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Lo scontro Eni-Report è un evento storico per il Brand Journalism

Abbiamo letto diffusamente negli scorsi giorni dello scontro tra la più grande azienda italiana, l’Eni, e il più accreditato e temuto programma di inchiesta televisiva, Report, di Rai3.

La storia è nota, ed è stata subito chiara dall’attacco del pezzo: “Report ha cercato di ricostruire il percorso di quella che si sospetta essere una delle più grosse tangenti mai pagate al mondo. Parliamo di circa un miliardo di dollari che l’Eni avrebbe sborsato per l’acquisto della licenza per sondare i fondali marini del blocco petrolifero denominato Opl245 in Nigeria”. Come inizio non c’è male.. Nei panni del capo della comunicazione di Eni c’era di che preoccuparsi.

Eni era stata invitata a controbattere alla ricostruzione di Report attraverso interviste chiuse che, secondo l’azienda, sono state riportate solo parzialmente per non ledere la solidità dell’impianto accusatorio dell’inchiesta.

Secondo molti osservatori il caso è importante perché accrediterebbe ufficialmente la Social tv, cioè a quel fenomeno che integra il grande schermo della tv con il piccolo del mobile, tablet o smartphone, consentendo al pubblico dei social di interagire con quanto viene trasmesso in modalità brodcasting dalla vecchia televisione, invertendo quindi l’antico approccio del one to many.

Questo fenomeno in realtà è già ampiamente operante, su Twitter per tutte le tematiche della discussione politica, talkshow et similia,  mentre su Facebook per tutti i commenti relativi alle trasmissioni di intrattenimento: recente l’ottimo caso della finale di XFactor, ma anche per tutti i grandi fratelli, le fattorie, le isole, i naufraghi e via dicendo. Sia per i casi citati sia nel caso di Eni, questo fenomeno numericamente non ha ancora dimensioni paragonabili ai numeri della TV generalista.

Se però da questa vicenda c’è un insegnamento che davvero farà, se non scuola, da spartiacque tra il prima e il dopo, è che siamo di fronte a un caso strutturato di Brand Journalism di ampia visibilità nel nostro Paese. La comunicazione di impresa è profondamente cambiata con la presenza massiva di milioni e milioni di cittadini, clienti, telespettatori, utenti, consumatori attivi sui social network, mentre le imprese, anche le grandi, hanno fatto fatica ad adeguarsi (alcune lo stanno facendo adesso, altre nemmeno ora).

Avere aperto un canale corporate che può parlare a decine di migliaia di interlocutori nel caso di aziende come Eni, testimonia che è stata definita una strategia, è stato curato un real time management, che l’approccio del canale è di tipo informativo, che il media viene trattato come tale, come un vero e proprio giornale, e che al momento in cui serve può essere usato nel modo che abbiamo visto, controbattendo in diretta ad un media potentissimo come la tv generalista, con numeri certamente diversi, ma facendo sentire anche le proprie ragioni (e spostando la discussione successiva dei giornali dal merito al caso di comunicazione..).

Si è molto dibattuto sul merito di queste ragioni (l’azienda ha dato risposte parziali, si è difesa senza spiegare, in modo precostituito..), così come si è discusso se il format di inchiesta che non accetta il contraddittorio non nasconda un atteggiamento troppo strumentale al sostegno delle proprie tesi.

Ma qui non è in discussione il merito della vicenda; in termini di moderna comunicazione di impresa l’Eni ha potuto dare le risposte che ha dato perché si era già preoccupata precedentemente di attrezzarsi nel modo corretto aprendo i canali e parlando con il suo pubblico anche attraverso i social.

Molte altre imprese, non tutte per carità, ma davvero molte altre, credo che non avrebbero potuto farlo perché ancora non strutturate. Le imprese raccontano una storia anche se non hanno deciso di farlo, e il cliente moderno è progressivamente sempre meno disposto ad essere bersagliato da un flusso di informazioni monodirezionali, alle quali non può aggiungere o togliere nulla. I social gli hanno insegnato che può partecipare anche alla vita di una azienda o di una marca, può contribuire alla sua narrazione e addirittura co-generarne la reputazione.

Chi non ha aperto correttamente i propri canali corporate sui social e in rete, e non ha dei professionisti del Brand Journalism a cui affidare il compito di reagire in caso di bisogno, non avrebbe certo potuto rispondere come ha fatto l’Eni. Se ci sarà un effetto dal caso Eni/Report molto probabilmente sarà in questo senso: aiuterà a capire come si gestisce la comunicazione di una azienda ai tempi della condivisione sociale di tutte le nostre vite, abilitata dalla rete.

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