ indiscutibile che lo Stato, in occasione del conflitto, diede il meglio di sé trasformando l’apparato produttivo e mettendolo al servizio delle esigenze belliche in tempi limitati. Siamo entrati in guerra nel maggio del ’15, cioè un anno dopo gli altri, con un divario temporale rispetto alla mobilitazione degli altri, ma l’Italia, alla prima vera prova dopo poco più di mezzo secolo dall’Unità, riuscì a colmare il ritardo in breve tempo. La Fiat, che al momento dell’ingresso in guerra aveva 4.500 mila dipendenti, alla fine del primo anno di guerra arriva a 16 mila mentre alla fine del conflitto ne avrà oltre 40 mila mentre Ansaldo supererà gli oltre 100 mila addetti. Si riuscirà così a soddisfare la domanda bellica e a creare una base di larga impresa che resisterà nel tempo”. 

Dalla guerra, insomma, emerge l’industria italiana del secolo scorso. E così? 

“Sì, nel bene come nel male. Fu proprio Einaudi ad esprimere un punto di vista diverso esposto nel saggio ”La Prima guerra mondiale e le sue conseguenze” del ’33. La grande guerra, è la sua tesi, ha avuto un effetto distorsivo sullo sviluppo dell’economia italiana. Il Paese dalla fine del secolo era sulla strada di una crescita equilibrata. La guerra ha avuto l’effetto di spostare tutto nella commistione tra affari privati, grandi banche e Stato che ha portato nel tempo alle deviazioni che sappiamo. Io per molto anni ho dato ragione al primo punto di vista, cioè la guerra ha preparato l’Italia allo sviluppo successivo. Oggi non sottovaluto l’opinione di Einaudi: non avessimo avuto quella deviazione di percorso ci saremmo risparmiati tanti altri guai, anche sotto il profilo politico, compreso il fascismo”. 

C’è una sorta di bivio che segna, ieri come oggi, il destino dello sviluppo del bel Paese. 

“E’ il caso di rifletterci, in un momento che ci impone di ripensare l’Italia in piena emergenza. Einaudi pensava ad uno sviluppo più leggero, basato su tecnologie e capitali soft. Ovvero quello che Giorgio Fuà definì lo sviluppo senza fratture, laddove la guerra rappresentò una frattura rispetto alla fase giolittiana tra il 1896/1913. la prima vera fase di crescita e sviluppo italiano, con un’impronta originale ed equilibrata dello sviluppo italiano, un carattere recuperato da Fuà e da Giacomo Becattini che hanno tracciato la strada dello sviluppo della Terza Italia e dei distretti industriali, più attenta all’equilibrio dei territori e delle attività.  

Non a caso la stagione giolittiana è segnata dai successi della finanza pubblica. L’Italia, caso quasi unico nella sua storia, riesce ad azzerare il debito pubblico.

“E’ il frutto di una breve stagione liberale di governo, interrotta dall’intervento in Libia, voluto da Giolitti ma soprattutto dall’intervento nella Grande Guerra contro il volere dello stesso Giolitti: quando, anche oggi, si lamenta l’incapacità di intervento dello Stato si ha in mente un ruolo più forte dello Stato, una funzione diversa che Einaudi tendeva a criticare nella sua visione liberista classica”.

Oggi, complice la pandemia, che non ha fatto che esasperare il declino dell’economia italiana che dura almeno da 15 anni, si torna a rivendicare un ruolo forte dell’intervento pubblico. 

“Ma sarebbe il caso di non dimenticare il governà bin che abbiamo smarrito nei decenni depotenziando il peso dell’amministrazione prima subordinandolo ai politici e riducendone la necessaria autonomia poi sposando in maniera sommaria le tesi liberiste. Il risultato è stato di depotenziare le competenze ed il prestigio dell’amministratore dando vita ad una casta deresponsabilizzata peraltro debole in sede europea dove abbiamo mandato i politici suonati a fine corsa mentre gli altri hanno usato Bruxelles come una palestra per allenare le eccellenze di cui oggi avremmo un grande bisogno”.

Ma che fare, di grazia, per riavviare un ciclo di crescita dopo l’emergenza? 

“Prendiamo atto che siamo di nuovo in una gabbia. Tutte le istanze si riversano sullo Stato. Tutti a chiedere un intervento dello Stato nella convinzione che sia l’unico modo per ripartire. Si corre un pericolo molto grande, quello di uno statalismo ridondante alla Trump che però può contare su un’amministrazione molti più efficiente della nostra. Noi al contrario abbiamo uno statalismo inefficiente, poco competente e, per di più, deresponsabilizzato. Vediamo i contrasti tra Regioni e Stato centrale che vorrebbe tornare a comandare ma non saprebbe nemmeno come fare. Ci vorrebbe, ne sono convinto, un intervento selettivo dello Stato, ma temo che non ci siano le competenze necessario. Non so se sia un bene caricare questo Stato di ruoli che non è in grado di svolgere.   

Da tempo ero convinto che il pendolo si sarebbe spostato verso l’intervento pubblico. Ma il cambiamento, complice la crisi sanitaria, è avvenuto in un modo rapido ed inatteso, imponendo un passaggio brutale che ci fa precipitare in un quadro di incertezze. Tornare al passato non è possibile. A ben vedere, l’Italia non aveva restaurato la sua normalità economica, dal momento che non è tornata ai livelli di prima. Non l’ha fatto perché quella crisi ha portato a consunzione un assetto economico logoro da non pochi anni. Ora dunque non ha senso calcolare il tempo teorico necessario al recupero di una condizione di normalità che non esisteva già prima dell’ultima crisi”. 

In questa situazione, però, l’idea del ritorno al modello Iri ha il suo fascino. La crisi ha avuto il merito, diciamo così, di interrompere la sceneggiata Alitalia. Si torna al pubblico, senza mai aver mai sviluppato un modello privato. 

“Non si possono inseguire modelli passati, ma si può ricostituire uno schema di economia mista in sintonia con l’evoluzione economica di lungo periodo del paese, sebbene postuli oggi anche un’istanza di innovazione. Bisognerà inventare soluzioni nuove, senza tirarle fuori dall’armadio in cui sono stati chiusi i reperti del passato, senza cedere alla tentazione di resuscitare l’Iri o chissà che altro. E riformulare, con le forze produttive reali di cui l’Italia per fortuna dispone ancora, un modello di sviluppo all’altezza dei tempi in cui le componenti pubbliche tornino ad agire da volano per gli investimenti a lungo termine ed i privati rilancino le attività sul territorio”.    

Ma ce la faremo così facendo a recuperare? E chi ci darà i capitali necessari?  

“Lo shock per l’economia è stato molto forte, simile a quel che è successo ai tanti anziani che si sono ammalati con un organismo già fiaccato dai malanni pregressi. Si può invocare un fondo che restituisca un minimo di ossigeno, ma occorre pensare al dopo, senza farsi illusioni ma puntando all’edificazione di un edificio dotato insieme di resistenza e qualità, capace di durare nel tempo. Pensiamo, ad esempio, al turismo, un aggregato che vale il 13 per cento del Pil.  Per ripartire dopo la tempesta occorreranno idee nuove e un’altra organizzazione, per esempio quella piattaforma per il turismo italiano che finora è mancata. Non servirà tenere in piedi quello che esiste, se i soldi che saranno erogati non verranno impiegati per lavorare sulla ristrutturazione di un settore asistematico, lasciato finora nelle mani di un’occasionalità che è il momento di superare. Non è più tempo delle pensioncine o degli alberghi che campano sul nero senza adeguata gestione digitale”.   

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