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Liberalizzazioni, la maggioranza blinda le ferrovie. Così FS tiene alla larga i competitor

Abbastanza normale che in una manovra economica in Italia si possa trovare un po’ di tutto. Da sempre le manovre sono infatti considerate l’unico treno sicuro ad arrivare in stazione. Peccato che stavolta la manovra voglia vedere arrivare a destinazione solo treni FS. Con buona pace per i venti di liberalizzazione (ben presto declassati a brezze) che dovrebbero accompagnare la manovra in questione.

Manovra, attualmente in fase di lettura al Senato, che all’articolo 8 – quello relativo alla vituperata “libertà di licenziamento”, mirato alla riforma del sistema della contrattazione del lavoro – ha visto approvato un emendamento presentato da tre senatori di maggioranza: Massimo Garavaglia, Gianvittore Vaccari (entrambi leghisti) e Paolo Tancredi (segretario della Commissione Bilancio del Senato, in quota PDL). Un provvedimento, quest’ultimo, in netto contrasto non solo con i propositi liberalizzatori della manovra, ma persino contro il senso stesso dell’articolo 8, che vuol dare maggior ruolo agli accordi aziendali rispetto a quelli nazionali.

E dunque, cosa accadrà al settore ferroviario? Attraverso una modifica del decreto legislativo 188/2003 (“Attuazione delle direttive 2001/12/CE, 2001/13/CE e 2001/14/CE in materia ferroviaria”) – già tentata durante una Finanziaria di due anni fa – tutti gli operatori privati del comparto saranno obbligati a scegliere un contratto collettivo di settore già esistente, tra cui quello delle Ferrovie dello Stato, peraltro scaduto nel 2007, e che non fa cenno all’alta velocità. Tutto questo a scapito di eventuali accordi, accolti con grande favore dal sindacato, già firmati o in corso di chiusura.

Un esempio calzante è l’accordo firmato da NTV – la società per l’alta velocità guidata da Giuseppe Sciarrone, che fa capo ai francesi di SNCF e ai soci italiani Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e l’imprenditore napoletano Gianni Punzo. L’accordo prevede aumenti della produttività e sistemi retributivi adeguati per i giovani formati e immessi sul mercato, insieme a un piano “benessere” aggiuntivo allo stipendio fatto di assistenza integrativa pensionistica e sanitaria, personalizzata in base alle esigenze e allo stato civile del singolo. Nulla da fare quindi. Per ora.

Se la manovra dovesse realmente andare in porto senza ulteriori modifiche, gli operatori dovranno quindi optare per il contratto nazionale degli autoferrotranvieri o per quello FS. Il risultato sarà l’aumento del costo del traffico merci – stimabile tra il 20% nel primo caso e il 30% nel secondo – con la probabile contrazione oltre che del mercato, del numero delle imprese ferroviarie, e l’inevitabile (ulteriore) riduzione della concorrenza. E ciò proprio in un periodo che, dopo la forte crisi del 2008, iniziava a far intravedere la luce con anche numeri notevoli in termini di assunzioni, caso raro nel settore.

È “incredulo” Giacomo Di Patrizi, presidente di FerCargo, l’associazione che riunisce le imprese private di trasporto ferroviario delle merci. “Non riesco a capire sull’onda di quale folgorazione alcuni senatori abbiano partorito questo incredibile emendamento che da una parte sembra fare a pugni con gli obiettivi della manovra finanziaria (mercato più libero) e dall’altra appare a tutti fuori dal mondo e dal tempo e che frena in maniera brusca il già complesso processo di liberalizzazione del settore nel nostro Paese. Questa è una proposta che non avrà altri effetti se non quello di chiudere ancora di più il mercato”.

Ma in pratica cosa cambia? Un ferroviere FS, rispetto a un normale “autoferrotranviere”, guadagna a parità di orario circa 200 euro in più al mese, e senza alcun riscontro produttivo. Non è che lavori di più, anzi ha più turni di riposo. Del resto basta confrontare le piattaforme sindacali del contratto nazionale di lavoro degli autoferrotranvieri – utilizzato da molti privati – con quello usato da FS (denominato AF, Attività Ferroviarie1). Il contratto AF è incredibilmente più rigido, con riposi molto lunghi post lavoro notturno (che nel merci è fondamentale), limitato ad un massimo di 80 notti l’anno, rispetto alle 4 notti massimo settimanali degli autoferrotranvieri. Peccato che nel settore merci la grande maggioranza del lavoro si svolga di notte, e che molti operatori abbiano scelto il contratto della Logistica, che consente un numero di notti di lavoro quasi illimitato (i treni merci sono inevitabilmente costretti a viaggiare in gran parte di notte).

Non parliamo poi della forte polifunzionalità degli addetti al trasporto ferroviario “normale” (non inquadrati nel contratto FS e senza i relativi privilegi), simile ai migliori standard europei, laddove invece nell’AF le mansioni sono rigidamente specificate. Le imprese ferroviarie private saranno costrette a doversi accollare notevoli extra costi oltre ad una minor efficienza del lavoro. E il tutto per una decisione – che si potrebbe definire improvvida, miope, illiberale e obiettivamente sbagliata – inserita all’interno di una manovra che dovrebbe essere orientata ad una liberalizzazione dei vari mercati. Ciò in netta controtendenza rispetto all’ondata liberalizzatrice che sta ricadendo sul trasporto ferroviario merci, dunque il primo mercato in questo settore ad essere liberalizzato, ma che vede una serie di barriere all’entrata che ne impediscono l’effettiva apertura.

Barriere disposte dall’incumbent (Trenitalia e RFI, società separate solo sulla carta), dalle normative e dalle scelte di Governo (si pensi alla Direttiva Presidente del Consiglio del luglio 2009, che ha permesso a RFI di “regalare” il 70% degli scali ferroviari a Trenitalia) e – in molti casi – delle Regioni. La Direttiva appena nominata ci porta ancora una volta alla mancanza di concorrenza, con specifico riferimento al caso merci. Oltre all’allocazione dei terminal, va considerato che senza contributi pubblici Trenitalia Cargo non sarebbe mai potuta sopravvivere all’ingresso nel mercato italiano di nuovi operatori privati, dai tedeschi di Deutsche Bahn agli svizzeri di SBB, passando per le italiane CFI, InRail e ISC, l’Interporto Servizi Cargo guidata da Gianni Punzo, addirittura portato ad abbandonare l’Unione industriali di Napoli a seguito del veto posto dall’AD di FS Mauro Moretti alla sua partecipazione alla squadra di presidenza (vedi Il Denaro, 25 novembre 2010).

Tornando ai contributi pubblici, nel periodo 2005-2009 (ultimi cinque anni di bilancio disponibili) Trenitalia Cargo ha ricevuto dallo Stato 587 milioni di euro di contributi per il servizio universale. Soldi che non sono stati assegnati tramite gare pubblica e su cui quindi non è possibile effettuare un controllo sulla reale corrispondenza col servizio prestato. Per non parlare degli oltre 4 miliardi di euro in contributi e sussidi dallo Stato e dagli Enti Pubblici Territoriali, anche attraverso accordi blindati che impediscono ad altri operatori di entrare nel mercato del trasporto passeggeri regionale in maniera competitiva, anche se prezzo e servizi sono di gran lunga migliori. Ne è l’esempio il recente fallimento della piemontese Arenaways, che sembrava essere la soluzione alle lamentele dei tanti pendolari Torino-Milano sulle cattive condizioni di viaggio con Trenitalia.

Normalmente l’impegno di un’azienda privata che offre un ottimo servizio senza chiedere sostegno pubblico avrebbe dovuto essere premiato piuttosto che ostacolato. Ma purtroppo le cose non funzionano così in Italia. E invece di cogliere un’occasione per aprire finalmente un mercato alla concorrenza, a servizi migliori e prezzi più bassi, ecco che una maggioranza presuntamente liberalizzatrice decide di porci una lapide sopra senza nessuna giustificazione razionale, a meno di voler dare ascolto a pettegolezzi relativi ad uno scambio politico tra l’A.d. di FS, Moretti, ed esponenti di Lega Nord e Pdl per mettere fuori gioco Luca Cordero di Montezemolo sia dal punto di vista economico che politico. Il tutto sulla pelle di cittadini e imprese. Ma, appunto, sono pettegolezzi…

*Partner di Open Gate Italia

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