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Multinazionali, la Toyota è sempre la più grande e l’Eni è la prima delle italiane che sono solo 15

Per il sesto anno consecutivo la Toyota si rivela la maggiore multinazionale del mondo in campo industriale con un totale attivo di 269 miliardi di Euro, davanti a l’inglese Royal Dutch Shell, all’americana ExxonMobil, alla russa Gazprom e alla tedesca Volkswagen-Porsche. E’ quanto emerge dall’indagine annuale di R&S-Mediobanca sulle multinaziopnali industriali che comprende l’esame delle 375 maggiori multinazionali dell’industria, delle Tlc e delle utilities. Nella graduatoria mondiale la prima italiana è l’Eni (13esima), seguita da Fiat (32esima, ma diventerebbe 19esima con Chrysler) e da Finmeccanica. Le multinazionai continuano ad aumentare il loro fatturato e la loro solidità patrimoniale mentre nel primo trimestre del 2011 le europee fanno meglio delle amricame, Ma le italiane sono solo 15, tre in meno dell’anno precedente. E sono anche tra le più piccole, le meno globalizzate e le meno produttive. Forte è laq prsenza dello Stato nelle multinazionali italiane e anche per questo le nostre imprese maggiori sono quelle che delocalizzano meno. Ecco i dettagli dell’indagine di R&S-Mediobanca.

L’INDAGINE
L’indagine copre le 375 maggiori multinazionali (MEs) ubicate nei cinque Continenti ed operanti nell’industria, nelle TLC e nelle utilities. Queste imprese impiegano circa 29 milioni di dipendenti con un fatturato pari al 24% del Pil europeo, al 17% di quello nordamericano ed al 33% di quello giapponese. Il loro valore di Borsa rappresenta il 42% delle borse europee, il 25% di quella nordamericana, il 27% della giapponese. In Italia ne contiamo 15 (700mila dipendenti, 19% del Pil e 35% della Borsa), cui se ne affiancano tre ad azionariato italiano, ma con sede fuori dall’Italia (Ferrero, STMicroelectronics e gruppo Rocca).

I 10 “CAMPIONI MONDIALI” 2010
A fine 2010 la maggiore MEs industriale per totale attivo é la giapponese Toyota (269 mld di euro), in quella posizione dal 2005. Nelle prime dieci posizioni si trovano due società statunitensi, quattro europee, una giapponese, una russa (Gazprom), una cinese (PetroChina) ed una brasiliana (Pretrobras). Otto società sono energetiche. I soli due campioni manifatturieri sono produttori di auto: oltre alla Toyota, la tedesca Volkswagen/Porsche. Trenta anni fa (1989) la foto delle top ten immortalava un altro mondo: solo MEs di paesi maturi (quattro statunitensi, tre giapponesi, due del Regno Unito ed anche una italiana); tre sole energetiche e poi tutte manifatturiere, tra cui quattro produttori di auto: GM (ora 29esima), Toyota, Ford (ora 42esima) e Fiat. IBM è passata da quinta a 33esima.

LE ITALIANE
Oggi la prima italiana è l’ENI (13esima), segue la Fiat 32esima (ma con la Chrysler salirebbe al 19esimo posto), 104esiama la Finmeccanica. ENI è la nona compagnia energetica al mondo, dopo la Total e prima della ConocoPhillips; Fiat è la nona casa automobilistica mondiale, dopo la GM e la Renault, ma prima della Peugeot e della Hyundai. Sarebbe settima con Chrysler, prima di GM e Renault ed ex equo con la Nissan.

GIGANTI IN BORSA
Le valutazioni della Borsa non seguono quelle di bilancio: la Toyota è addirittura 16esima e solo tre società tra le prime 10 (ExxonMobil, PetroChina e Chevron) sono tra le top 10 per valore dell’attivo. Apple (221 mld), Nestlé (152 mld) e General Electric (145 mld) sono tra le prime cinque per valore di borsa ma non tra le top 10 per asset (Apple è 40esima). Il top ranking per valore di borsa è dominato dalle società statunitensi: sette su dieci, assieme a due svizzere. Le italiane segnano valori di borsa penalizzanti ed arretrano rispetto alla classifica per totale attivo: 35esima ENI, 129esima Fiat, 175esima Luxottica.

Nelle TLC la maggiore società per totale attivo è la giapponese NTT (157 mld di euro) cui seguono l’americana AT&T (101 mld) e la britannica Vodafone (98 mld). In questo settore si contano quattro società europee, due cinesi e due americane, una giapponese ed una messicana. Telecom Italia è dodicesima. Le quotazioni di Borsa premiano China Mobile (149
mld di euro) ed AT&T (129 mld di euro), terza Vodafone (101 mld). Da segnalare in decima posizione la sudafricana MTN Group. Oltre le prime 10 Telecom Italia (è 19esima). Quanto alle utilities, Enel è quarta per totale attivo (129 mld), allineata ad E.ON (130mld) e preceduta da EdF, prima con 224 mld, e GdF Suez (144 mld). Per il Nord America è presente la sola Hydro Québec (48,5 mld di euro). Per il resto il settore è dominato dalle società francesi (tre su dieci con le prime due della classifica), con due presenze a testa anche per la Germania e la Spagna.

COME E’ ANDATO IL 2010: EUROPA vs NORD AMERICA vs EMERGENTI
1) le multinazionali industriali hanno segnato una forte ripresa dei ricavi: +15,2% a livello mondiale, +13,8% in Nord America e +15,4% in Europa. Più aggressiva la ripresa dell’area russo asiatica pari al 27,6% e nel resto del mondo (Africa, Sud America e Australia) ove essa ha toccato il 20,5%. Rispetto al 2008 (pre-crisi) il livello delle vendite in Europa è inferiore del 5%, in Nord America del 7%. Nell’area russo asiatica la forte crescita del 2010 ha annullato la modesta flessione del 2009 (-4%) e portato le vendite del 23% al di sopra del livello del 2008. I livelli di profitto (es: Utile netto / fatturato) del 2010 sono in linea con quelli medi pre-crisi.

2) la ripresa delle vendite nel 2010 è stata sostenuta dall’industria energetica che ha beneficiato dell’aumento nelle quotazioni del greggio (+29% circa in dollari), mentre le attività manifatturiere hanno segnato recuperi più contenuti. Tuttavia, la maggiore crescita del fatturato energetico si è tradotta in maggiore crescita dei margini solo in Nord America; in Europa e nell’area russo asiatica la manifattura ha registrato miglioramenti più marcati. I roe delle attività  manifatturiere sono superiori a quelli energetici.

3) Complessivamente si è rafforzata la struttura patrimoniale, per effetto della marcata crescita dei mezzi propri e di quella assai contenuta dei debiti (in calo in Europa). Le MEs nordamericane sono più capitalizzate e meno indebitate, con rapporto debt/equity pari a 0,4 contro 0,6 delle europee; esse, inoltre, presentano una cospicua presenza di disponibilità liquide, pari al 12,3% dell’attivo e addirittura al 70% dei debiti finanziari (9,4% dell’attivo e 38% dei debiti finanziari per le europee). Molto solide a livello patrimoniale le russo asiatiche. Gli investimenti sono cresciuti più negli USA che in Europa (7,9% vs 3,1%), così come i dipendenti (4% vs 0,6%).

IL 2010 DELLA MANIFATTURA ITALIANA
1) La crescita del fatturato (9,3%) è stata inferiore alla media europea (11,4%) e a quella di Germania (17,6%) e Francia (11,8%);
2) I margini sono cresciuti meno (Mon: 30,3% vs 47,7% medio europeo) e segnano incidenze sul fatturato inferiori (Mon: 5,4% in Italia vs 10,5% medio europeo);
3) La redditività netta è circa un quarto di quella europea se misurata rispetto al fatturato (utile netto / fatturato: 1,9% in Italia vs 7,8% medio europeo) e meno della metà rispetto
ai mezzi propri (roe: 8% in Italia vs 18,9% medio europeo); si tratta di livelli lontani da quelli pre-crisi (7,5% l’utile netto su fatturato nel 2007);

4) La struttura finanziaria delle MEs italiane resta caratterizzata da maggiore ricorso al debito finanziario pari a 1,2 volte i mezzi propri (0,7 la media europea) e da una ragguardevole scorta di disponibilità (cassa e titoli negoziabili) pari a 25,6 mld. di euro e a metà del debito finanziario dichiarato (50,5 mld); le maggiori provviste di liquidità sono in capo ad Exor (17,1 mld), Finmeccanica (1,9 mld), Parmalat (1,5 mld), Danieli (1,4 mld) e Cofide (1 mld).

I PRIMI MESI DEL 2011
I primi tre mesi del 2011 delle MEs segnano un aumento di fatturato complessivo dell’11,7% (non lontano dal 15% segnato nel 2010 sul 2009). L’Europa mostra una spinta maggiore: +17,2% contro il +13,4% del Nord America. Anche i margini rispetto al fatturato mostrano una tenuta rispetto al 2010: Mon su fatturato al 12% in Europa (11,4% il full year 2010) e 16% in Nord America (13% nel 2010); utile netto su fatturato all’8% in Europa (7,4% nel 2010) e 10% nel Nord
America (9,5% il 2010).

I comparti maggiormente in evidenza per sviluppo delle vendite sono: alimentare (+25,3% sul primo trimestre 2010), energia (+24,4%), pneumatici e cavi (+19,8%) e metallurgia (+17,5%). Modesti gli incrementi della meccanica (+2,3%), in flessione l’elettronica (-1,4%). La dinamica dei margini è contraddittoria: il mon su fatturato segna miglioramenti in sei settori su dodici, mentre il risultato netto è in progresso (sempre rispetto al fatturato) in dieci settori su dodici. La
struttura finanziaria continua a irrobustirsi e rispetto a fine 2010, segnando l’ulteriore riduzione del debito finanziario sui mezzi propri dal 66,3% al 64,4%, interamente imputabile alle MEs europee che si attestano all’81,8% (dall’85,2%), mentre le nordamericane sono stabili al 42,7% (dal 43% di fine 2010).

MESTIERI
La specializzazione delle MEs ne condiziona i risultati. Una prima qualificazione riguarda la presenza dell’industria energetica le cui performance dipendono dal prezzo del greggio. Le MEs d’Europa e Nord America sono in questo equivalenti: fanno circa un quarto dei ricavi dal petrolio, il resto viene dalle attività manifatturiere. Nelle aree emergenti (area russo asiatica e Africa più Sud America) l’incidenza dell’industria energetica è al 40/45%. Ma anche all’interno
dei Paesi europei le differenze sono importanti: Germania e Svizzera non hanno industria energetica (2% e 7% rispettivamente del fatturato), in Francia essa è attorno al 23%, in Italia arriva al 38%; nel Regno Unito supera il 71%. Guardano poi alla sola manifattura, tra Europa e Nord America la differenza principale sta nell’elettronica che pesa per il 22,7% nel Nord America e l’11,6% in Europa e, a compensazione, nel maggiore peso in Europa della meccanica (15,3%
contro 9,2%) e delle attività “Diverse” (metallurgia, produzione di materiale per l’edilizia, carta, ecc.) che valgono il 21,9% del fatturato europeo ed il 15,4% di quello nordamericano. In Giappone l’elettronica e i mezzi di trasporto rappresentano i due terzi del totale; nell’area-russo asiatica la sola elettronica vale metà del giro d’affari complessivo. In Italia i mezzi di trasporto (53,3%) e la meccanica (15%) rappresentano i 7/10 delle vendite delle MEs (la Fiat da sola vale il 25,8% del totale), mentre sono totalmente assenti la chimica-farmaceutica e l’elettronica; in Germania il minor peso dei mezzi di trasporto (36,6%) lascia spazio alla meccanica (22,3%) ed alla chimica-farmaceutica (18,2%). Quest’ultima rappresenta l’attività core nel Regno Unito (37,2%) e in Svizzera (38,8%) dove, insieme all’alimentare (32,2%), esaurisce i 7/10 del totale. In Francia infine i mezzi di trasporto (23%) equivalgono al chimico-farmaceutico (21,7%), cui si aggiunge il 14,2% della meccanica.

PROIEZIONE INTERNAZIONALE E FORZA LAVORO
Le MEs sono per definizione delocalizzate, ma l’intensità con cui ciò accade è varia. Si possono esaminare diversi parametri per averne una misura. Il primo è dato dalle vendite realizzate all’estero (esportazioni più vendite estero su estero): l’Italia è fanalino di coda (68,7%), indietro rispetto alla Germania (76,1%), Francia (78,3%) e UK (85,6%); 10 p.p. sotto la media europea. Se poi si esclude il mercato di prossimità rappresentato dalle altre nazioni europee, le quote si riducono di molto, ma non varia il piazzamento italiano: Italia 36%, contro il 38% della Francia, il 42% della Germania ed il 64,4% dell’UK. Guardando ai mercati extraeuropei, le MEs europee, con il 47,5%, esportano meno delle nordamericane (52,3%) e delle Giapponesi (53,3%). Anche considerando i dipendenti insediati fuori dall’home country, l’Italia mostra un minor grado di proiezione internazionale: 1,2 dipendenti fuori, ogni uno in patria; meno di Germania (1,4). Francia (1,6) e ben sotto la media europea (2), tenuta alta dai Paesi “piccoli” che hanno quasi tutto oltre confine: la Svizzera (11,3 dipendenti esteri ogni uno in casa), il Benelux (5,8), la Svezia (5) e la Finlandia (3,2). Ma non mancano i campioni di casa nostra: la Pirelli & C. è 20esima (5,6 ogni uno in patria) e precede di poco la Luxottica (5,4) e la Parmalat (5,2), in una classifica guidata a livello mondiale dalle MEs svizzere: Clariant (32), Liebherr (31) e Nestlé (30). Nell’ultimo decennio il numero di dipendenti fuori dall’home country è cresciuto dell’11,6% in Europa e del 12,1% in Nord America; per contro, si è avuta una forte caduta di forza lavoro nel paese d’origine: -13% in Nord America, -16,7% in Europa. In alcuni casi l’emorragia di lavoratori nel paese d’origine non è stata compensata dalla crescita all’estero: Francia (-10,7% la variazione complessiva, +1,8% all’estero, -25,1% in casa) e UK (-12,3% la 6 variazione complessiva, +2,2% all’estero, -32,3% in casa). In Italia la riduzione domestica (-2,8%) è stata più che compensata da quella all’estero (+34%). In questa tendenza le società a controllo privato sono più aggressive di quelle a controllo pubblico: minore sviluppo
occupazionale nel decennio (5,6% vs 13,2%), maggiori tagli nell’occupazione domestica (-12,3% vs -5,9%), minore creazione di occupati all’estero (16,9% vs 48,8%). Questo dipende in parte dalla natura monopolistica in cui opera molta industria di stato.

LA DELOCALIZZAZIONE: NON SOLO IMPIANTI, ANCHE CERVELLI
Le MEs hanno oggi una controllata su cinque in paesi emergenti. E’ un dato sostanzialmente uniforme tra Nord America (17,8%), Europa (22,9%) e Giappone (17,9%). Anche in base a questo parametro la presenza italiana oltre confine è un po’ meno spinta: il 20,1% delle affiliate sta in paesi emergenti, contro il 22,6% francese, il 23,2% tedesco, il 29,4% dell’UK. Fatto 100 il totale delle affiliate in paesi emergenti, ecco dove stanno quelle delle MEs europee: 22% in Cina, 6% in India, 34% in altri paesi del Far East, 8% ciascuno in Brasile e Messico, 7% in Russia e 15% in Africa. Il solo BRIC fa il 43%. Ma è l’intensità della presenza nei vari paesi emergenti a differenziare molto i Paesi: l’Italia è relativamente poco presente in Cina, con il 13% delle proprie controllate, contro il 26% francese ed il 25% tedesco, ma è in linea negli altri paesi asiatici dove ha collocato il 32% delle controllate, un po’ sotto la Germania (38%), ma sui livelli della Francia (32%); importante la presenza italiana in Brasile (11%, contro l’8% medio europeo), soprattutto per gli insediamenti di Fiat, ed in Africa dove con il 26% delle affiliate (ENI ed Italcementi) l’Italia è ben al di sopra della media europea (15%) e dietro solo all’UK (44%). Meno noto che la delocalizzazione ha toccato anche le attività più pregiate, quelle dei centri di ricerca
la cui collocazione all’estero consente di trattenere i talenti locali e mantenere la prossimità con i luoghi di produzione (cross-fertilisation). In linea con quanto emerso sulle controllate, le MEs europee collocano il 22% dei propri centri di ricerca in paesi emergenti, quelle nord americane il 21,5%, quelle giapponesi il 16%. Le MEs europee trattengono nell’home country il 25% dei centri di ricerca contro il 41% delle Nord Americane, una differenza che si spiega con la scelta di
situare in altri paesi europei una parte di quei centri. Le MEs giapponesi mantengono invece sul proprio suolo la più parte dei centri di ricerca (53%). Le MEs italiane sono anche in questo un po’ più provinciali (ma forse è un bene?): il 37% dei centri è in patria (contro il 31% francese ed appena il 16,5% tedesco), superate solo dalle britanniche che mantengono in casa il 43% dei centri di ricerca.

NELLE MANI DI CHI SONO LE MULTINAZIONALI?
Il 68% delle multinazionali fa capo ad azionariato diffuso (c.d. public companies), di fatto controllate dai manager. Lo Stato ne controlla il 19% le famiglie il restante 13%. In Europa il controllo familiare (26%) prevale su quello statale (12%), lasciando circa il 60% all’azionariato diffuso. In Italia invece lo Stato si prende il 65% della torta lasciando un 33% alle famiglie. A livello mondiale il portafoglio statale è composto per il 42% da società energetiche (lo stato controlla circa il 50% di quel settore), per il 27% da utilities (ove lo stato ha in mano il 64% del settore) e per il 18% circa da TLC (lo stato ne controlla il 43%). Nel 2010 questo portafoglio ha fruttato ai governi 10,4 mld. di euro: il più vorace è quello Brasiliano (2,1 mld di euro), seguito da quelli scandinavi (1,7 mld), da quello indiano (1,2 mld.) e dall’italiano che ha incassato 1,2
mld (quanto quello cinese).

I PAESI EMERGENTI
Nell’ultimo decennio le vendite delle MEs hanno mostrato un andamento dicotomico. Hanno segnato una forte crescita le vendite verso i paesi emergenti: +55,6% quelle delle MEs europee, +19% quelle delle MEs americane, addirittura raddoppiate quelle italiane. Per contro, le vendite verso le economie mature hanno flettuto: -13,6% per le multinazionali italiane, -12,2% per quelle europee, -5,1% per quelle nordamericane. Ma le MEs dei paesi emergenti hanno una
sempre maggiore capacità di vendere a loro volta sui mercati esteri: quelle di Taiwan segnano percentuali di vendite all’estero assai ragguardevoli (87%), così come le russe (71%), sospinte dai prodotti energetici, e le sud coreane (70%). Minore la proiezione internazionale delle indiane (53,4%) e delle cinesi (35%) che hanno grandi mercati interni da servire. Negli ultimi anni (dal 2005) hanno però molto aumentato le vendite fuori confine: del 23% le MEs cinesi mentre le indiane hanno fatto addirittura un +120% (nel 2005 la quota di vendite fuori paese era appena del 24%). Si tratta dell’effetto della corposa campagna acquisti delle MEs indiane che hanno rilevato il gruppo siderurgico inglese Corus (takover di Tata Steel nel 2007), la metallurgica canadese Novelis (takover della Hindalco nel 2007) fino a Jaguar e Land Rover nel
2008 da parte di Tata Motors.

LA PRODUTTIVITA’: COMPETERE SUI COSTI O SUI RICAVI?
E’ noto che le MEs italiane tendono a privilegiare assetti produttivi in cui prevale un basso costo del lavoro pro-capite e, contestualmente, un valore aggiunto relativamente modesto. Si tratta anche del portato della nostra specializzazione, segnata dall’assenza di grande industria farmaceutica (quella a maggiore valore aggiunto) e da una contenuta presenza in settori high tech (il 10% circa del nostro fatturato viene da quei settori contro il 24% medio europeo). I dati
relativi all’ultimo quinquennio confermano questo profilo: il valore aggiunto netto per addetto (misura approssimata della produttività) delle MEs manifatturiere (esclusa l’energia) italiane è pari 57mila euro, al di sotto dei 73mila euro tedeschi (-22%) e dei 66mila francesi (-14%) e della stessa media europea pari a 74mila euro (-23%) che è sostenuta dai valori record delle multinazionali inglesi (110mila euro) e Svizzere (96mila euro). Il costo del lavoro per addetto delle MEs manifatturiere italiane è al disotto dei maggiori paesi europei: i nostri 42mila euro pro-capite si confrontano con i 47mila francesi (-11%), i 56mila tedeschi (-25%) ed i 49mila medi europei (-14%). Ne deriva un indicatore di competitività (dato dal rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto netto) che non pare avvantaggiare in modo decisivo le MEs italiane (74% contro il 72% francese ed il 78% tedesco), esponendole alla concorrenza delle MEs dei paesi emergenti che posso sostenere costi del personale inferiori fino al 60%: nel 2009 il costo del personale pro capite delle MEs russo asiatiche era di 18mila euro contro i 43mila italiani, a fronte di un valore aggiunto netto pari a 40mila euro, non enormemente lontano dai 51mila italiani (scarto del 20%).

R&S-Mediobanca

 


Allegati: Indagine_sulle_multinazionali_2000-2011.pdfhttp://firstonline-data.teleborsa.it/news/files/92.pdf

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