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Fca, il miracolo di Pomigliano: rivoluzione in 10 anni

Wikimedia Commons Osx

Dieci anni fa partiva da Pomigliano la rivoluzione di Marchionne nelle fabbriche Fiat, non solo sul fronte sindacale ma soprattutto per aver saputo coniugare per primo il rapporto partecipativo dei lavoratori con la nuova organizzazione del lavoro, quella che oggi è conosciuta come Industria 4.0.

Pomigliano non fu scelta a caso: sin dai suoi inizi, ai tempi dell’Alfasud, lo stabilimento era considerato una anomalia nel panorama industriale italiano per la sua scarsa produttività, l’assenteismo e la conflittualità.

Il progetto di fare uno stabilimento dell’Alfa Romeo, azienda dell’IRI, al sud nasce nel 1969 ( e la produzione sarà avviata nel 1972 ) per volontà di due “potentati” della Democrazia Cristiana, l’allora indiscussa longa manus nell’industria di Stato.

Il piano, pur se contrario il management dell’Alfa Romeo di Milano, fu favorito da una convergenza di interessi del torinese Carlo Donat Cattin, Ministro dei “lavoratori” nell’autunno caldo del sessantanove, come amava definirsi, e nemico giurato degli Agnelli, con la famiglia Gava, il padre Silvio ed il figlio Antonio, a Napoli.

Donat Cattin, una volta scomparso Vittorio Valletta, l’uomo che per cinquanta anni aveva guidato la Fiat e motorizzato il Paese, riteneva che si potesse condizionare il potere degli Agnelli in Italia entrando con l’Alfa Romeo direttamente sul mercato delle medie e piccole utilitarie che costituivano la forza della Fiat; i Gava vedevano nella localizzazione di un grande stabilimento automobilistico nel loro territorio l’opportunità di ampliare l’area della loro influenza.

Con queste premesse, da subito Pomigliano fu un insuccesso industriale: si combinavano infatti un prodotto e un impianto nuovi, nati da un progetto non condiviso dalla casa madre, con un contesto territoriale e una manodopera privi di tradizione industriale.

La vettura prodotta, l’Alfasud, in diretta concorrenza con la Fiat127, investiva un segmento di mercato completamente differente e non comunicante con quello tradizionale dell’Alfa Romeo. Il primo a non credere nel nuovo prodotto fu proprio il vertice milanese dell’Alfa, abituato a trattare una domanda di élite, e poco idoneo a spingere su un prodotto non identitario per il brand (come si direbbe oggi). Il risultato fu una strutturale sovra capacità impiantistica (980/vetture giorno) mai pienamente utilizzata e una endemica sovra capacità produttiva (circa 16.000 lavoratori) mai pienamente saturata.

Anche i lavoratori hanno giocato per molto tempo uno specialissimo ruolo per portare Pomigliano ad esempio negativo nel panorama dell’industria italiana.

Il peccato originale bisogna ricercarlo nella forza-lavoro iniziale che fu costituita dai “cantieristi”, ovvero dagli operai edili che, una volta costruito lo stabilimento, furono assunti, dopo scioperi e blocchi stradali, e dai “segnalati”, sia direttamente che per il tramite degli uffici pubblici di collocamento con gli avviamenti numerici dell’epoca, con una suddivisione partitica quasi da manuale Cencelli.

Nasceva una “nuova” classe operaia, più interessata alle guarentigie del posto di lavoro fisso che al lavoro: scarsa produttività, assenteismo, conflittualità saranno per molto tempo i tratti distintivi dell’operaio dell’Alfasud.

Anche dopo che l’IRI avrà venduto l’Alfa Romeo alla Fiat nel gennaio del 1987, i lavoratori di Pomigliano continueranno a ritenersi “operai dell ‘Alfasud”, nonostante il ricambio generazionale avvenuto nel corso degli anni con l’uscita del personale per prepensionamento (quello assunto nei primi anni settanta) ed assunzione di giovani in sostituzione.

Nel gennaio 2008 la svolta decisiva: la Fiat propone ai lavoratori di Pomigliano la sottoscrizione di un patto strategico che, se accettato fattualmente con i loro comportamenti, avrebbe portato lo stabilimento al livello della migliore concorrenza e creato le condizioni per destinare a Pomigliano la produzione di nuovi futuri modelli.

L’ impegno aziendale si sarebbe realizzato attraverso un importante piano di investimenti tecnologici (nell’arco dei successivi 24 mesi saranno installati più di 800 robot interconnessi) ed un pesante intervento di formazione dei lavoratori.

Per la prima volta non solo in Fiat ma in Italia, per circa due mesi, gennaio e febbraio 2008, veniva sospesa la normale attività produttiva, a mercato aperto, per procedere a una completa riorganizzazione del processo produttivo secondo i principi della nuova organizzazione del lavoro del World Class Manufacturing.

Con il WCM, che vede per ciascun posto di lavoro la sincronia fra l’uomo e i processi tecnologici, si abbandonava la vecchia divisione tayloristica del lavoro tra il capo che dispone e l’operaio che esegue e si approdava alla fondamentale necessità per l’azienda di un reale coinvolgimento dei lavoratori, visto non solo come semplice consenso agli interventi innovativi, ma come consapevolezza di tutti gli obiettivi relativi alle proprie aree di lavoro.

Nello stesso periodo veniva realizzato un piano di formazione di tutti i lavoratori finalizzato a generare nel personale atteggiamento di autostima e comportamenti lavorativi in linea con gli obiettivi produttivi e qualitativi di uno stabilimento con le migliori pratiche: come, ad esempio, un tasso di assenteismo fisiologico da attestarsi su 1,5-2 punti percentuali contro il 6-7% precedente, un indice di frequenza degli infortuni da 1,8 a zero, il passaggio dai 126 episodi di microconflittualità del 2007 a zero per gli anni successivi, un indice di propositività da 2 a 8-10 proposte/anno per lavoratore.

Tutti i costi della fermata, per oltre 100 milioni di euro, furono a carico della Fiat, comprese le retribuzioni e i relativi contributi previdenziali e assistenziali: un piano straordinario per il rilancio industriale di uno stabilimento che non ha richiesto alcun intervento pubblico di sostegno finanziario.

Per segnare un netto taglio con il passato, e con la memoria dell’Alfasud, lo stabilimento di Pomigliano è stato infine intitolato al filosofo napoletano Giambattista Vico.

I risultati ottenuti con il programma di formazione dei lavoratori e la nuova organizzazione del WCM hanno creato il “miracolo” per raggiungere, consolidare e migliorare nel corso degli anni successivi gli obiettivi dello stabilimento in termini di efficienza e di qualità.

Tanto è vero che nel 2017, e per il terzo anno consecutivo, lo stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano ha conseguito il livello di eccellenza del sistema WCM (primo, a pari merito con Verrone, tra i più importanti stabilimenti del Gruppo come Melfi, Cassino, Mirafiori, Sevel o Magneti Marelli) ed i suoi lavoratori, con lo stipendio di febbraio, hanno ricevuto l’importo più alto, pari a 1580,00 euro, del bonus contrattuale per i risultati raggiunti.

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