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Cop 26, a Glasgow in campo anche gli hedge ma non Cina e India

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Anche gli speculatori sono sensibili all’ambiente. A meno di una settimana dall’avvio della conferenza mondiale di Glasgow, che da lunedì vedrà i delegati di 200 Paesi a confronto su come ridurre le emissioni di CO 2 e contrastare il riscaldamento globale, la proposta più aggressiva l’ha lanciata Daniel Loeb, il finanziere che guida il fondo speculativo Third Point. Tutt’altro che un filantropo, insomma. Loeb ha rivelato ai suoi azionisti di aver acquistato una quota in Shell con un obiettivo ben preciso: spaccare in due il gruppo, separando i mestieri storici (petrolio, gas e chimica) dal settore delle rinnovabili, solare ed eolico in testa. I profitti delle attività “cattive” favoriranno così il decollo di quelle legate all’energia buona che oggi, mescolate assieme, producono tanta confusione. Il tutto, naturalmente, sulla base dei guadagni ricavati dallo “split” tra il passato ed il futuro del colosso. Il ceo di Shell ha già ribattuto si tratta di una pessima idea, perché la battaglia per l’ambiente può esser vinta utilizzando le competenze e l’esperienza dell’industria energetica tradizionale. Ma nel frattempo ha dovuto subire due rovesci: il fondo pensione olandese Apb ha deciso di cedere l’intera partecipazione in Shell (15 miliardi di euro) nella convinzione che l’investimento in questi anni garantirà più problemi (anche con la giustizia olandese) che profitti. Intanto i dirigenti della società, assieme a quelli Bp, Exxon/Mobile e Chevron, hanno dovuto subire un vero processo al Congresso Usa. Per vent’anni, è stata l’accusa, avete nascosto gli effetti sul clima della vostra attività. Proprio come fecero a suo tempo le industria del tabacco.

Un’accusa ingenerosa ma che dà l’idea del clima generale: si cerca un colpevole per il degrado rapidissimo dello stato di salute del pianeta, cercando però di pagare il costo economico e politico più basso possibile. Basti un altro esempio Usa: Joe Biden è sbarcato a Roma con un robusto pacchetto di intervento sull’ambiente (555 miliardi di dollari) , in buona parte legati ad incentivi fiscali. Ma ha dovuto cedere in patria a parte delle richieste della lobby del carbone, forte del voto del leader democratico moderato Manchin, forte negli Stati più legati alla fonte di energia più inquinante. È un esempio, uno fra i tanti, che serve a spiegare la difficoltà a transitare dai nobili intenti di Greta Thunberg all’azione che domineranno un vertice, tanto importante quanto complicato, popolato di buone intenzioni (vedi la moda dei green bond) ma anche da tanta confusione, come dimostra la difficoltà a classificare il nucleare (probabilmente necessario per raggiungere i risultati) tra i buoni e cattivi. 

Alla vigilia della solenne cerimonia di Glasgow, assente la Regina ma inaugurata dal principe Carlo, anima verde da sempre, il quadro politico è tutt’altro che positivo. A Glasgow, secondo quanto deciso sei anni fa a Parigi, i Paesi firmatari dell’accordo (cui si sono aggiunti gli stati Uniti dopo la sconfitta di Donald Trump) si sono impegnati a presentare quanto fatto e, soprattutto, quanto intendono fare per centrare i due obiettivi su cui si sono impegnati 191 Paesi entro il 2030. Le premesse, ahimè, sono sconfortanti.

Al 30 settembre solo 120 Paesi (su 191) avevano presentato i loro piani. La lista si è allungata ma non comprende due tra i grandi protagonisti: la Cina, cui si deve il 28% delle emissioni di C02, si è sì impegnata alla “carbon neutrality” (non produrre più gas nocivi di quanto non possano essere assorbiti dalla natura) entro il 2030. Ma Pechino, nei prossimi cinque anni, aumenterà addirittura la produzione di carbone, nel prossimo futuro necessario per evitare che si arresti l’economia. Ancor più drammatico l’atteggiamento dell’India, al secondo posto tra i grandi inquinatori. New Delhi non prenderà impegni specifici, ma farà sentire la sua voce a proposito dei 100 miliardi di dollari che i Paesi ricchi si sono impegnati a versare per favorire la transizione energetica dei più poveri, che comunque consumano solo una modesta percentuale delle risorse naturali.

In questa cornice s’inquadra il netto peggioramento delle emissioni di CO2: dopo lo stop delle attività causa Covid-19 (-5.4%  nel 2020) le emissioni stanno salendo quest’anno del 4,8% ad un nuovo record nella storia del pianeta.  Secondo l’esame del Pnue, l’organizzazione che monitora lo stato degli accordi di Parigi, solo dieci membri del G20 hanno tenuto fede agli sforzi in materia ambientale:  Africa del Sud, Argentina, Canada, Stati Uniti, Unione Europea (compresa ovviamente l’Italia) e Regno Unito. Due, Brasile e Messico, hanno assunto impegni più blandi. Altri, vedi Australia, Indonesia e la stessa Russia, minacciano soluzioni peggiorative. Negli ultimi giorni altri Paesi, tracui l’Arabia Saudita, hanno fatto i compiti. Ma il quadro generale resta allarmante.

Le emissioni globali, se tutti rispettassero gli impegni presi, aumenteranno del 16% entro il 2030 mentre secondo l’Onu sarebbe necessario ridurle del 45% per centrare l’obiettivo di ridurre di 1,5 gradi la temperatura media del pianeta. Di questo passo, al contrario, la temperatura salirà di 2,7 gradi entro la fine del secolo, con conseguenze drammatiche. 

Riuscirà il vertice di Glasgow ad invertire la rotta? “L’età dei mezzi impegni è finita – ammonisce il segretario generale dell’Inu Antonio Guterres – Ora occorre fare sul serio”. Il che vuol dire “sterilizzare” ogni settore, dall’elettricità ai trasporti eliminando il carbone, mettere fine agli incentivi all’energia fossile e far fronte ad aiuto per cento miliardi di dollari all’anno per favorire la transizione dei Paesi in via di Sviluppo. È la svolta che, tra mille difficoltà, dovrà prendere il via al Cop-26. E potrebbe anche succedere se si sapranno conciliare scienza, tecnologia ed investimenti, senza cedere al populismo anti-industriale.

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