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Fca: a Melfi la fabbrica torna sul palcoscenico

“La Fiat di Melfi? Più che una fabbrica è una università sperimentale. Qui si studia “Lavoro e management” come in nessun’altra parte d’Italia”. Il copyright di questa sintesi è di un ragazzone sorridente, biondo e altissimo. Uno yankee, diresti, e invece è di Palermo. Fa l’ingegnere, si chiama Bartolomeo Càllari e fa il capo della lastratura, ovvero sovraintende alla danza dei 680 robot che qui saldano le lamiere di circa 1500 Jeep Renegade, Fiat 500X e Fiat Punto al giorno, più di una vettura al minuto, giorno e notte, e – come non accade neppure in Germania – per 7 giorni a settimana, domenica compresa.
Melfi è la prima fabbrica d’auto europea a ciclo continuo, una roba che a giugno anche i manager della Bmw sono venuti ad osservare da vicino. E non solo perché questo bellissimo angolo del Sud è ormai fra i primi poli industriali d’Italia visto che, con le 1.500 assunzioni di giovani scadenzate fra gennaio e aprile e le altre 500 di giugno, qui lavorano 8.000 persone che diventano 11.000 con i 16 plant di fornitori collocati fin dal ’93 (qualcuno ricorda la “fabbrica integrata” di romitiana memoria?) di fronte allo stabilimento Fiat.

UN LABORATORIO SPERIMENTALE
DI LAVORO E MANAGEMENT

L’interesse dei tedeschi riguarda soprattutto la qualità del lavoro italiano. Lo capisci quando Càllari, prima di illustrare le meraviglie tecnologiche dell’impianto, ti porta davanti a un gigantesco tabellone 15X3 pieno di disegni simili a quelli che si vedono nelle scuole. “Queste sono le proposte di miglioramento della fabbrica formulate nei mesi scorsi dai gruppi di studio di operai – spiega Càllari – Dietro i robot c’è un grandissimo lavoro umano”.

Già. Perché superando i cancelli di Melfi si entra in un modello di fabbrica dove, contrariamente a quello che è successo in moltissime aziende italiane, l’evoluzione del prodotto sta assegnando maggior valore al lavoro e lo sta cambiando, in meglio, con una profondità che non t’aspetti. In questo “laboratorio” Fiat sta passando dalla produzione di auto “semplici” a vetture più complesse e costose, destinate non più solo all’Europa ma all’export in tutto il mondo. Quindi Sergio Marchionne in questo angolo di Sud ha chiesto e programmato lavoro più qualificato, organizzato molto bene e meno faticoso. Qui il prodotto dà futuro e impone un modello di lavoro costruito con una merce rara in Italia: la motivazione. 

Per questo motivo lo stabilimento lucano è la prima grande fabbrica italiana le cui linee produttive – con un lavoro durato 18 mesi – sono state progettate assieme da ingegneri e gruppi di operai in un apposito capannone che si chiama Workplace Integration, “Pilotino” per gli italiani. Qui, e anche questa è una primizia, si sta aprendo una prima, grossa crepa nel vecchio muro tra lavoro operaio e mansioni impiegatizie: a Melfi infatti – come vedremo meglio – gli operai non eseguono solo operazioni manuali ma “firmano” le loro operazioni su computer presenti in ognuna delle 400 postazioni di lavoro. Ancora: qui è possibile veder circolare psicologi nello stabilimento intenti a studiare quella che gli addetti alle risorse umane chiamano “la chimica della fabbrica”, quell’insieme di rapporti umani che in passato, nel modello “fabbrica caserma”, l’azienda nemmeno inquadrava nei suoi radar. 
Nella periferica Basilicata, infine, si intravede un nuovo capitolo della storia del sindacato italiano che si trova di fronte a problemi fuori dagli schemi della crisi. Non foss’altro perché per via dei notturni, degli straordinari e delle domeniche gli stipendi sono alti: viaggiano fra i 1.500 e i 2.000 euro netti al mese in un’area dove un affitto brucia al massimo 300 euro al mese.

ADDIO FABBRICA-CASERMA
CAMBIA IL MODELLO DI BUSINESS

Attenzione, però, mettiamo subito da parte Adriano Olivetti e la sua utopia di fabbrica “a misura d’uomo”. La forza del modello Melfi, un gigante figlio dell’esperimento iniziato nel 2010 a Pomigliano e ancor prima sulla linea della Mito a Mirafiori, sta nel fatto che siamo in presenza di un preciso modello di business: tutto quello che leggete serve a produrre utili. Anzi: molti utili. Necessari per ripagare e incrementare il miliardo di euro investito.

Per capirlo bisogna visitare il reparto montaggio, regno dell’ingegner Ennio Meccia, un molisano purosangue che parla un ottimo inglese. Qui, dietro un semplice cristallo che li separa dalla catena di montaggio, lavorano gli impiegati e i quadri della fabbrica. Niente muri pro-imboscamento. Differenze con gli operai ridotte al minimo: gli impiegati lavorano alla scrivania, ma in tuta. E anche Meccia (così come Càllari) così come il direttore della fabbrica, Nicola Intrevedo, portano la stessa tuta bianca e grigia degli altri 8.000 lavoratori. Accompagnando Meccia lungo le linee si percepisce che per gli operai il “capo” non è uno sconosciuto (temuto/odiato) mega-dirigente, come accadeva nella vecchia fabbrica dove la separazione fra operai e dirigenti era simboleggiata dal “giacca e cravatta” dei secondi. 

DIRIGENTI IN TUTA
E LAVORO IN SQUADRA

E infatti i Càllari e i Meccia girando per la fabbrica finiscono per raccogliere informalmente dagli operai informazioni e giudizi sulle piccole imperfezioni riscontrate day by day nel funzionamento di macchinari e computer in linea. Si, dei computer. Perché a Melfi anche gli operai lavorano al computer. Svolgono mansioni semplici perchè, se tutti i neoassunti sono diplomati e laureati, ben 4.000 operai di Melfi hanno la terza media, ma ora non sono più “imprigionati” nella sola manualità. In ognuna delle postazioni di montaggio c’è lo schermo di un computer sul quale gli operai segnano le operazioni più delicate che compiono. “E’ un sistema che ha solo la Fiat di Melfi in tutt’Europa – spiega Meccia – Ci consente di seguire passo passo ogni vettura che ormai hanno una enorme quantità di varianti, di intervenire subito quando nascono problemi, di memorizzare un’immensa quantità di dati”.

E chi vi avverte dei problemi? “Una nuova figura operaia: il team leader”, risponde Meccia. Il team leader è un operaio che non lavora con le mani. A Melfi ce ne sono circa 400 che coordinano il loro “dominio” (si chiama proprio così)  composto da sei loro colleghi della loro squadra. Sono a tutti gli effetti dei micromanager che verificano la qualità del prodotto, sciolgono i mille piccoli nodi che scandiscono ogni giornata di lavoro, gestiscono i permessi e soprattutto non fanno mai sentire gli operai “soli e abbandonati”. “Da quando faccio il team leader mi incazzo molto di più ma non mi sento un numero e mi è nato dentro l’orgoglio per la mia fabbrica”, spiega Luciana Mecca una veterana della fabbrica di Melfi.

Ovviamente, non tutto ciò che luccica è oro. Una ricerca condotta dalla Fim e dal Politecnico di Milano ha messo in luce che in alcune fabbriche Fiat i team leader si comportano come “capetti” più che essere il “motore della collaborazione” come prevede il nuovo modello di lavoro. A Melfi poi su questo fronte si segnala un fatto nuovo: alcuni ingegneri neoassunti sono stati inquadrati proprio come team leader. E’ un po’ come se la Fiat dicesse loro: volete fare carriera? Dimostrate cosa valete partendo dal basso. Anche perché la parola d’ordine collettiva è chiara: fare squadra. Tutti. Tanto la vecchia “fabbrica caserma” era verticale fotocopiando il più classico schema militare, così la fabbrica 4.0 è orizzontale, a bassissima gerarchia. Non a caso nel nuovo contratto Fiat, fresco di firma per i neoassunti sono previsti solo tre livelli gerarchici – operai, quadri e dirigenti – contro gli otto attuali. Un sistema semipiatto voluto proprio per coronare la nuova religione delle nuove fabbriche Fiat: il “team building”, la costruzione della squadra.

CALA IL RUOLO DEL SINDACATO
CRESCE IL CONSIGLIO DEI DELEGATI

“Tutto positivo, ma sui team leader i quadri dirigenti della Fiat sembrano indecisi fra i nostalgici della fabbrica caserma che li considerano piccoli gerarchi e chi vuole un vero coinvolgimento degli operai”, sottolinea Donato Rosa, delegato sindacale Uilm, il più votato a Melfi. Già. E il sindacato? E’ il grande “buco nero” di questa storia. Non è chiaro come il sindacato si stia attrezzando al rimescolamento delle carte fra lavoro operaio e impiegatizio. Nel contratto è previsto un sistema di premi di fabbrica che salgono al diminuire dei costi dello stabilimento. Dunque gli operai sono incentivati a fare proposte in cambio di un bel gruzzolo di soldini: fra i 7 e i 10 mila euro nei prossimi quattro anni. Gli stessi operai poi possono rivolgersi al team leader per avere un permesso o proporre/chiedere piccole migliorie. E’ evidente che l’azienda ormai dispone di un canale diretto e capillare di comunicazione con i propri dipendenti. E non a caso a Melfi l’egemonia aziendale non è mai stata così profonda: l’assenteismo è al 3%; i turni, anche se scomodi, sono stati accettati al piccolissimo prezzo di qualche urlo in una assemblea; l’ultimo sciopero della Fiom ha raccolto 29 operai sui 1.500 al lavoro.

Allora una delle domande di fondo che aleggia in questa “Università del lavoro” è pesantissima: nella fabbrica della collaborazione a che serve il sindacato? Alle recenti elezioni per i delegati, i cinque sindacati firmatari del contratto Fiat (Cisl, Uil, Fismic, Ugl e Quadri, con la Fiom esclusa) hanno raccolto il voto del 93% degli operai. Dato da prendere con le molle: nei paesi del Sud gli amici votano per amici e compaseani che poi devono restituire il favore. Ma questa volta per i delegati eletti non sarà una passeggiata. Con il nuovo contratto – sul modello dell’analoga struttura tedesca – il consiglio dei delegati ha il potere (prima riservato ai soli sindacati) di indire scioperi a maggioranza e ha la missione di confrontarsi con la direzione della fabbrica per risolvere assieme i mille problemi della gestione dell’immenso bestione industriale lucano. L’ennesimo esperimento di ampio respiro. Non c’è che dire: con Melfi la fabbrica è tornata alla grande sul palcoscenico del lavoro italiano.

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