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Economia e finanza: le 9 false verità che il Covid ha fatto a pezzi

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Carlotta Scozzari, giornalista economico-finanziaria di Business Insider, ha appena pubblicato con goWare un libro, “False verità. 9 incrollabili dogmi di economia e finanza in bilico dopo la pandemia del Coronavirus”, che è frutto di una riflessione a caldo, ma ben meditata e documentata, sull’impatto della crisi del Covid-19 sulle nostre (false) certezze economico-finanziarie cristallizzatesi a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.  

La Scozzari denuda nove false verità – e probabilmente sono molto di più: 1. L’economia è globale; 2. Il Pil mondiale crescerà sempre, 3. La banca è sotto casa, 4. L’inflazione è sparita, 5. Il petrolio non andrà mai a zero, 6. L’oro non tradisce mai; 7. Il mattone dà sempre soddisfazione; 8. La sharing economy e il low cost sono il futuro; 9. L’economia verde richiede tempi lunghissimi.

Siamo lieti di offrire ai nostri lettori un ampio estratto dal libro. Il testo integrale della settima “falsa verità”, quella che riguarda l’inossidabilità dell’investimento nel real estate. È un argomento che può veramente riguardare il portafoglio di tutti noi. 

Buona lettura

Parola di Trump 

«Beh, l’immobiliare è sempre un buon investimento per quel che mi riguarda»: parola del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. La ricchezza netta dell’uomo più potente del mondo, accumulata in gran parte grazie agli affari nel real estate (la Trump Tower di New York non si chiama così per caso), nell’estate del 2019 viene stimata da Bloomberg a 3 miliardi di dollari.  

«Prima di tutto – si presenta Trump in un’intervista a Larry King per la CNN – sono un ragazzo del real estate. Questo è quel che amo. Non riconoscerlo sarebbe come non riconoscere il mio lavoro quotidiano». Trump non è certamente l’unico a pensare che il mattone dia sempre soddisfazione all’interno di un portafoglio di investimenti. Ma è davvero così o il Coronavirus sta smascherando anche questa verità? 

Prezzi delle abitazioni giù in 10 anni 

Già nell’ultimo decennio, prima ancora che il Covid-19 arrivasse a sconvolgere le nostre vite, chi avesse deciso di investire nel vecchio, caro mattone italiano avrebbe potuto facilmente perdere denaro. È interessante notare come se, da una parte, l’indice dei prezzi delle nuove abitazioni viaggi sopra il livello di partenza del 2010, dall’altro lato, le quotazioni delle case già esistenti abbiano fatto segnare una forte contrazione, che nel decennio ha spinto al ribasso l’intero paniere.  

In un’ottica di più breve periodo, commenta la nota dell’ISTAT di fine marzo 2020:  

«I prezzi delle abitazioni chiudono il 2019 con una diminuzione di appena un decimo di punto rispetto al 2018 e con un trascinamento sul 2020 di poco positivo, segno di una sostanziale stabilizzazione dei prezzi del mercato immobiliare residenziale. Ma il dato nazionale – mette in guardia l’ISTAT – è la sintesi di andamenti territoriali molto eterogenei con il Nord-Ovest e il Nord-Est in crescita e il Centro e il Sud e Isole in diminuzione. In questo quadro i prezzi delle abitazioni a Milano registrano una crescita sostenuta per il quarto anno consecutivo confermandone il ruolo di traino del mercato immobiliare, mentre a Roma registrano una flessione rilevante per il terzo anno di fila».  

Previsioni da rivedere in peggio 

Nell’ultimo decennio i prezzi medi delle abitazioni siano scesi. Soprattutto, però, mostra che, in assenza del Coronavirus e dopo una fase di stabilità delle quotazioni tra il 2018 e il 2019, a partire dal 2020 sarebbe dovuta cominciare la risalita dei prezzi delle case.  

Ma l’avvento del Covid-19 anche questa volta ha completamente sconvolto i piani, tanto che Nomisma tratteggia due differenti scenari per il “prima Coronavisrus” (p.C.): uno più ottimistico detto “soft” e uno più pessimistico o “hard”. Il primo scenario, spiegano da Nomisma:  

«Presuppone tempi di uscita dall’emergenza sanitaria relativamente contenuti, unitamente a provvedimenti consistenti ed efficaci; il secondo sottende invece tempi più lunghi di mantENImento delle misure di contENImento e una minore efficacia degli interventi varati del governo, con ripercussioni più pesanti sul sistema economico». 

Secondo le previsioni di Nomisma, nello scenario soft i prezzi delle abitazioni dovrebbero scendere dell’1,1 per cento annuo nel 2020, dell’1,2 per cento nel 2021 e dello 0,5 per cento nel 2022. Più netti i cali nello scenario hard: -3,1 per cento nel 2020, -3,9 per cento nel 2021 e -3,1 per cento nel 2022.  

Discorso analogo per i prezzi degli uffici, per i quali Nomisma prevede per il 2020 un calo dell’1,7 per cento nello scenario soft e del 3,5 per cento in quello hard, mentre per il 2021 le stime sono per -1,6 per cento e -4 per cento e per il 2022 -0,8 per cento e -3,4 per cento. 

Prima del virus o a.C., spiegano da Nomisma:  

«Il mercato immobiliare sembrava avere imboccato la via della ripresa, come si poteva evincere dall’evoluzione delle compravendite residenziali, che nel 2019 avevano superato le 600 mila transazioni, con la prospettiva per il successivo triennio di mantenersi oltre tale livello, proseguendo pertanto nel trend di crescita. Ciò grazie anche all’apporto del canale creditizio che, dopo un 2019 di segno negativo, nel biennio 2020-2021 era previsto di nuovo in espansione in termini di mutui alle famiglie per l’acquisto di abitazioni, grazie anche alle favorevoli condizioni sui tassi di interesse, scesi a livelli pressoché irrisori». 

L’analisi di Nomisma prosegue così: 

«L’emergenza determinata dal diffondersi del virus ha modificato completamente questa prospettiva, con la sospensione di gran parte delle attività economiche e commerciali, non ultime quelle legate al settore immobiliare. Alle difficoltà oggettive di espletamento delle più comuni attività economiche che hanno caratterizzato la prima fase dell’avvento della pandemia, nei prossimi mesi si affiancheranno atteggiamenti attendisti e prudenziali che differiranno scelte di acquisto e di investimento. Considerata l’elevata incertezza che questa situazione del tutto inattesa sta ingenerando, le famiglie daranno la priorità a incrementare le riserve di risparmio, in modo da accrescere la liquidità per cautelarsi nei confronti di ulteriori rovesci economici, posticipando l’acquisto di immobili o altre forme di investimento. 

Si troveranno a fronteggiare condizioni economiche particolarmente gravose, con l’eventualità tutt’altro che remota che quelle meno attrezzate per fronteggiare una simile crisi non riescano a evitare la cessazione dell’attività. Per scongiurare o quantomeno limitare la portata di questo fenomeno, oltre agli aiuti che il governo dovrà fornire in termini di sgravi fiscali e differimenti di pagamenti di imposte e debiti creditizi, sarà fondamentale il ruolo degli istituti di credito in termini di iniezione di liquidità, proprio per evitare il dissesto economico e sociale che altrimenti ne scaturirebbe». 

Giù anche le compravendite 

Oltre a una riduzione dei prezzi, Nomisma stima che dal 2020 possano calare anche le transazioni immobiliari residenziali, sempre in crescita negli ultimi anni. Anche in questo caso, la società di consulenza tratteggia uno scenario soft che stima un calo più contenuto e uno scenario hard con una flessione delle compravendite più drastica. 

«Gli effetti della diffusione del Covid-19 – spiegano da Nomisma – si sostanzieranno in una contrazione della domanda di acquisto e investimento e, quindi, in una diminuzione dell’attività transattiva del settore immobiliare. L’elevato “fabbisogno di casa” testimoniato dalla nostra periodica indagine sulle famiglie italiane subirà un differimento temporale, come conseguenza di scelte cautelative. A questi elementi si aggiungeranno anche le difficoltà economiche che molte famiglie dovranno fronteggiare in seguito alle criticità occupazionali che la crisi inevitabilmente comporterà. Tale situazione, con ogni probabilità, spingerà gli istituti di credito a irrigidire i criteri di erogazione, al fine di evitare il rischio di accumulare nuovamente un ingente ammontare di crediti deteriorati (si veda anche il capitolo 3)». 

Tutto ciò, tirano le somme da Nomisma, «unitamente agli impedimenti determinati dalle misure di contENImento del virus, contribuirà a ridurre l’attività transattiva sul mercato residenziale nel 2020: dalle 612 mila compravendite ipotizzate in assenza dell’emergenza Coronavirus, si passerà nel migliore dei casi a 564 mila transazioni (-6,5 per cento rispetto al 2019), mentre nell’ipotesi più funesta si scenderà al di sotto della soglia delle 500 mila compravendite, con una contrazione di circa il 18 per cento rispetto all’anno precedente. Nel 2021 le transazioni subiranno una flessione di entità poco inferiore a quella del 2020, con un risultato compreso tra 407 mila e 531 mila compravendite, salvo poi sostanzialmente stabilizzarsi nel corso del 2022». 

Un ulteriore elemento di freno all’attività transattiva del settore immobiliare, a detta degli esperti di Nomisma, potrebbe essere rappresentato dalla «rigidità, peraltro evidenziata nel recente passato, con cui i proprietari reagiranno nel modificare le proprie aspettative di realizzo». 

Tale fenomeno ha, infatti, «rappresentato un ostacolo alla ripresa delle transazioni negli anni della doppia ondata recessiva del 2008-2013, prolungando di fatto la fase negativa oltre le tempistiche solite dei precedenti cicli immobiliari. Ciò comporterebbe una riduzione tutto sommato contenuta dei prezzi nel breve periodo, ma un lasso di tempo più esteso entro cui la contrazione dei valori avrà luogo, con conseguenze non auspicabili di dilazione dei tempi di recupero». 

Indietro di sei anni 

Commenta Luca Dondi dall’Orologio, amministratore delegato di Nomisma: 

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«Gli effetti della pandemia e del lockdow paiono devastanti se osservati attraverso le previsioni del numero di compravendite residenziali. La pressoché totale impossibilità di promozione delle settimane di chiusura delle attività e, soprattutto, il progressivo indebolimento del tessuto economico del Paese, peraltro in molti tratti già intuibile, porteranno a un drammatico inaridimento del mercato immobiliare. Sarà una doppia ondata: la prima alimentata da quarantena, distanza sociale forzosa e indebolimento dei settori immediatamente esposti alla crisi, con conseguente perdita di posti di lavoro e aumento generalizzato della propensione al risparmio; la seconda alimentata dall’ineluttabile massiccia flessione della domanda aggregata, da cui scaturirà una crisi di liquidità delle imprese, specie quelle più esposte sul mercato domestico (la maggior parte), che finirà a sua volta per indurre un ulteriore calo della domanda». 

Insomma, a detta di Dondi dall’Orologio potrebbe essere in arrivo: 

«Una spirale depressiva che potrà essere attenuata solo da un’imponente immissione diretta di liquidità, unitamente a un piano di garanzie pubbliche volto a evitare che le banche taglino linee di finanziamento per contrastare la crescita dei crediti di dubbia esigibilità».  

Il cosiddetto “Decreto Liquidità” varato all’inizio di aprile del 2020 dal governo di Giuseppe Conte si muove proprio in questa direzione, con l’obiettivo di affiancare una garanzia pubblica all’erogazione di credito da parte delle banche alle imprese e alle attività di tutte le dimensioni. 

La stampa, però, segnala ripetuti casi in cui i finanziamenti fanno molta fatica ad arrivare nelle casse di chi li richiede; ed esponenti di Palazzo Chigi in più di un’occasione ammettono le difficoltà. 

«L’obiettivo – osserva l’ad di Nomisma – deve essere quello di stabilizzare il sistema per cercare di contenere le conseguenze economico-finanziarie dell’emergenza sanitaria. Se gli obiettivi paiono chiari e condivisi, non altrettanto si può dire a proposito di dotazioni di risorse e strategie operative. La drammaticità del quadro impone tuttavia azioni immediate di portata straordinaria, senza anacronistiche velleità di raggiungimento di un inarrivabile ottimo paretiano. I tentennamenti e l’indeterminatezza della prospettiva post lockdown consentono, infatti, il proliferare e il propagarsi di un virus che rischia di avere, a conti fatti, un tasso di letalità di gran lunga superiore rispetto a quello del Covid-19. In questo scenario, le previsioni per i mercati immobiliari che prima della crisi avevano manifestato maggiore slancio e dinamismo, come Milano e Bologna, appaiono impietose: la durezza dell’impatto di pandemia e soluzioni di contenimento adottate riporterà le lancette dell’immobiliare indietro di circa sei anni».  

Un investimento sempre più rischioso 

C’è chi da tempo invita alla cautela quando si decide di investire nel settore immobiliare. È il caso di Andrea Ragaini, vice direttore generale di Banca Generali, che fa prima una premessa e poi due conti.  

«Partiamo dal presupposto – osserva – che per investimento dobbiamo intendere l’acquisizione di un bene che produce un reddito. Nel caso di un immobile, il rendimento è dato da due componenti: variazione del valore nel tempo e reddito da locazione, il cosiddetto affitto. Consideriamo un orizzonte temporale sufficientemente ampio dell’investimento, come l’immobiliare richiede, cioè dal 1980 a oggi. Ebbene, in questo periodo, il rendimento annuo medio reale, vale a dire al netto dell’inflazione, e al lordo delle imposte delle case, nel nostro Paese è stato del 4,57 per cento, contro il 9,45 per cento delle azioni (inclusi i dividendi), il 5,85 per cento delle obbligazioni societarie (incluse le cedole) e il 2,42 per cento dei titoli di Stato (incluse, laddove presenti, le cedole).  

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Nota ancora Ragaini: 

«Se si considera, invece, la casa solo nell’ottica di bene d’uso da quando esiste un sistema codificato a livello europeo di calcolo del valore degli immobili, ossia dal 2010, i prezzi in Italia sono scesi del 17 per cento, mentre la media europea ha fatto registrare un incremento del 21 per cento». 

Anche Salvatore Gaziano, direttore investimenti di SoldiExpert SCF, esprime perplessità sull’investimento immobiliare:  

«Sul mattone, che è l’investimento numero uno per gli italiani, da tempo e non certo solo a seguito dello scoppio della pandemia si addensano nuvole grigie e nere. In Europa siamo fra i popoli con la più alta percentuale di famiglie che risiede in una casa di proprietà. In questi ultimi dieci anni spesso ci è capitato di trattare il tema con i nostri clienti perché, come consulenti finanziari indipendenti, è fra i nostri doveri parlare a 360 gradi di come è investita la ricchezza e dove è più corretto orientarla. Sul tema abbiamo sempre avvertito che l’era del mattone come “investimento” è purtroppo al tramonto. Troppi i rischi, pochissimi i benefici. Già nel 2015 una nostra analisi evidenziava come l’immobiliare in Italia, dopo la crisi del 2008, avesse registrato un calo dei prezzi in termini reali fra i più alti nel mondo, cosa che non prometteva nulla di buono per i cambiamenti strutturali e finanziari a cui stava andando incontro il nostro Paese».  

Come evidenzia Gaziano: 

«L’innamoramento degli italiani verso la casa come investimento ne ha sostenuto e fatto salire i prezzi in modo rilevante e disancorato spesso dalla realtà. Qualcosa che assomiglia come fenomeno a quei risparmiatori che in questi anni hanno comprato in Italia azioni di banche non quotate per scoprire un giorno che quelle stesse azioni non erano poi così facilmente liquidabili e il prezzo a cui avevano acquistato le azioni era decisamente fuori mercato. E il paragone non è poi così azzardato come potrebbe sembrare perché per parecchio tempo molti italiani hanno considerato l’acquisto della casa non per il valore d’uso ma come un vero e proprio investimento dotato di caratteristiche peculiari tipo “reddito e sicurezza”». 

Il mercato immobiliare in Italia, in questi anni, secondo Gaziano: 

«È stato così “drogato” dall’acquisto da parte di una fascia ampia di risparmiatori che considerava la casa una sorta di investimento perfetto destinato quasi solo a salire. E questo ha alimentato notevolmente soprattutto il mercato delle seconde case. Che è fra quelli che non a caso hanno più risentito dello sboom partito dopo il 2008, con effetti anche drammatici perché ci sono comuni in Italia dove non si riesce a vendere nemmeno più una casa per l’assenza di compratori».  

Certo, occorre anche fare un discorso a parte, riconosce Gaziano  

«per le località italiane “trofeo” più famose dal punto di vista turistico o più vivaci dal punto di vista professionale e universitario, con quartieri “in” dove le quotazioni si sono mantenute su livelli relativamente più alti –  come la già citata Milano –. Ma inutile dire che anche in questi casi i contesti “glocal” e politico, sociale e fiscale vadano comunque monitorati nel tempo». 

E ora cosa succederà post pandemia o p.C.?  

«Lo scenario – ammette Gaziano – è purtroppo peggiorato e non certo solo per il mattone tricolore visto che in tutto il mondo ci si interroga sul futuro del mercato dell’immobiliare». 

La manutenzione che manca 

I motivi dello scarso rendimento e della discesa dei prezzi del settore immobiliare italiano negli anni sono molteplici e prescindono dal Coronavirus. A cominciare, sottolinea Ragaini, da un importante fattore:  

«L’offerta di case in vendita è oltre il doppio rispetto alla domanda. Quindi, come in qualsiasi mercato, se l’offerta supera la domanda difficilmente i prezzi saliranno».  

Inoltre:  

«La qualità del prodotto è piuttosto scadente. Basti pensare che il 74 per cento delle case rientra nelle tre peggiori classi energetiche, G, F, E, mentre dal 2021, salvo proroghe, si potranno costruire nuove abitazioni solo a consumo energetico quasi zero, concetto che va oltre la classe A. Di più: il 60 per cento degli edifici residenziali non risponde a “moderne” norme antisismiche, emanate dal 1970 in poi. Questo significa che strutturalmente la maggior parte degli immobili richiede interventi di manutenzione consistenti».  

Aggiunge ancora Ragaini: 

«Meno del 2 per cento delle case in Italia ha copertura assicurativa contro i rischi da catastrofi, il che è paradossale dal momento che il nostro è uno dei Paesi al mondo a maggior rischio sismico, idrogeologico e franoso. Questo ha comportato che, di fronte a scosse di terremoto, piogge torrenziali e altri fenomENI atmosferici che nei decenni si sono verificati, si sono formate crepe e ruggine nei telai metallici anche a livello di fondamenta. Ma senza coperture assicurative sono stati pochi gli interventi di ripristino. Viceversa, le case necessitano di periodici interventi di manutenzione non solo ordinaria, ma anche straordinaria. Altrimenti deperiscono e perdono valore, esattamente come qualsiasi bene d’uso, come per esempio le automobili». 

Quali sono le ragioni di questa incuria?  

«Il reddito netto medio annuo delle famiglie italiane – risponde Ragaini – è pari a 31.393 euro (fonte ISTAT) contro una spesa media annua di 30.852 euro, di cui 10.828 sono investiti nella casa, che corrisponde in buona parte al mutuo o all’affitto. Non restano, perciò, molte risorse per fare interventi migliorativi del “prodotto casa”».  

Ma l’andazzo dovrà per forza di cose cambiare, come mette in luce il vice dg di Banca Generali:  

«L’Italia come ogni altro paese europeo, dovrà ridurre entro il 2050 la produzione di anidride carbonica dell’80 per cento rispetto al 1990 e la maggior parte di CO2 è prodotta dagli edifici. Da qui i tanti bonus fiscali riconosciuti dallo Stato per l’efficientamento energetico. Quindi il trend dovrà inevitabilmente andare in questa direzione». 

Insomma, come fa notare Ragaini:  

«Il mito della casa si sta sempre più affievolendo, sia nell’ottica dell’investimento, sia nel senso di sicurezza che la proprietà di un immobile ha sempre trasmesso. Un cambiamento che è legato anche ad altri due importanti fattori come la mobilità nel lavoro e il basso reddito che caratterizza le nuove generazioni. Ulteriori elementi che portano a rivedere il paradigma dell’acquisto della casa, o dell’investimento nel mattone, come momento centrale nel proprio percorso di vita». 

Una società nuova con abitudini diverse 

A ben vedere, nota Gaziano, già prima del Coronavirus nuove abitudini di vacanza, dai voli “low cost” a basso prezzo ai fenomeni di sharing economy come Airbnb, avevano mutato il mercato immobiliare.  

«La crisi economica che seguirà al lockdown e la caduta del PIL associata – ragiona il direttore investimenti di SoldiExpert – potrebbero non essere facili da risanare in tempi brevi; del resto non ci siamo mai ripresi dalla crisi del 2008. Questo potrebbe significare per le nuove generazioni un aumento degli espatriati in un quadro demografico che già non era orientato nel modo migliore. Una popolazione sempre più anziana e inattiva con figli e nipoti che hanno difficoltà a trovare lavoro o che percepiscono bassi stipendi o basse rendite potrebbe sempre più trovarsi nella posizione di “venditrice” piuttosto che di “compratrice”». 

Se già alcune tendenze erano in atto nell’“avanti Coronavirus” (a.C.), il Covid-19 ne ha portato con sé di nuove. Per esempio, nella ricerca di una nuova abitazione, la presenza di un terrazzo o di un cortile o di un giardino ha assunto un’importanza nuova, retaggio dei lunghi mesi di “quarantena” in cui si è stati costretti tra le mura di casa senza la possibilità, se non in rari casi, di uscire a prendere un po’ d’aria. 

Il sito Casa.it, nel mese di aprile 2020, ha registrato un netto aumento delle ricerche di dimore per vacanze dotate di piscina o di giardino.  

Dal dossier su Pandemia e sfide green del nostro tempo, realizzato da Green City Network e Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile in partnership con Ecomondo-Key Energy, emerge, post Coronavirus, un modo diverso di guardare alle abitazioni. La pandemia, evidenzia il dossier,  

«ha insegnato l’importanza di balconi, terrazzi, cortili e giardini anche condominiali, tutti gli spazi intermedi in generale che possono svolgere ruoli importanti, anche dal punto di vista ambientale, con il green building approach».  

Un approccio che è legato alla costruzione di edifici ecosostenibili.  

«L’emergenza Coronavirus – prosegue ancora il dossier nella sua analisi – ha fatto anche ripensare all’importanza dello spazio urbano, a una struttura urbanistica che assicuri prossimità delle residenze ai servizi, alle strutture lavorative e ricreative, così da ridurre gli spostamenti da una zona all’altra della città e i pendolarismi». 

Fuga dalle città? 

C’è persino chi, partendo da simili presupposti, si spinge a profetizzare un processo di lenta deurbanizzazione; una specie di fuga dalle metropoli per andare a vivere in campagna, come cantava Toto Cutugno nel 1995, o semplicemente per allontanarsi dal caos e dai rischi delle grandi città.  

Approfondisce anche questo tema il documento Niente resterà come prima – L’Italia dopo il Coronavirus: pensieri per capire come cambierà il nostro futuro, realizzato dall’Associazione Gianroberto Casaleggio, presieduta da Davide Casaleggio, e diffuso a metà giugno 2020.  

Lo studio, raccontando i dieci cambiamenti irreversibili nella vita delle persone dopo l’avvento del Coronavirus, mette in fila altrettanti punti su cui secondo l’associazione si deve agire per rilanciare il Paese.  

Ebbene, il cambiamento numero 4 viene così definito: “Smart mobility: dalla crisi del trasporto pubblico alla deurbanizzazione”. 

«Se le realtà affollate della vita urbana, come il trasporto di massa – si legge in proposito nel documento – sono particolarmente sensibili alle pandemie, è plausibile che gli anni a venire vedano una riscoperta delle periferie, con una netta deurbanizzazione delle metropoli. Chi vorrà fuggire da una città pericolosa e afflitta dai virus avrà molte opzioni a disposizione. Le nuove tecnologie rendono più facile per le aziende lavorare lontano dalle dense megalopoli e l’ulteriore impulso arrivato dal Coronavirus ha reso il processo ancora più veloce, sottolineando i pericoli degli spazi urbani affollati sia per i lavoratori che per i cittadini. Negli anni Novanta le aziende dedicavano 16 metri quadrati di spazio per nuovo dipendente, un numero che è sceso a 11 metri quadrati alla fine degli anni 2000 e a 4,5 metri quadrati oggi. Nel 2030 non ci sarà più spazio per un dipendente perché quel dipendente lavorerà da casa». 

Affrontano il tema delle conseguenze del Coronavirus sulle città anche gli esperti di Credit Suisse nel documento Supertrends. La spinta verso il cambiamento:  

«Le ondate di calore, sempre più frequenti per gli effetti del cambiamento climatico, sono più intense nelle grandi città, dove grattacieli, automobili e strade asfaltate tendono a trattenere il calore. Inoltre, le metropoli devono affrontare sfide straordinarie per gestire le pandemie, come dimostrato dal Covid-19. Pertanto le città devono diventare più intelligenti per gestire efficacemente la crescita urbana e le difficoltà che ne derivano, inclusa la tutela della salute pubblica. In tutto il mondo, urbanisti e residenti si avvalgono di tecnologie basate sui dati, come l’internet delle cose (Internet of things) e l’intelligenza artificiale, per migliorare i flussi di traffico, la progettazione e i sistemi di gestione dei rifiuti e delle risorse idriche nelle “smart city”. Tuttavia, sono ancora numerosi gli ostacoli che le smart city devono superare, inclusa la frammentazione dei dati, il loro finanziamento e la loro archiviazione e le questioni legate alla tutela delle privacy, secondo un blog di Scientific American. Le soluzioni di trasporto e mobilità intelligenti possono ridurre la congestione e migliorare la connettività, oltre che stimolare la crescita economica assicurando accesso adeguato alle città grazie alla nascita delle cosiddette economie di agglomerazione».  

In Francia, esemplificano da Credit Suisse:  

«Il progetto ferroviario “Grand Paris Express” migliorerà entro il 2035 i collegamenti tra le periferie e i quartieri in via di sviluppo di Parigi e i quartieri degli affari, i centri di ricerca e gli aeroporti. Un ricercatore, ad esempio, impiegherà solo 15 minuti, anziché 66, per viaggiare dall’aeroporto di Orly al campus universitario di Paris Saclay, secondo quanto riportato dal sito web del Grand Paris Express». 

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