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Gianfranco Borghini: non c’è solo la recessione ad affossare l’industria italiana, ma altre 4 cause

La caduta della produzione industriale italiana è solo in parte riconducibile alla recessione in atto in Europa. In larga misura essa è dovuta a ragioni interne, di carattere sia strutturale che politico, ed è su queste cause che dovremmo cercare di intervenire per rovesciare la tendenza in atto. Queste cause sono, principalmente: 1) la drastica riduzione del numero delle grandi imprese e il conseguente venir meno di “drivers” adeguati in alcuni settori chiave dell’industria nazionale quali, ad esempio, le TLC, l’Informatica,la Chimica, l’automotive, etc; 2) la “solitudine” delle Medie Imprese nel momento in cui debbono realizzare il cambio generazionale ed internazionalizzarsi; 3) la mancanza di un sostegno adeguato da parte del sistema del credito che, in certi casi, assume il carattere di un vera e propria serrata e, infine ma non per ultimo; 4) il peso insostenibile delle tasse e dei contributi.

Ciascuno di questi problemi è conseguenza di scelte politiche sbagliate oltrechè della mancata realizzazione delle riforme. Valga per tutti il caso della privatizzazione della Telecom. Se fosse stata davvero “privatizzata”, e non invece “piratizzata” (depauperata cioè delle sue risorse e indebitata), Telecom avrebbe potuto realizzare la Banda larga molto prima senza dover ricorrere, come si è costretti a fare oggi, ai fondi della Cd.P. La caduta della produzione industriale può perciò essere vista anche essa come la conseguenza della mancata realizzazione delle riforme economiche, sociali e istituzionali che sono indispensabili per la crescita.

Si potrebbe dire che, in un certo senso è la “rappresentazione matematica” del fallimento politico della Seconda Repubblica. Il nodo da sciogliere è dunque quello delle riforme. In Italia esiste un formidabile blocco sociale e politico conservatore, del tutto trasversale, che comprende gran parte dei Sindacati e delle Associazioni Imprenditoriali e che accomuna forze di sinistra e di destra nonché caste e corporazioni di ogni genere e tipo. Un blocco che ha sino ad ora impedito che si riformassero la Scuola, l’Università e la ricerca. Che ha ostacolato la riforma del Mercato del lavoro e delle Relazioni Industriali.Che ha ingessato il paese limitando la mobilità e deprimendo la creatività. Un blocco conservatore la cui straordinaria capacità di resistere al cambiamento è all’origine del più drammatico problema italiano:il crollo della produttività.

La produttività è la risultante di uno sforzo sinergico fra le Imprese, la Scuola, l’Università, i Centri di ricerca, le Istituzioni e lo Stato. E’ l’indicatore principale non solo del dinamismo del settore economico ed industriale ma della capacità di innovare della società nel suo complesso. La sua caduta ci dà perciò l’esatta misura della gravità della crisi che stiamo vivendo. La crescita della produttività è l’unica leva che possiamo utilizzare per risalire la china e riposizionarci nel mercato mondiale e nella divisione internazionale del lavoro, ma questo oggi richiede riforme assai più che investimenti. Che cosa possiamo ragionevolmente fare? Dobbiamo moltiplicare in tutti i campi lo sforzo riformatore di cui il governo Monti ha dato alcune prime testimonianze.

Nel Mercato del Lavoro e nel sistema delle relazioni industriali dobbiamo orientarci con decisione verso la co-gestione. Nella Scuola e nell’Università dobbiamo affermare il principio del merito (per gli studenti) e quello della qualità (per gli insegnanti). Nella ricerca dobbiamo rinsaldare i legami dell’Università e dei Centri di Ricerca con le imprese mentre al sistema bancario dobbiamo chiedere di tornare a svolgere la propria funzione che è quella di sostenere lo sforzo produttivo e di investimento delle imprese. Riforme andranno fatte anche nella Pubblica Amministrazione. La spending review ha senso soltanto se è concepita come leva per ristrutturare la macchina pubblica. Se, cioè, promuove un nuovo modello di burocrazia e di Stato e, sopratutto, un nuovo modello di Welfare. Se si limitasse a tagliare qua e la servirebbe a poco.

Infine, dobbiamo attuare una efficace politica industriale. Nessun intervento a pioggia, ovviamente, ma un sostegno forte all’innovazione e alla internazionalizzazione. Non mille Progetti ma pochi Progetti speciali mirati, come la banda larga o il trasporto su rotaia. Accanto a ciò è indispensabile un dichiarato impegno ad irrobustire le nostre (poche) grandi imprese e a non ripetere gli errori del passato. Non c’è stata soltanto la vicenda di Telecom. C’è stata anche quella di Parmalat, che poteva benissimo restare Italiana, e c’è stata anche BNL. Difendere il nucleo strategico del sistema produttivo nazionale non è “statalismo” ma politica industriale. Oggi, accanto ad Eni, Enel (esempi virtuosi di rapporto con i privati) abbiamo solo Finmeccanica che rappresenta il più rilevante aggregato tecnologico del nostro paese. Se, per qualsiasi ragione, dovesse essere smantellato o seriamente indebolito il danno per il paese sarebbe enorme. Per risalire la china e recuperare produttività servono dunque riforme economiche e sociali. Ma l’economia e l’industria hanno bisogno anche esse di riforme istituzionali. Quelle che infatti non reggono più sono le architravi del nostro sistema istituzionale. Si può andare verso il semipresidenzialismo o verso il cancellierato, ma una cosa è certa: senza un grande cambiamento, paragonabile a quello realizzato nel dopo guerra, sarà molto difficile per l’Italia e per la sua industria evitare il declino.

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