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Elettrodomestici, la folle illusione costata 1.000 megastore

FIRSTonline

Nel 2000 i punti vendita dell’elettronica di consumo e degli elettrodomestici erano circa 1.800. Poi hanno comincato a correre, e i retailer facevano a gara a chi ne apriva di più, tutti kolossal und piramidal. Tra lazzi, frizzi e cotillons. Salivano vendite, profitti e mq anche perché era appena cominciata la rivoluzione del digitale dei tv piatti e degli smartphone. Nel 2008 il totale dei punti vendita era vicino a quota 3mila (erano circa 2.800). Ma la realtà presto divenne preoccupante: troppi negozi, molti inutili, tanti in perdita, mentre le aperture continuavano perché ogni nuovo negozio aumentava il perimetro delle vendite con una illusione ottico-monetaristica del tutto errata. Finita la sostituzione dei vecchi tv a tubo catodico con i nuovi flat tv, il boom si è sgonfiato e son cominciate le promozioni selvagge, autolesionistiche, i bilanci di molti retailer hanno dimostrato i rischi dell’espansione a tutti i costi. I prezzi medi intanto scendevano e con questi i margini. Anche i punti vendita e nel 2010 il totale era già sotto i 2.500, nel 2013 intorno ai 2.200 e oggi siamo sotto i 2mila, più esattamente a quota 1.870. Un salasso di addetti ma anche un crollo disastroso dovuto a imperizia finznaziaria, mancanza di strategie a lungo termine e a molti altri “perché” che nel generale clima della crescita non hanno avuto risposta ufficiae. E sullo sfondo un gigantesco interrogativo rimasto tale: qualcuno sa qualcosa delle gigantesche ondate di denaro che hanno cercato e trovato ampi spazi nell’espansione della distribuzione?

Perché tante mega show-room al Sud?

Un passo indietro verso gli anni ruggenti delle aperture consente di approfondire il cumulo di aperture a getto continuo che caratterizzò il retail nelle regioni del Sud, quelle cioè più povere. Ancora adesso ben pochi di coloro che avrebbe dovuto indagare e analizzare queste bolle della distribuzione al Sud, lo hanno fatto. Proviamo a farlo ora, in mezzo a diffidenza, bocche cucite (“è meglio lasciar perdere”). Per esempio nei decenni di espansione strane manovre nella regione più povera (insieme allla Basilicata e alla Sardegna), e cioè la Sicilia, hanno portato a numeri enormi i punti vendita, per di più non giustificati dal serbatoio di clienti con redditi decisamente poveri, anche miseri. Ed ecco concentrazioni gigantesche di punti vendita di tutte le catene e gruppi (sino a 15mila mq, a Misterbianco nel catanese per esempio, e non l’unica). Non solo: a distanza di 15 km era stato aperto un centro commerciale gigantesco con altrettanti impavidi retailer tra loro distanti solo qualche decina di metri e pur trattando gli stessi identici prodotti. Hanno resistito a lungo, pur semivuoti, pur nel declino vistoso di margini e clienti.

Da Misterbianco ad Afragola

E, incredibile, mentre la crisi cominciava nel 2008 a “mordere” facendo chiudere nelle altre regioni il numero dei negozi, in Sicilia addirittura i negozi del settore salivano dai 221 del 2008 ai 277 del 2009. Un altro dei non pochi esempi di gigantesche concentrazioni è stata Afragola, un’area che in Campania detiene record di presenze di camorra&Co, dove tutti ma proprio tutti i brand della GD (grande distribuzione), della GDO (grande distribuzione organizzata), della GDS (Global distribution system) e delle mini catene indipendenti avevano aperto spazi in una gigantesca fusion tra alimentari, tecnologie, casalinghi, gioielleria, fai-da-te e così via. Nessun serbatoio di clienti avrebbe mai potuto sostenere a lungo la sopravvivenza economica di queste enormi concentrazioni ma quel che stupiva e stupisce è che vi fossero stati tanti capitali per avviare tante iniziative e anche a lungo. E solo in Calabria all’espansione del retail ha corrisposto un’attenzione meritoria di chi doveva indagare; a Rizziconi per esempio, dove il mega centro commerciale Il Porto degli Ulivi (oltre 37mila mq) era stato realizzato con i fondi di imprenditori collegati strettamente alla ‘drangheta e come tali processati e condannati.

Promozioni e chiusure di fabbriche

Quando, negli ultimi tre anni, alla crisi dei consumi si è aggiunta l’avanzata dell‘e-commerce, quella con prezzi stracciati, l’assenza di servizi e qualità, sono stati travolti anche brand storici importanti del nord e del centro Italia. E’ per questo che Aires, l’associazione che riunisce le catene e i gruppi del retail dell’elettronica di consumo e degli elettrodomestici, ha creato Optime, Osservatorio permanente per la tutela del mercato dell’elettronica per il controllo della correttezza degli operatori commerciali dell’on-line. Spesso alcuni di questi operano evadendo pesantemente i pesanti obblighi fiscali del settore. Ma dare la colpa alle vendite on-line, come gran parte dei retailer usa fare, non spiega l’entità della crisi; serve a misconoscere gravi errori strategici e tattici messi in atto da anni come per esempio la gara a praticare la politica suicida del taglio dei prezzi, a carico dei produttori, che ha progressivamente coinvolto segmenti che, come la fascia alta dei prodotti, il built-in e i grandi elettrodomestici, andavano preservati. E che ha contribuito alla delocalizzazione di decine di fabbriche europee con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Nel 2011 gli addetti dell’industria italiana degli elettrodomestici erano circa 150mila (fonte Anie) e nel 2017 erano scesi a 35mila (fonte Ceced Italia). E oggi accade che i prezzi di Amazon spesso siano superiori a quelli di molti volantoni e in certi casi anche a quelli medi del negozio. Nomi storici della distribuzione qualificata come la Derta dei Sonato (il mitico Albino, presidente Euronics a lungo), Galimberti, Castoldi, sono o scomparsi o entrati in un’avvitante crisi. In crisi i 40 punti vendita della società Piccinno, a marchio Trony, che fa parte del gruppo GRE; Piccinno aveva preso in gestione nel 2013 Fnac Italia, un boccone indigesto di ben 30 punti vendita, in difficoltà Mediaworld Italia che tra chiusure e trasferimenti di addetti sta tentando di tornare ai floridi bilanci degli anni d’oro.

 

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Categories: Economia e Imprese

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  • Come sempre un'analisi impietosamente lucida e precisa da parte di Paola Guidi. Da consumatore posso solo aggiungere che il progressivo degradarsi del livello di servizio nei punti vendita "fisici" aveva fatto perdere loro, ai miei occhi come penso agli occhi di molti consumatori, ciò che li distingueva dalle piattaforme online: il contatto umano e il servizio, appunto. Nessun addetto vendita a disposizione (bisognava dar loro la caccia come agli ultimi esemplari di marsupiali in via d'estinzione), e quando ne catturavi uno si dimostrava spesso impreparato e di poco aiuto. Depersonalizzazione del servizio ecc... Risultato: acquisto su amazon, e spesso le chat in diretta con i rivenditori sono molto più soddisfacenti che con gli annoiati (e preoccupati) commessi dei megastore.