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FOCUS BNL – Un fattore “I” per la ripresa: dall’immigrazione all’integrazione

Non è una coincidenza. Tra i grandi cambiamenti registrati in Italia nel primo decennio della moneta unica va iscritta la crescita verticale dell’immigrazione. Con l’euro, la globalizzazione e quella nuova divisione internazionale del lavoro che si è affermata con l’ingresso della Cina nel WTO, l’Italia è divenuta un polo di attrazione di correnti consistenti di migrazione in entrata, cambiando una storia secolare caratterizzata da un segno del tutto diverso. Gli ultimi cinque anni di crisi e di recessione hanno ulteriormente contribuito a plasmare questo nuovo rapporto che vede l’immigrazione al centro del complesso scenario di internazionalizzazione dell’economia italiana. Uno scenario in cui la sfida dell’integrazione, economica e sociale, degli immigrati costituisce una condizione necessaria per un percorso di ripresa.

Nel nostro paese nel 2001 la popolazione straniera ammontava a 1,3 milioni di persone. Oggi gli immigrati regolari sono in Italia oltre 5 milioni. Sono il 15 per cento di tutti gli immigrati presenti sul territorio della UE laddove il PIL dell’Italia costituisce solo il 12 per cento del prodotto dell’intera Unione europea. Più che in altri paesi d’Europa, in Italia la presenza degli immigrati costituisce un sostegno essenziale per l’economia. Lo indicano con tutta evidenza i valori dei tassi di occupazione. Tra i grandi paesi dell’eurozona l’Italia è l’unico dove il tasso di occupazione dei cittadini extra-comunitari supera i valori totali dello stesso.

Non solo. Se il tasso di occupazione totale è in Italia sensibilmente più basso che in Germania, Francia e nella media dell’Unione europea, esattamente l’opposto vale per il tasso di occupazione degli immigrati extra-comunitari. In Italia risulta occupato il 60,4% degli immigrati contro il 54,9% della media europea, il 54,6% della Germania e il 45,4% della Francia. Messo in altri termini, in Italia il contributo degli stranieri all’occupazione avvicina il nostro paese ai target dell’Agenda Europa 2020, che puntano ad un tasso di occupazione del 75%. Non altrettanto accade altrove.

Oltre al tasso di occupazione, un altro indicatore utile per comprendere l’apporto degli immigrati all’economia italiana è il tasso di attività, ovvero il rapporto tra le persone che lavorano o che comunque cercano un’occupazione e il totale della popolazione. Oggi il tasso di attività degli stranieri si attesta in Italia intorno al 71 per cento, otto punti al di sopra del grado di partecipazione al mercato del lavoro dei cittadini italiani.

Con tassi di occupazione e tassi di attività significativamente più elevati di quelli dei “nativi” italiani, i cittadini immigrati mostrano strutturalmente un tasso di disoccupazione maggiore di quello medio dell’intera economia nazionale. Il divario è di circa tre punti, il tredici contro il dieci per cento per ragionare sugli ordini di grandezza più recenti. Nondimeno, i tassi di disoccupazione registrati dagli stranieri in Italia risultano molto più bassi di quelli rilevati nella media europea o in paesi come Francia e Spagna. In Italia gli immigrati sono meno disoccupati che altrove in Europa.

La recessione colpisce duramente gli immigrati come i nativi. In Italia nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione è salito dal 7,4 al 10,1 per cento per gli italiani e dal 10,9 al 13,6 per cento per gli stranieri. Tra il 2007 e la metà del 2012 i disoccupati “italiani” sono cresciuti da 1.370mila a 2.334mila, a fronte di una popolazione “nativa” che si è ridotta di 1,5 milioni di unità e del tre per cento. Nello stesso arco di tempo i disoccupati stranieri sono aumentati da 136mila a 371mila, a fronte di una popolazione di stranieri regolarmente residenti che in cinque anni è cresciuta di due milioni di unità e del sessanta per cento.

Nonostante la lunga crisi finanziaria e la successione quasi senza soluzione di continuità di due recessioni, il numero degli stranieri che risultano regolarmente occupati in Italia ha continuato ad aumentare. Nell’arco dei cinque anni che vanno dalla metà del 2007 alla metà del 2012 l’occupazione straniera è cresciuta di 850mila unità, di cui 85mila nel corso degli ultimi dodici mesi. Senza l’apporto degli immigrati la perdita totale di occupati registrata nell’ultimo quinquennio sarebbe stata non di 350mila, ma di 1,1 milioni, di unità.

Il fatto se il lavoro degli immigrati si aggiunga o si sostituisca a quello degli italiani è un tema dibattuto a livello sia teorico sia empirico. Le evidenze raccolte da numerose indagini tendono a indicare che l’apporto degli immigrati sia andato in larga misura a colmare deficit di offerta della manodopera italiana in riferimento a tutta una serie di sbocchi professionali in genere, ma non necessariamente, scarsamente qualificati. In questo senso, il lavoro straniero si mostra più complementare che sostitutivo del lavoro italiano. Alcune interessanti evidenze raccolte dalla Fondazione Leone Moressa documentano come non siano rari i casi in cui, per determinati mestieri e professioni, nel periodo 2007-2011 il numero degli occupati sia cresciuto sia per gli immigrati sia per gli italiani. Allo stesso modo, numerosi sono i casi in cui l’aumento degli stranieri non ha comunque compensato il calo degli italiani.

Per l’economia italiana l’immigrazione ha rappresentato una sorta di “internalizzazione” dei cambiamenti prodotti dalla combinazione storica tra l’affermazione della globalizzazione e l’adozione della moneta unica europea. La globalizzazione e l’euro hanno cambiato il paradigma competitivo del settore trainante dell’economia italiana, quello esposto alla concorrenza internazionale. L’euro si è rivelato una moneta assai più forte e stabile di quanto era la lira. Questo, insieme al crescere della potenza industriale delle economie emergenti, ha contribuito a determinare un divario ampio nella convenienza economica tra produrre merci in Italia e produrle altrove. L’apporto dell’immigrazione ha consentito di attutire l’urto di questo cuneo.

Nel 2003 il salario medio annuo di un immigrato extracomunitario ammontava a 9.423 euro, pari al 50 per cento della retribuzione media di un lavoratore italiano. Nel 2011 il divario di compenso rimane consistente, ma scende dal 50 al 25 per cento. Un cammino di convergenza è avviato. Ma nel contesto di una dura e lunga recessione l’avvicinamento rischia di avvenire al ribasso. Invece che alla salita, economica e sociale, dell’immigrato verso una condizione media più elevata, ciò a cui si assiste oggi è lo “scivolamento” di porzioni consistenti della manodopera italiana in situazioni di durevole precarietà e debolezza economica. Una situazione difficile, che va contrastata con un disegno organico di tensione alla crescita e all’integrazione.

Giovani, immigrati, donne. Sono gli anelli deboli di una catena comune esposta ai medesimi rischi di sottooccupazione, dequalificazione, impoverimento. Per gli immigrati il circolo vizioso è ancora più odioso. Per gli stranieri gli effetti negativi della recessione sul lavoro non rappresentano solo un danno economico, ma anche un rischio di esclusione sociale. Sul lavoro, su un lavoro regolare, si fonda la possibilità di cittadinanza degli immigrati, stante la “prociclicità” delle norme attualmente in vigore. Sull’integrazione e, soprattutto, sulla valorizzazione della nuova imprenditoria degli immigrati – oltre 400mila imprese, specie di piccola dimensione – deve puntare il progetto di rilancio della crescita dell’economia italiana.

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