È antica la questione giovanile in Italia. Questione intesa come difficile inserimento nel mercato del lavoro e faticosa ricerca di un alloggio, due aspetti strettamente intrecciati da una relazione di causalità: no lavoro, no casa. In questi termini si era presentata già oltre quarant’anni fa. La lunga serie storica delle statistiche sulla disoccupazione tra i giovani e sull’alta quota di quanti non studiano né lavorano (Neet, che ricomprendono i disoccupati) testimonia, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sua vetustà. Così come l’alta percentuale di quanti continuano a vivere nella casa dei genitori.
La crisi demografica e la rarefazione dei giovani
Negli ultimi anni due aspetti nuovi si sono aggiunti, entrambi di natura demografica: la rarefazione dei giovani, per via della bassa natalità, e la loro emigrazione alla ricerca di migliori opportunità.
La rarefazione dei giovani è l’effetto della glaciazione demografica, ossia della caduta della natalità oltre ogni previsione: non solo il numero di nati per donna in età feconda ha continuato a calare (nel 2024 si è toccato il record di 1,18), ma tale calo si cumula anche con la riduzione di donne fertili perché ne sono nate meno in passato. Il risultato è che le persone di 15-24 anni erano 9 milioni negli anni Ottanta del Novecento e ora sono 6 milioni; quelle di 18-34 anni erano 15 milioni nel 1992 e sono scese a 10 all’inizio del 2025. E ciò è avvenuto nonostante l’abbondante immigrazione.
La rarefazione proseguirà. Con essa evaporerà la questione giovanile, per mancanza di materiale umano?
Mica tanto, per via dell’altro aspetto nuovo: l’emigrazione dei giovani italiani. Un tempo loro, i giovani, usavano la voce per manifestare il proprio disagio. Oggi un numero ampio fa ricorso all’altro modo indicato da Hirschman: l’uscita. Se ne vanno. Nei quattordici anni 2011-2024 632mila 18-34enni italiani sono emigrati e, al netto di quelli che sono arrivati (magari nati in Sud America?), fanno -442mila. Numeri sottostimati, essendo quelli reali tra 1,5 e 3 volte più grandi. Inoltre, è crescente la quota di laureati: nel 2023, ultimo anno per cui è disponibile il dato, è stata del 43% per il totale del Paese, 49% per il Nord Italia, con un picco del 53% in Lombardia, il Veneto al 52% e l’Emilia-Romagna al 51%.
L’Italia non attrae talenti: il saldo migratorio giovanile è in rosso
Il fatto che vadano via anche e soprattutto dalle regioni settentrionali più ricche di reddito e opportunità e siano così istruiti dovrebbe essere già un campanello d’allarme. Che diventa una sirena urlante se si considera che ogni 9 giovani italiani che se ne vanno arriva un solo giovane cittadino dei Paesi avanzati, europei e non.
Naturalmente giungono invece centinaia di migliaia di giovani dal Sud del Mondo, alcuni anche con alta istruzione. Tanto che nell’ultimo Report dell’Istat si legge: +10mila il saldo migratorio totale 2019-2023 dei giovani laureati di 25-34 anni grazie all’ingresso di laureati stranieri dall’estero; il saldo migratorio dei giovani laureati italiani è -58mila, quello degli stranieri +68mila. Tuttavia, un conto è fuggire la miseria o la guerra, un altro è puntare a crescere personalmente e professionalmente in un contesto più avanzato di quello italiano. È comunque molto positivo che l’Istat abbia acceso un faro sulla nuova manifestazione della questione giovanile.
Per illuminare bene la questione e le sue origini, il Cnel ha istituito un gruppo di lavoro per analizzare la scarsa attrattività dell’Italia per i giovani dei Paesi avanzati; l’attività di questo gruppo sfocerà in un Rapporto che sarà presentato in autunno. Un tema fondamentale per il futuro del Paese, come ha illustrato con forza il presidente del Cnel, Renato Brunetta, su La Stampa del 26 giugno.
Giovani in fuga: non fannulloni, solo in cerca di opportunità
Possiamo, però, già iniziare a escludere alcune ragioni dell’emigrazione giovanile: i giovani non sono “choosy” (termine usato dalla ex-ministro Elsa Fornero) e nemmeno “bamboccioni” (altro ex-ministro, il compianto Tommaso Padoa Schioppa), altrimenti se ne starebbero a casa. Né sono traditori o serpi allevate in seno (opinione di molti, specie, ahinoi, tra gli imprenditori), perché fanno quello che è stato insegnato loro: puntare in alto. Non sono nemmeno fannulloni, altro aggettivo spesso udito da chi non riesce ad attrarli nella propria azienda, perché si sradicano pur di raggiungere i loro obiettivi.
Semplicemente hanno scoperto che altrove la cultura del lavoro è più avanti: consente di imparare, mettersi alla prova e conciliare professione e vita privata; riconosce il merito per i risultati e non per le ore spese in ufficio; dà valore e responsabilizza i giovani in quanto portatori di energia, innovazione e più aggiornata preparazione culturale.
Paradosso italiano: troppi laureati o troppo poco riconosciuti?
A proposito di quest’ultima, si assiste a una schizofrenia nel dibattito italiano. Da un lato ci si lamenta che non ci sono abbastanza laureati nel confronto con gli altri Paesi. Dall’altro si afferma che i giovani sono sovra istruiti rispetto all’occupazione che svolgono. La riconciliazione sarebbe nel fatto che ci sono troppo lauree umanistico-sociali e poche Stem. Però, altrove anche i laureati nel primo tipo di materie sono ben utilizzati e meglio remunerati perché hanno acquisito metodi e competenze che i diplomati non possono avere. Inoltre, l’Istat ha sottolineato che gli stessi giovani immigrati sono sovra istruiti rispetto all’impiego in cui sono impegnati.
C’è di più e di peggio. Nelle Considerazioni Finali del Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, c’è un grafico molto significativo: mostra senza equivoci che gli immigrati sono in Italia meno istruiti che negli altri Paesi avanzati (grafico riprodotto qui sotto). Similia similibus congregantur.
Imprese italiane a corto di visione: il problema non sono i giovani
L’impressione, confortata dalle storie narrate da tanti professori universitari, è che il mondo delle imprese nel complesso non sia in grado di assorbire persone più istruite. Invece di prendere atto di questa realtà e cercare soluzioni che facciano avanzare il Paese, fioccano studi sociologi dai quali risulterebbe che i giovani si fanno illusioni, si creano un immaginario del mondo del lavoro che non corrisponde alla realtà (italiana, però) e che sarebbe inadeguato il collegamento tra mondo della scuola e mondo del lavoro. Con questa narrazione vecchio stile, però, si rischia di farli fuggire, i giovani, ancor più numerosi, perché percepiscono che l’Italia non vuole cambiare e adeguarsi al passo degli altri Paesi europei avanzati.
In altre parole, le imprese continuano a formulare una domanda di lavoro che è basata sullo svolgimento di mansioni, le quali richiedono istruzione bassa (anche se magari con skills elevate), mentre l’offerta è di lavoro istruito. Così torniamo a una vexata questio: la dimensione e la specializzazione delle imprese. E quindi la mentalità degli imprenditori italiani.
Per il Paese nel suo complesso la nuova forma dell’antica questione giovanile pone un dilemma cruciale: è il mondo delle imprese che deve adeguarsi a un più alto grado di istruzione della popolazione o è il grado di istruzione che va tenuto a misura del mondo delle imprese? Non è affatto una domanda retorica.
Per aiutare a trovare la risposta più vantaggiosa per tutti val la pena sottolineare che le imprese avrebbero tutto da guadagnare ad adottare nella cultura del lavoro le best practice degli altri Paesi. E di non poche aziende in Italia: come ha affermato la ceo di una società farmaceutica, le persone più felici sono più produttive e i profitti salgono. Cambiare si può, si deve, perché conviene.