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Debito pubblico: peggiorerà ancora a causa della crisi demografica, a meno di correttivi. Rapporto Cpi

Imagoeconomica

La crisi demografica rappresenta una delle principali fonti di preoccupazione per la sostenibilità delle finanze pubbliche e il finanziamento del sistema di welfare in molte economie mature, in particolare per l’Italia. Ma ci sono interventi che si possono fare fin da subito per innescare un circolo virtuoso.
Lo dice uno studio del Cpi, l’osservatorio sui conti pubblici, dell’Università Cattolica guidato da Giampaolo Galli.
Il nostro paese, già gravato da un elevato debito pubblico, presenta le peggiori prospettive demografiche tra tutti i principali Paesi europei.

Tre interventi innescherebbero un circolo virtuoso

Le stime contenute nel Def 2023 catturano bene questo scenario, con un debito pubblico su Pil che, in assenza di interventi, si inerpica fino al 180 per cento entro il 2050 generando seri rischi di sostenibilità finanziaria. Ma non è obbligatorio arrendersi a questo scenario.
Per il futuro dell’Italia e anche per garantire sistemi adeguati di sostegno alle persone, serve un approccio integrato che combini insieme tre tipi di interventi. Vediamo quali. Il primo è costituito da politiche per la natalità, per evitare che in futuro la crisi demografica si autoalimenti con sempre minor donne in età fertile. Il secondo sono le politiche per aumentare i tassi di occupazione, troppo bassi nei confronti internazionali. E il terzo sono le politiche di attrazione di un maggior numero di immigrati con competenze più elevate. Ciascuno di questi tre interventi sosterrebbe l’altro, in un circuito che può diventare virtuoso, come mostra l’esempio tedesco. L’alternativa, ossia rimandare il problema facendo finta che non esista, può risultare disastrosa.

Nel lungo periodo il debito rischia di crescere fino a livelli insostenibili

Le stime sulla sostenibilità del debito pubblico italiano nel lungo periodo riportate nel Def 2023 meritano di essere riprese e discusse con attenzione. Nel breve periodo, a seconda dei diversi scenari ipotizzati, la traiettoria del rapporto debito/Pil resta confortante, seppur legata all’attuazione di politiche severe di controllo della dinamica della spesa. Invece nel lungo periodo la situazione si inverte e il debito rischia di crescere fino a livelli insostenibili. Anche questo scenario naturalmente risente di ipotesi specifiche, ma il suo andamento è soprattutto influenzato dal rapido declino demografico e dall’andata in quiescenza nei prossimi vent’anni delle ancor popolose generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Purtroppo, mentre le stime sulla crescita economica e sui tassi di interesse nel lungo periodo sono caratterizzate da ampi margini di incertezza, quelle demografiche tendono a essere più affidabili, in quanto basate sulle generazioni attualmente viventi, sulla loro speranza di vita e sui loro comportamenti riproduttivi. Non a caso, il Def conclude che “la transizione demografica è una delle sfide più rilevanti che l’Italia dovrà affrontare nel corso dei prossimi decenni”.

La ricerca del Cpi da una parte discute in dettaglio le stime contenute del Def, dall’altra studia gli andamenti demografici che vi stanno alla base alla luce di stime ancora più recenti di quelle contenute nel documento di bilancio. Il quadro che emerge per l’Italia – anche nei confronti degli altri Paesi europei, che pure si confrontano con problemi simili – è molto preoccupante. Il problema è che a un rapido invecchiamento della popolazione si contrappone una bassa quota della popolazione che lavora, il che rende problematici sia il finanziamento dei sistemi di welfare (pensioni, sanità, assistenza) che, di conseguenza, la sostenibilità delle finanze pubbliche nel loro complesso.

Vista la serietà della situazione, affrontare gli squilibri demografici richiede un approccio che usi simultaneamente tutti gli strumenti a disposizione. In particolare, per quanto non possa ovviamente risolvere gli squilibri nel medio periodo, stimolare fin da subito una ripresa della natalità tramite politiche appropriate è essenziale per evitare che in futuro la crisi demografica si avviti ulteriormente su sé stessa.

Secondo il Def, il debito pubblico/pil salirà al 180% nel 2055

Lo scenario di riferimento presentato nel Def 2023 riguardo l’evoluzione del debito pubblico, mostra che il rapporto debito/Pil decresce nei prossimi anni fino a raggiungere un minimo attorno al 140 per cento nel 2026-2027. Tuttavia, il rapporto ricomincia a salire fino a raggiungere un valore attorno al 180 per cento nel 2055 per poi ridursi lievemente, ma rimanendo comunque ben al di sopra del 160 per cento negli anni successivi, fino al 2070, anno finale della previsione. È chiaro che un andamento di questo tipo, se davvero si realizzasse, non solo renderebbe molto oneroso finanziare il debito, ma aumenterebbe anche i rischi di una crisi finanziaria.

I punti di partenza delle stime

Dietro questa simulazione ci sono naturalmente alcune ipotesi. I tecnici del Tesoro partono dalla legislazione corrente e dal quadro programmatico, come definito dallo stesso Def, e su questo innestano gli effetti delle ultime previsioni demografiche disponibili al momento della simulazione (Europop 2019). Nel dettaglio, si assume come punto di partenza un deficit su Pil del 3 per cento (che secondo il Def 2023 si dovrebbe raggiungere nel 2025), ma si consente successivamente a questo di crescere alla luce delle variazioni della spesa legata all’invecchiamento della popolazione, in particolare per quanto riguarda pensioni, sanità e assistenza. A loro volta, questi incrementi di spesa sono stimati alla luce di un’apposita metodologia sviluppata in sede europea. Questo scenario assume anche una ripresa della natalità (il tasso di fecondità, cioè il numero di figli in media per donna, raggiunge l’1,52 nel 2070 a fronte dell’1,24 attuale) e un afflusso netto di immigrati sempre positivo per tutto il periodo (circa 213 mila unità medie annue). Le altre ipotesi sottostanti alla simulazione sono standard: un tasso di inflazione che converge al 2 per cento (l’obiettivo della BCE), un Pil che cresce in linea con il potenziale (sempre stimato sulla base della metodologia europea), grazie anche a un incremento sostanzioso del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, e una spesa per interessi che cresce con il debito, stimata a partire dalle aspettative di mercato sull’evoluzione dei tassi futuri.

Si tratta quindi di una simulazione a “politiche invariate”; stima quello che succederebbe al debito pubblico se, a partire dal 2026, non si facesse più nulla in termini di politiche di consolidamento delle finanze pubbliche o di altri interventi strutturali, di cui invece si tiene conto in altri scenari sempre discussi nel Def. Se è molto probabile che nessun governo italiano del futuro lascerebbe la situazione degenerare, resta chiaro per converso lo sforzo che è ancora necessario per evitare che le finanze pubbliche vadano fuori controllo.

In modo ancor più preoccupante, come già anticipato, alla base del brusco peggioramento dei conti pubblici a partire dalla fine degli anni Venti vi è essenzialmente la crisi demografica che colpirà il Paese con particolare vigore nei prossimi decenni. L’indice di dipendenza della popolazione anziana (ossia il rapporto tra la popolazione dai 65 anni in su e la quota di popolazione tra i 20 e i 64 anni) è stimato nel Def al 39 per cento nel 2025 per poi salire al 44 per cento nel 2030, al 50 per cento nel 2035, al 57 per cento nel 2040 fino a raggiungere il 62 per cento nel 2050 e poi ridursi solo lievemente negli anni successivi (è ancora di circa il 60 per cento nel 2070). In più, si ipotizza che continui il processo di crescita della speranza di vita che, entro il 2070, dovrebbe raggiungere gli 87 anni per gli uomini e i 91 per le donne, con tutto quello che questo implica, per esempio, in termini di necessità di assistenza ai non autosufficienti.

Secondo le stime del Def, la spesa complessiva non aumenterebbe molto (4-5 punti percentuali sul Pil), si ridurrebbe lievemente la spesa per istruzione, ma aumenterebbe considerevolmente la componente di spesa legata ai più anziani. In particolare, la maggiore voce di spesa legata all’invecchiamento della popolazione è quella pensionistica (rappresentandone in media il 57 per cento nel periodo considerato) che, in rapporto al Pil, si colloca su un trend crescente, anche a causa dei continui interventi susseguitisi negli ultimi anni per consentire il pensionamento anticipato di particolari categorie di lavoratori. Tuttavia, si calcola che il picco dovrebbe essere raggiunto relativamente presto, nel 2035, con un valore pari al 17,3 per cento del Pil. Successivamente, data la progressiva applicazione generale del calcolo contributivo e la scomparsa delle generazioni del baby boom, il rapporto è destinato a ridursi, arrivando al 13,8 per cento nel 2070. La spesa sanitaria e assistenziale è invece ipotizzata rimanere sostanzialmente costante sul Pil. Da un lato quella sanitaria, ora stimata al 6,2 per cento del Pil, crescerebbe solo di un punto, arrivando al 7,2 per cento, dall’altro quella assistenziale aumenterebbe solo di una frazione di punto (cioè dello 0,4 per cento).

Difficile giudicare quanto queste ipotesi, sia pure basate sulla legislazione corrente e sull’uso di una metodologia testata a livello europeo, siano realistiche. Per esempio, durante il periodo considerato si ritireranno dal mercato del lavoro generazioni caratterizzate da molti lavoratori con carriere discontinue, pochi contributi pagati e dunque bassi trattamenti pensionistici sulla base del sistema contributivo: bisognerà vedere se lo Stato non sarà costretto a intervenire ulteriormente per sostenere queste categorie. Anche le stime sull’evoluzione della spesa sanitaria e assistenziale appaiono ottimistiche alla luce della forte crescita della popolazione anziana. Infine la spesa per interessi sul Pil che, a seguito dell’accresciuto debito, raddoppierebbe rispetto al livello attuale collocandosi attorno al 7 per cento.

In Italia la popolazione è destinata a ridursi del 15 per cento nel 2100

Visto il ruolo fondamentale che la demografia gioca sulla sostenibilità del debito, vale la pena indagarne più a fondo le determinanti. A tal fine utilizziamo le proiezioni demografiche pubblicate da Eurostat nell’aprile scorso (Europop 2023), più recenti di quelle utilizzate nelle stime del Def 2023 prima ricordate, con un orizzonte temporale che va dal 2022 al 2100. Secondo queste stime, in Italia la popolazione è destinata a ridursi circa del 15 per cento nel 2100 rispetto a oggi. L’attuale composizione per fascia demografica è caratterizzata per oltre il 30 per cento da persone comprese tra i 45 e i 60 anni, con la massima concentrazione nella fascia 55-59. Già nel 2045 oltre il 25 per cento della popolazione avrà più di 70 anni (contro il 18 per cento attuale).

Per valutare in modo più accurato la sostenibilità della struttura della popolazione, è possibile utilizzare l’indice di dipendenza strutturale. Questa misura riporta quanti sono gli individui in età non attiva (0-14 anni e oltre i 64 anni) ogni 100 in età attiva (15-64 anni). Tra il 2022 e il 2100, tale indice è sempre superiore al 50 per cento, con un picco dell’89 per cento nel 2085, suggerendo una situazione di squilibrio generazionale che è destinata ad aggravarsi negli anni.

Inoltre, è da sottolineare come a pesare maggiormente sulla popolazione attiva siano gli inattivi. Se confrontata con i principali Paesi UE, l’Italia si colloca al primo posto per l’indice di dipendenza senile. In media, nell’Unione europea ad oggi ci sono circa 3 persone in età lavorativa per ogni over 65, mentre tale rapporto scende a 2,6 in Italia, valore che secondo le previsioni dell’Eurostat crollerà a 1,5 nel 2100.

Un ulteriore indicatore esplicativo dell’evoluzione demografica è il tasso di fecondità. Da questo emerge un netto divario tra i principali Paesi europei. Nonostante Francia, Germania, Spagna e Italia si trovino tutte al di sotto del valore che assicura a una popolazione la possibilità di riprodursi mantenendo costante la propria struttura (2,1 figli per donna), le differenze sono marcate. Il divario che separa attualmente l’Italia dalla Francia è di 0,63 e, stando a queste previsioni, verrà colmato solo in parte in futuro. Infatti, le stime per il 2100 vedono il tasso francese rimanere quasi invariato mentre quello italiano crescere solo fino a 1,56.

Cinque cose di cui essere consci per rispondere agli squilibri demografici

Ma è davvero necessario arrendersi a queste evidenze? Che cosa si potrebbe ragionevolmente fare per ridurre gli squilibri demografici, e con quali conseguenze? Ci sono 5 cose di cui dobbiamo essere consci per rispondere agli squilibri demografici. L’Italia ha in comune con le altre economie avanzate la sfida di assicurare una buona qualità della vita alle persone che, grazie alla longevità, arrivano in età anziana (con adeguate pensioni, possibilità di cura e assistenza). Quello che però rende più problematica la situazione italiana all’interno del quadro europeo è il fatto che la popolazione in età lavorativa è in più accentuata riduzione.

La causa di tale riduzione è la persistente bassa natalità. Invertire la tendenza e far tornare le nascite ad aumentare è indispensabile ma non più sufficiente. È indispensabile favorire un aumento della fecondità perché, se non si agisce sulle cause, gli squilibri diventeranno ancor più gravi, rendendo sempre meno efficaci anche le politiche che mirano ad arginarne le ricadute sociali ed economiche.

La denatalità tende, infatti, ad autoalimentarsi: le poche nascite passate vanno a ridurre la popolazione oggi nell’età in cui si forma una propria famiglia e si hanno figli. Questo porta, anche a parità di numero medio di figli, a trascinare via via verso il basso le nascite future. Più il tempo passa, quindi, più diventa difficile uscire da tale spirale negativa. Un primo aspetto di cui bisogna essere consci, allora, è che non possiamo rinunciare a invertire la tendenza. Le conseguenze del non invertirla sono ben rappresentate dallo scenario più basso tra quelli delineati dalle previsioni Istat (base 2021). Con un tasso di fecondità che rimane attorno a 1,2 le nascite scenderebbero sotto le 300 mila nel 2050, con un declino senza soluzione di continuità anche nella seconda metà del secolo.

Un secondo aspetto è che l’aumento della fecondità di per sé non basta, deve essere tale da riuscire a compensare la riduzione delle potenziali madri per poter far rialzare in modo solido le nascite (ed evitare la “trappola demografica”). A confermarlo sono i dati delle più recenti previsioni Istat (base 2021). Nel 2010 il numero medio di figli per donna in Italia era pari a 1,44 e ciò consentiva di ottenere 562 mila nascite. Lo scenario “mediano” Istat contempla un aumento del tasso di fecondità che consente di risalire fino a 1,44 figli nel 2039, a cui però corrisponde un totale di appena 424 mila nascite. A parità di numero medio di figli per donna ci troveremmo, quindi, con circa 140 mila nascite in meno. L’unico percorso che evita squilibri che si autoalimentano è quello che corrisponde allo scenario “alto” delle previsioni Istat. Con tale percorso si arriverebbe a circa 1,7 figli per donna nel 2039 con l’esito di riportare in modo solido le nascite attorno al mezzo milione. Questo significa che l’obiettivo non può essere solo quello di rialzare la fecondità e nemmeno di portarla ai livelli medi europei (attualmente attorno a 1,5). Per i valori bassi da cui partiamo e per la struttura per età maggiormente compromessa, è necessario convergere verso i Paesi con maggior fecondità in Europa. I margini ci sono, dato che, come evidenziano varie ricerche internazionali e le stesse indagini Istat, il numero desiderato di figli è in Italia attorno a due. Ovvero l’Italia presenta uno dei più ampi gap in Europa tra numero di figli desiderato e numero realizzato. Tale divario è lo spazio strategico all’interno del quale devono agire politiche efficaci, allineate alle migliori esperienze europee.

Tali esperienze – qui sta la terza consapevolezza – indicano che non basta un’unica misura. Nell’immediato le più efficaci sono quelle che danno un segnale concreto e diretto di forte sostegno economico alle famiglie. Ma per ottenere risultati che poi rimangano solidi nel tempo oltre alla leva economica serve, ancor più, un rafforzamento continuo degli strumenti di conciliazione, rendendo i servizi per l’infanzia un diritto per tutti e i congedi parentali fruibili da entrambi i genitori. Il quarto aspetto è che per ridurre gli squilibri accentuati verso cui va incontro il nostro Paese non basta l’aumento della natalità. L’effetto positivo di un aumento delle nascite in termini di ingressi sul mercato del lavoro si vedrà, infatti, solo tra vent’anni. Nel frattempo, servono consistenti flussi migratori in grado di contenere nell’immediato la riduzione della forza lavoro potenziale e contribuire al rialzo stesso delle nascite.

Lo scenario “alto” Istat, quello più favorevole, consente di contenere gli squilibri sulla struttura per età ed evitare la “trappola demografica” con una combinazione di aumento della fecondità (che arriva a 1,82 nel 2050, di fatto sui valori oggi più alti in Europa, vicino ai livelli della Francia) e di un saldo migratorio con l’estero che sale verso 250 mila (che corrisponde a ingressi annui che salgono sopra 350 mila).

L’aumento della fecondità consente di stabilizzare la fascia sotto i 20 anni e non farla quindi ulteriormente diminuire, mentre l’immigrazione ha i suoi principali effetti sulla cruciale fascia 20-54 che, anziché perdere quasi 7 milioni di abitanti (nello scenario peggiore con saldo migratorio che scende verso lo zero), limiterebbe la perdita a 3,7 milioni (sempre nell’orizzonte del 2050). Ma l’immigrazione, rafforzando la fascia in età riproduttiva, ha anche un ruolo rilevante sul rialzo delle nascite. L’obiettivo di arrivare a 500 mila nascite annue non si potrebbe ottenere senza tale contributo.

Questo scenario delinea un percorso simile a quello della Germania che, negli ultimi quindici anni, ha portato la fecondità da valori più bassi di quelli italiani a valori superiori alla media europea. Le nascite tedesche sono passate da 663 mila nel 2011 a 795 mila nel 2021. Se nel 2011 il divario tra Italia e Germania sulle nascite era attorno alle 120 mila, nel 2021 risulta salito a circa 400 mila. La Germania è il caso più interessante di un Paese recentemente riuscito a invertire la tendenza delle nascite, combinando attente politiche familiari con capacità di attrarre e gestire flussi migratori di persone in età lavorativa e riproduttiva. Nel decennio precedente la pandemia il saldo migratorio in tale Paese è stato sempre positivo e mediamente sull’ordine del mezzo milione l’anno.

Infine, la quinta consapevolezza che bisogna avere è che non basta agire sul contenimento della riduzione quantitativa (attraverso natalità e immigrazione), serve anche un rafforzamento qualitativo del contributo della popolazione in età lavorativa (a partire dalle nuove generazioni, su tutto il territorio, per entrambi i generi, come base di una lunga vita attiva). Anche portando, infatti, ai livelli più alti la fecondità e spingendo sui flussi migratori, a fronte di un processo di invecchiamento tra i più accentuati l’Italia subirebbe comunque, come anticipato, una riduzione di circa 3,7 milioni in età 20-54 anni (quasi 5 milioni in tutta la fascia 20-64 anni). L’Italia ha,

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