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Crisi, distretti industriali al bivio: due soluzioni possibili

Il modello distrettuale, che in Italia ha rappresentato uno degli strumenti di successo nello sviluppo del manifatturiero negli anni Settanta e Ottanta, si trova oggi in difficoltà a causa della concorrenza dei Paesi emergenti, del nodo del ricambio generazionale e della minore propensione da parte dei giovani ad avviare nuove attività produttive.

Di fronte a tali sfide, molti distretti stanno in parte modificando le loro caratteristiche. I modelli di evoluzione più promettenti appaiono due: nel primo caso la sopravvivenza è garantita dalla presenza di una o più grandi imprese che internalizzano gran parte dei processi produttivi del distretto. Nel secondo caso la riduzione del numero delle imprese lascia ampio spazio a quelle di dimensioni contenute.

Esempi interessanti di questi due tipi di evoluzione sono il distretto dell’occhialeria di Belluno e il calzaturiero del Brenta.Nell’occhialeria italiana il distretto di Belluno occupa una posizione centrale, con 485 imprese, 12.800 addetti e un fatturato che supera i 2 miliardi di euro. Il distretto si è caratterizzato nell’ultimo decennio per una forte contrazione del numero delle imprese cui non ha fatto riscontro un’analoga flessione degli occupati, che pure è stata ampia (-20,8%).
L’evoluzione del distretto verso un modello dominato da poche grandi imprese è testimoniato dal grado di concentrazione del fatturato: nel 2010 (ultimo dato disponibile) le prime cinque imprese coprivano il 97,5%.

Nell’ambito del calzaturiero il distretto del Brenta ha saputo ritagliarsi una posizione importante nel comparto delle calzature da donna di fascia alta. Tra il 2002 e il 2011 il numero delle imprese del distretto è sceso relativamente poco rispetto a realtà produttive simili (-5,2%). Il distretto è ancora oggi formato soprattutto da piccole imprese artigiane, caratteristica che si riflette in un modesto grado di concentrazione: la quota di fatturato che fa capo alle prime cinque imprese è pari solo al 54% del totale.

L’evoluzione del distretto, condizionata dalla pressione competitiva da parte dei paesi emergenti specializzati nelle stesse produzioni e accelerata dalla recessione iniziata nel 2008, ha avuto come elemento più evidente la riduzione generalizzata del numero delle imprese, sia come conseguenza di una mortalità superiore alla natalità sia a causa di intensi processi di delocalizzazione.

Il fenomeno ha comportato talvolta l’aumento della concentrazione (sia del fatturato sia dell’export) presso un numero limitato di imprese, snaturando per alcuni versi il concetto stesso di distretto. La delocalizzazione ha inoltre interrotto in molti casi le catene locali di subfornitura accentuando ulteriormente il fenomeno.

D’altro canto, già dall’inizio degli anni Duemila un allargamento delle maglie del distretto, almeno nella sua connotazione socio-culturale, era reso evidente da un crescente utilizzo di personale immigrato, soprattutto nelle fasi della lavorazione low skill intensive, a fronte di una sempre minore propensione dei giovani ad avviare nuove imprese.
La configurazione tradizionale dei distretti è poi oggi messa a dura prova dal nodo del ricambio generazionale, osservabile soprattutto nelle micro-imprese.

A fronte di questi tratti comuni, i distretti italiani sembrano oggi avere di fronte due alternative di sviluppo da opporre al declino: nel primo caso la sopravvivenza è garantita dalla presenza di una o più grandi imprese che internalizzano gran parte dei processi produttivi del distretto. In tal modo tuttavia, pur preservando in parte i livelli occupazionali, il distretto viene privato di una delle sua caratteristiche principali (la presenza di un fitto tessuto di imprese). Evidenze di una tale evoluzione sono un fatturato in crescita (o tutt’al più in lieve calo) nonostante una forte flessione del numero delle imprese attive e una relativa tenuta dell’occupazione.

All’estremo opposto si trovano esempi di declino più marcato – in cui al calo del numero delle imprese si associa un crollo del fatturato – e infine un modello intermedio di sopravvivenza del modello tradizionale, in cui il calo delle imprese risulta più contenuto mentre si assiste comunque a una tenuta del fatturato. Un esempio interessante di questi tre tipi dievoluzione si trova in un recente studio di Unioncamere Veneto, in cui il distretto dell’occhialeria di Belluno, l’orafo di Vicenza e il calzaturiero del Brenta sembrano rispecchiare abbastanza fedelmente i tre modelli, soprattutto se si accompagnano le informazioni relative alla natimortalità delle imprese e all’andamento del fatturato con quella relativa al grado di concentrazione del fatturato stesso, che dà un’idea abbastanza chiara dello stato della trama del tessuto imprenditoriale dei tre distretti.
Particolarmente interessante appare l’evoluzione dei due modelli estremi di distretto: quello che si concentra attorno a una o pochissime grandi imprese e cessa praticamente di esistere come distretto tradizionale (l’occhialeria di Belluno) e quello in cui invece un numero ancora cospicuo di imprese si raccoglie attorno a una produzione specifica riproponendo il modello tradizionale (il calzaturiero del Brenta).

Il distretto dell’occhialeria di Belluno
In Italia il comparto dell’occhialeria conta circa 900 imprese e occupa oltre 16.000 addetti; nel corso del 2011 il settore ha aumentato i livelli produttivi dell’8% circa, raggiungendo livelli di fatturato pari a 2,65 mld. di euro grazie soprattutto al traino rappresentato dalla domanda estera, che rappresenta la chiave del successo del settore. Con una quota di mercato del 27% l’export di occhiali da sole e montature italiano è primo al mondo, seguito da quello cinese e di Hong Kong. La misura della proiezione all’estero del settore è testimoniata dalla distanza media percorsa dalle sue esportazioni: 3.800 km, circa 800 in più della media del sistema moda che è tra i settori manifatturieri a più alta vocazione internazionale. Nell’occhialeria italiana il distretto di Belluno occupa una posizione centrale, con 485 imprese, 12.800 addetti e un fatturato che supera i 2 mld di euro di cui oltre 1,7 realizzati all’estero. Durante il periodo di recessione del 2009 il settore ha sofferto meno di altri sui mercati esteri, registrando una flessione delle vendite del 13,6% (che seguiva però un calo del 5,6% a/a dell’anno precedente) contro una riduzione ben più ampia del totale manifatturiero. Il biennio di crescita 2010-2011 ha permesso un completo recupero delle perdite, anche se i primi sei mesi del 2012 mostrano una flessione mai registrata negli ultimi anni (-32%). Il dato (che segue un generale rallentamento dell’export italiano rimasto però in territorio positivo) è la risultante di un andamento piuttosto eterogeneo tra i diversi paesi di destinazione. Tra quelli della Ue 27 risultano in calo le vendite verso la Francia (-1,7%) e la Spagna (-8,5%), mentre sono in crescita quelle verso Paesi Bassi (+14,6%), Germania (+8,7%) e Regno Unito (+5,2%). Al di fuori dell’Unione le variazioni sono molto ampie (sia in senso negativo che positivo) e ciò lascia pensare che siano anche frutto di movimenti di alcune imprese del distretto dovute a questioni logistico-amministrative che comportano la partenza delle merci da province diverse. In ogni caso il peso degli Stati Uniti, sebbene molto variabile, appare notevole, mentre la Cina assorbe ancora una porzione limitata (variabile dall’1,5 al 2,5%) delle vendite del distretto.Secondo lo studio Unioncamere Veneto la flessione delle vendite in alcuni dei principali mercati di sbocco (tra cui gli Stati Uniti) ha penalizzato soprattutto le imprese più piccole, gran parte delle quali sono uscite dal mercato.Dal lato dell’import, il distretto ha registrato variazioni piuttosto ampie nel corso del decennio, che rispecchiano in alcuni periodi l’accentuarsi del fenomeno della delocalizzazione, in particolare nel picco del 2006, quando la forte crescita (+48,2%) maturò in gran parte grazie all’import dalla Romania (+160,8%), dalla Cina (+58,4%) e dai paesi del Mercosur (+85%).
Il distretto si è caratterizzato nell’ultimo decennio per una forte contrazione del numero delle imprese, scese dal 2002 al 2011 del 50,4% se si considera l’attività core, e del 47,3% se si considerano anche le produzioni parallele, come la produzione di astucci. Al calo delle imprese non ha fatto riscontro un’analoga flessione degli occupati, che pure è stata ampia (-20,8%). Secondo Confindustria Dolomiti di Belluno il calo sarebbematurato soprattutto tra le imprese artigiane di minori dimensioni a fronte di un aumento nelle grandi, che hanno in parte riassorbito la manodopera espulsa altrove. L’evoluzione del distretto verso un modello dominato da poche grandi imprese è testimoniata anche dalla distribuzione nel tempo delle imprese per forma giuridica. Tra il 2002 e il 2011 le imprese individuali e le società di persone sono calate rispettivamente del 53,7 e del 56% a fronte di un calo del 24,6% delle società di capitali che in tal modo sono arrivate a rappresentare il 34% del totale delle imprese dal 24 del 2002. Incidenza delle diverse forme giuridiche nel distretto dell’occhialeria della provincia di BellunoI dati relativi all’andamento del fatturato sono di più complessa interpretazione, poiché riferiti alle sole imprese che superano la soglia del milione e mezzo di euro; essi tuttavia rendono bene l’idea della forte concentrazione: nel 2010 (ultimo dato disponibile) le prime cinque imprese coprivano il 97,5% del fatturato complessivo, con la prima a rappresentare da sola il 77,5%. In quattro delle prime cinque imprese, tra l’altro, nel periodo 2006-2010 il fatturato è aumentato, anche se con una dispersione molto ampia che va dallo 0,3% della quarta al +24% della prima, al 43% circa della quinta, che opera però nelle attività non core del distretto.

Il distretto calzaturiero del Brenta

All’estremo opposto rispetto all’evoluzione seguita dall’occhialeria di Belluno si trova il distretto calzaturiero del Brenta, che rappresenta uno dei casi di sopravvivenza (e in alcuni tratti di prosperità) del modello tradizionale basato sull’ampia numerosità degli attori presenti sul territorio.In Italia il settore calzaturiero conta (al 2011) circa 5.600 imprese e occupa quasi 90mila addetti; al pari dell’occhialeria anche il calzaturiero mostra una spiccata propensione all’export: nel 2011 secondo l’ANCI2 circa l’83% del valore prodotto è stato venduto sui mercati esteri, in particolare a Francia, Germania e Stati Uniti che rappresentano i principali clienti. Nell’ambito del comparto il distretto del Brenta (che si estende nei comuni sul Brenta tra le provincie di Padova e Venezia) ha saputo ritagliarsi una posizione importante nel comparto delle calzature da donna di fascia alta. La scelta è maturata all’inizio degli anni Novanta, nel tentativo di sopravvivere alla concorrenza esterna, ed è proseguita anche durante la fase peggiore della recessione iniziata nel 2009. Le principali conseguenze sono state la tenuta del fatturato e un’intensificazione del processo di delocalizzazione delle fasi del processo produttivo a minore valore aggiunto, soprattutto in India, Cina e Romania. Nel corso degli ultimi dieci anni l’export distrettuale ha registrato andamenti piuttosto variabili, con una forte flessione nel 2009, cui ha seguito un recupero nel biennio successivo. Nei primi sei mesi di quest’anno le vendite all’estero di calzature dei comuni della riviera del Brenta hanno fortemente rallentato, registrando una crescita dell’1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. A essere penalizzate sono state soprattutto le vendite verso Spagna (-20,7%), Germania (-11,8%, secondo mercato di sbocco dell’export distrettuale, con una quota di mercato del 14%) e Paesi Bassi (-15,7%). In calo è risultato anche l’export verso i paesi OPEC, (-16,8%), l’India e il Giappone. Al contrario, le vendite hanno registrato una forte crescita in Cina (+58,3%), nel Mercosur (+59,6%) e negli Stati Uniti (+15,8%). La forte flessione dell’export registrata all’indomani delle recessione mondiale ha lievemente modificato lo scenario dei principali clienti dei calzaturifici del Brenta, la Francia (seconda nel 2007) ha guadagnato da allora quasi 5 punti percentuali e occupa ora la prima posizione con il 19,2% della quota di mercato, segue la Germania e, a distanza, gli Stati Uniti, con una quota del 6,2% (in lieve flessione dal 6,5% del 2007). Ancora limitato è il peso dei principali paesi emergenti, con la Cina a coprire solo lo 0,6% dell’export e l’India praticamente inesistente. Merita attenzione la quota detenuta da alcuni paesi dell’Europa dell’Est: Polonia, Romania e Repubblica ceca.

Nei dieci anni che vanno dal 2002 al 2011 il numero delle imprese del distretto è scesorelativamente poco rispetto a realtà produttive simili (-5,2%) e oggi arriva a contare 607imprese. Il calo è peraltro distribuito in modo piuttosto uniforme lungo il periodo esaminato, ad eccezione che nel 2008, in cui si registra un aumento. La relativa stazionarietà nel numero delle imprese non ha comunque impedito una ricomposizionedal lato della forma giuridica: oggi le ditte individuali sono la forma prevalente (47%) e il loro peso è cresciuto in dieci anni di 2 punti percentuali, per contro è diminuito in modo consistente (circa otto punti percentuali) il peso delle società di persone, a vantaggio delle società di capitale arrivate a coprire il 28% del totale (dal 22% del 2002).

Tali evidenze confermano come il distretto sia ancora oggi formato soprattutto da piccole imprese artigiane che generano mediamente un livello di valore della produzione simile tra loro. Tale evidenza è confermata anche dal fatto che la maggior parte del fatturato (sulla cui analisi rimangono i limiti di cui si è detto sopra) è realizzato dalle imprese piccole e medie, e nel distretto la quota che fa capo all’impresa più grande è solo l’11,3%, mentre le prime cinque coprono circa il 54% del totale. Negli anni 2006-2010, peraltro, i ricavi delle vendite delle imprese distrettuali hanno mostrato un andamento positivo, con una flessione concentrata nel solo 2009 e ampiamente recuperata l’anno seguente.

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