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Kabul come Saigon, Siria e Libano al collasso, Bielorussia senza pace

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La fiaccola arriva a Parigi, la patria della Rivoluzione illuminista il cui motto resta emblema della Francia (liberté, egalité, fraternité), ma nella luce di quella fiaccola troppe ombre lunghe si sono riflesse più o meno nitidamente sullo sfondo dei Giochi Olimpici. Se le Olimpiadi hanno vinto la sfida con il COVID, non l’hanno vinta per l’anelito di libertà partecipativa che ormai troppo spesso viene negato in diversi Paesi. E tornano le richieste di asilo politico, come nel passato, durante la guerra fredda.

Se gli USA guidano la classifica del medagliere superando la Cina, la Russia, con l’acronimo ROC, ha partecipato a queste Olimpiadi senza poter far ascoltare o cantare l’inno, una situazione quasi paradossale per il team russo, che infatti schierava una squadra sotto dimensionata. È intorno a questi tre attori delle olimpiadi, dello sport come della geopolitica, che gravita un nuovo equilibrio mondiale, in cui Biden, il Presidente USA, ha cercato di sparigliare le carte già durante il G7 con un attacco frontale alla Cina e toni decisamente più moderati verso la Russia.

La politica estera è il tallone d’Achille di Biden (come lo era per Obama): se il mantra è ridurre la presenza in Medio Oriente e andare alla conquista dell’Asia per spezzare il dominio cinese, probabilmente il Presidente ha fatto male i conti con il COVID, che ha offerto ai regimi autoritari la possibilità di asservire le politiche restrittive pandemiche ai personali interessi del dittatore di turno, attraverso un controllo sociale facilmente manipolabile, e molto più difficile da gestire nelle moderne democrazie. Così si è passati dalle guerre commerciali alle guerre dei vaccini, per aree di pertinenza, fino alla ripresa dei conflitti territoriali. La Cina incalzata ulteriormente dalle posizioni USA ha rinsaldato il legame commerciale con Iran e Russia per preservare l’efficienza della gestione della Nuova Via della Seta, e la Russia dal canto suo continua a rimarcare il suo posizionamento diplomatico trasversale dal teatro di guerra siriano, ai tavoli di conciliazione di Doha per l’Afghanistan.

AFGHANISTAN, KABUL COME SAIGON

Gli americani se ne sono andati di notte e senza tante cerimonie all’inizio di questo mese dalla base afgana di Bagram, ed ora con i bombardieri e droni dalle basi qatariote cercano di dare manforte alle milizie governative e filogovernative, un botta e risposta che riflette una situazione che ormai vede l’arrembaggio talebano conquistare tre città principali e oltre dieci capoluoghi di provincia. E, secondo fonti militari Usa, in 90 giorni i talebani arriveranno a Kabul.

L’incontro fra la rappresentanza dei Talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar e il Ministero degli Esteri cinese evidenzia quanti interessi economici siano in gioco in Afghanistan, dove i Talebani traggono risorse economiche non solo dai dazi fatti pagare ai confini e imposti sul terreno conquistato (o meglio strappato con violenza alla popolazione residente), ma anche dallo sfruttamento delle risorse energetiche. Il dialogo con i cinesi è attivo tra alti e bassi da più di cinque anni, da quando è stato firmato un Memorandum proprio per inserire Kabul sulla Nuova Via della Seta: sono stati avviati così una serie di prestiti utili a gettare le basi anche per il collegamento ferroviario e aereo tra i due Paesi per il traffico commerciale. Tanto che l’Afghanistan è entrato di diritto nella banca multilaterale cinese, l’Asian Infrastructure Investment Bank.

È cruciale per la Cina rendere operativi i diritti estrattivi e commerciali su minerali preziosi e minerali rari (rame e litio, ma anche petrolio), anche per insediarsi definitivamente in un Paese dove l’esigenza di infrastrutture è enorme. Le società cinesi già presenti sono ancora poche e sono solo la punta avanzata di un fronte nutrito di investimenti che i cinesi sono disponibili a concentrare per rafforzare il dominio nell’Asia Centrale, come già fatto in Africa. Inoltre, il corridoio ferroviario disegnerà la mappa dell’alleanza attraversando l’Afghanistan sia verso l’Iran che verso il Pakistan.

SIRIA E LIBANO AL COLLASSO, STAGIONE CALDA PER IL MEDIO ORIENTE

E se la sconfitta degli USA, ma più in generale dell’Occidente, è evidente in Afghanistan non lo è di meno in Siria, a 10 anni dall’inizio del conflitto civile. Ancora una volta l’UE dovrà preoccuparsi dei flussi migratori che anche in questo caso destano apprensione, intrecciandosi con l’emergenza pandemica. Nel frattempo, la Russia guida l’asse diplomatico, condividendo il tavolo delle negoziazioni con Iran, Turchia e con il Presidente Assad come convitato di pietra. Gli USA ormai sembrano essersi accontentati di aver sconfitto l’ISIS ed anche in Siria sono stati protagonisti di un ritiro, se non di notte, sicuramente oscuro. La smobilitazione americana ha permesso ai Turchi di creare zone cuscinetto a danno dei curdi e di continuare a utilizzare con l’UE l’arma del ricatto finanziario sulla pelle degli sfollati siriani.

Il Governo siriano sta cercando di soffocare anche le ultime resistenze a Idlib e a Daraa per dare piena attuazione all’accordo siglato nel 2018, ma la pandemia ha peggiorato ulteriormente la situazione economica del Paese, dove scarseggiano cibo e beni di consumo.

Situazione economica aggravatasi anche in Libano, a un anno dalla terribile esplosione al porto di Beirut, dove perirono più di 200 persone e 6.500 furono i feriti, e dove finora non sono stati trovati colpevoli, anche se tutti erano a conoscenza della pericolosità della situazione.

I danni incalcolabili si sono aggiunti a quelli economici causati dal default della Banca Centrale Libanese del marzo del 2020 e dalla crisi bancaria che ha colpito direttamente i risparmiatori. A nulla sono valsi i pacchetti di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale, arrivati a superare i 10 miliardi di dollari Usa.

Basta considerare l’andamento della divisa locale (che ha perso il 95% del suo valore e attualmente tratta al mercato nero a quota 22.000 contro il dollaro, cioè 15 volte il cambio ufficiale a 1.500) per comprendere la gravità di una situazione al collasso dove mancano medicine, gas, elettricità e beni di prima necessità.

La Banca Mondiale parla della peggiore crisi finanziaria del Libano da oltre 150 anni. La totale assenza di decisioni politiche per frenare la catastrofe umanitaria che si prefigura resta incomprensibile. Oltre metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, secondo l’Osservatorio delle Crisi dell’Università Americana di Beirut. Il costo del cibo è aumentato del 700% e anche beni primari come assorbenti e pannolini sono introvabili, se non a prezzi altissimi.

Al tavolo della conferenza internazionale a Riyadh guidata dalla Francia e dalle Nazioni Unite si cerca di correre ai ripari in tutti i modi. Arabia Saudita, USA e Francia sono pronte a sostenere l’esercito libanese per evitare che il Paese cada in un caos civile, dove le armate di Hezbollah avrebbero la meglio se non arginate. Ancora una volta però l’intervento del Segretario di Stato americano Blinken si è dimostrato tardivo e iniquo di fronte alle dimissioni del Premier Hariri, osteggiato dal Presidente Aoun, legato direttamente al movimento radicale islamista di Hezbollah, definito come gruppo terrorista da molti Paesi (ma non dall’Ue) e con un suo militante resosi colpevole dell’uccisione dell’ex Premier Rafik Hariri nel 2005, a sua volta sostenuto in tutto e per tutto dall’Iran.

In nove mesi il governo uscente non ha combinato nulla, e il vuoto politico pesa sulle coscienze di un Occidente distratto dal COVID ma colpevole comunque di un errore di sottovalutazione sulle dinamiche dell’area, dove tutte queste situazioni di instabilità porteranno a guai grossi per il quadro mediorientale.

L’amministrazione Biden vuole rassicurazioni da un nuovo Governo per sbloccare i fondi del Fondo Monetario Internazionale, ma la bomba sociale rischia di esplodere. Basti pensare che in Libano l’approvvigionamento dei vaccini è ormai gestito dai privati.

E pensare che solo due anni fa il Presidente Aoun aveva giocato al rialzo tra la diplomazia americana e quella russa per garantirsi la sicurezza dei confini marittimi e terrestri con Israele, e cercare uno spazio di negoziazione sulla disputa delle riserve di petrolio e gas al largo delle sue coste. Una partita a scacchi con lo scopo di assicurarsi l’accesso ai giacimenti offshore di idrocarburi che avrebbero definitivamente arricchito il Libano.

I russi, forti della vittoria diplomatica in Siria, erano già pronti a farsi protagonisti della mediazione con Israele in cambio di investimenti sulle infrastrutture dei trasporti financo all’ampliamento del porto di Tripoli. Non stupisce quindi che solo lo scorso maggio la Ministra degli Esteri russa aveva annunciato un accordo con Hezbollah sia per risolvere la crisi di Governo in Libano che per le dispute territoriali in Siria. Ma la situazione politica si è complicata ulteriormente.

Tra pandemia e caos economico Hezbollah ha esteso la sua area di influenza nel Paese grazie al sostegno di fondi provenienti dall’Iran e così ha potuto inasprire lo scontro politico, bloccando gli aiuti internazionali. Ma anche qui, se il compromesso politico interno è di difficile soluzione, entra la variabile cinese a complicare il quadro diplomatico: Pechino dialoga con Hezbollah in chiave anti USA. I recenti lanci di razzi verso Israele non sono certamente beneauguranti per una soluzione nel breve termine.

BIELORUSSIA RIDOTTA LA SILENZIO

La Russia resta protagonista non solo negli equilibri mediorientali, ma anche in quelli nell’Europa orientale. A un anno dall’avvio della protesta civile, nata come risposta alla sesta contestata rielezione di Alexandr Lukashenko, continuano gli sforzi dell’attesa vincitrice di quelle elezioni, Svetlana Tsikanouskaya, per irrobustire le sanzioni da parte della comunità internazionale. C’è comunque un silenzio assordante ad avvolgere i processi contro studenti, studentesse e tutti i possibili oppositori o presunti tali al regime, perché la repressione è durissima e le manifestazioni sempre più deboli. In Bielorussia sono state arrestate oltre 35 mila persone, per non parlare della chiusura di radio e media regionali, in uno stillicidio di voci sempre più isolate e affievolite da una repressione senza precedenti. Le sanzioni da parte degli inglesi – in coordinamento con Canada, Usa e Unione Europea – sono state ulteriormente rafforzate di recente.

Lo scorso maggio due caccia bielorussi hanno costretto all’atterraggio un aereo civile della Ryanair in volo tra Atene e Vilnius. Come pretesto, il regime ha inventato la storia di una presunta bomba a bordo, ma in realtà il vero obiettivo della polizia di Lukashenko era arrestare uno dei passeggeri: Roman Protasevich, un giornalista dissidente di soli 26 anni. Un fatto senza precedenti nella storia dell’aviazione civile del dopoguerra.

Il Paese peraltro sta in piedi economicamente solo grazie al supporto finanziario della Russia, che ha rafforzato le risorse governative con nuovi prestiti, destinati anche all’apparato di sicurezza. Nonostante ciò, il deficit è cresciuto a dismisura, riportandosi ai livelli di crisi del 1990, e il sistema bancario e delle partecipate statali resta immobilizzato dalla scarsità di liquidità finanziaria, con un livello di NPL che ha superato la soglia del 15%.

Dopo il calo dell’1,9% dell’economia lo scorso anno, certamente ha pesato la disputa con la Russia, che ha ridotto drasticamente le forniture di petrolio al Paese provocando una contrazione del settore industriale, che è perlopiù in mano governative e conta per due terzi del PIL. Le esportazioni poi sono state penalizzate dal crollo dei prezzi dei fertilizzanti, che rappresentano il 20% delle esportazioni del Paese. Si è così raddoppiato il deficit della bilancia commerciale, per il peso delle importazioni rese sempre più care dalla svalutazione della divisa. Infatti il rublo bielorusso nel 2020 aveva già perso il 34% sull’euro ed il 22% verso il dollaro Usa. Con un potere d’acquisto così deteriorato e salari medi tra i 500 ed i 600 dollari usa al mese, si può comprendere lo stato di difficoltà delle famiglie, esacerbato oltretutto dalla situazione pandemica, oltre che dagli scioperi e dalle proteste che hanno colpito drammaticamente il mondo del lavoro. Non bisogna stupirsi così dell’impennata dei fallimenti societari e del crollo dei profitti del settore manifatturiero del 40%.

Tenendo conto che il 50% dell’export va alla Russia si può dire che questa tenga la Bielorussia sotto stretto controllo, con un ammontare totale di finanziamenti erogati che ha superato i 100 miliardi di dollari Usa, dei quali oltre la metà negli ultimi 10 anni, secondo gli analisti. Con i cinesi alla finestra e l’isolamento dato dalle sanzioni, ora il regime è vicino al collasso economico e vede assottigliarsi anche le riserve valutarie. E l’ipotesi di annessione alla Russia non è esclusa, anche se di fatto ciò già si intravede da un legame economico che è diventato ormai vitale per l’unico Paese europeo dove vige ancora la pena di morte.

CONCLUSIONE

Le prossime Olimpiadi invernali si terranno tra sei mesi a Pechino e la Cina, seppure in un’Olimpiade di serie B rispetto a quelle estive, cercherà di fare sfoggio della propria meticolosa organizzazione anche per l’apparato mediatico che sarà messo a disposizione di Xi Jinping, una fantastica vetrina per la sua politica e… per i prodotti cinesi. Inoltre gli interessi olimpici per certe nazioni, si sa, si sposano bene con nazionalismo e autoritarismo e vedono incrociarsi nelle gare sportive scontri atavici, come già ben percepito a Tokio.

Ma intanto in questi sei mesi le crisi civili e umanitarie raccontate dovranno trovare un argine perché gli equilibri geopolitici, anche se estendono la loro ombra lunga su questi avvenimenti sportivi globali, restano la priorità per quelle popolazioni per le quali le medaglie non contano più della sopravvivenza e di un futuro messo in forse dai troppi interessi che sembrano approfittarsi dell’emergenza COVID senza pietà né rispetto dei diritti civili.

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  • Un bene che gli Yankee triennio a casa dopo decenni di guerre inutili provocate a fino economici sulla pelle di molto popoli con la scusa di esportare la democrazia. Il dollaro presto non sarà più l'unica valuta di riferimento e lo stesso la borsa di New York.