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Contrattazione e welfare aziendale, a che serve rafforzarli

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Tra le molteplici ragioni che rendono necessario rafforzare e diffondere la contrattazione aziendale di secondo livello e del welfare aziendale due sembrano essere di carattere prioritario:

* recuperare il gap di produttività del nostro Paese rispetto ai principali concorrenti, collegando gli eventuali incrementi salariali all’andamento della produttività reale prodotta nei diversi luoghi di lavoro;

* limitare l’effetto “cuneo fiscale” su tali incrementi attraverso la detassazione totale da un lato per il lavoratore e dall’altro la decontribuzione, a vantaggio dell’impresa, allargando il paniere di beni e servizi che non contribuiscono a formare il reddito da lavoro dipendente, così come indicato dalle varie circolari dell’Agenzia delle Entrate. Con ciò si favorirebbe sia la diffusione e lo sviluppo di un welfare aziendale, integrativo del welfare pubblico tradizionale, sia l’incremento reale di reddito per i singoli lavoratori.

La contrattazione aziendale, di cui il Premio di Risultato (PdR) è l’espressione di massima sintesi, riguarda materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi e propri del Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl). Le erogazioni del livello di contrattazione aziendale sono strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, qualità, redditività e di altre variabili che esprimono l’andamento economico e che vengono sintetizzati dallo strumento del Premio di Risultato. Tale strumento, tuttavia, se applicato in modo non appropriato assume una dimensione puramente “notarile”, configurandosi quasi come un onere burocratico- amministrativo in più.

Se utilizzato in modo “corretto”, e quindi interiorizzato nella cultura aziendale sia dell’imprenditore che dei lavoratori, diventa un potente strumento di gestione e di competitività aziendale. La differenza sta nella capacità di creare un circolo virtuoso di coinvolgimento motivazionale che genera poi una serie di effetti a cascata che si riverberano positivamente sui risultati aziendali. Di grande importanza, quindi, è riportare al centro l’impresa e il lavoro come valori fondamentali che passano da una stagione di antagonismo, ad una stagione di collaborazione e di partecipazione finalizzata al perseguimento di obiettivi comuni.

Se sono buone le intenzioni dichiarate, non altrettanto appaiono i numeri dei contratti di secondo livello depositati, come richiesto dal Decreto Interministeriale 25 marzo 2106, relativi alla detassazione dei premi di produttività. Alla data del 14 febbraio 2019, 9.923 dichiarazioni di conformità si riferiscono a contratti tuttora attivi, di queste 8.934 sono riferite a contratti aziendali e 1.529 a contratti territoriali.

Fondazione Kuliscioff

Sui contratti di secondo livello vi sono diversi Osservatori di matrice sindacale e accademica che cercano di monitorare la quantità e la qualità di tali contratti. Nel nostro caso partendo dalla tabella sopra esposta, vogliamo mettere in evidenza alcune risultanze che pongono non pochi interrogativi sulla reale penetrazione di questo modello contrattuale nel nostro sistema economico produttivo, non tanto per metterne in discussione la validità, sulla quale concordiamo pienamente, quanto per segnalare il grande lavoro da fare per far si che esso diventi patrimonio di un numero sempre più ampio di aziende e quindi favorisca la crescita competitiva del nostro sistema economico:

* in primo luogo, emerge la forte concentrazione territoriale di questo modello contrattuale. Quattro regioni ( Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) rappresentano il 67% degli accordi depositati, le regioni centrali dal 15 al 20 mentre una quota residuale va al Sud, peraltro rappresentata soprattutto da accordi di gruppi nazionali con impianti produttivi in tali regioni;

* in secondo luogo, la contrattazione di secondo livello appare essere una pratica da imprese medie e medio- grandi, (le piccole sono poche e ancora concentrate nelle principali regioni già segnalate precedentemente) ed è praticamente inesistente nel Centro – Sud. Ciò fa si che rispetto ai lavoratori le percentuali di copertura aumentino sensibilmente. Infatti, anche se non disponiamo di dati certi alcune ricerche indicano in circa un milione il numero di lavoratori che risultano coinvolti ;

* sul fronte dei contratti territoriali, che possono rappresentare una valida soluzione del ruolo di promozione svolto dalle associazioni di rappresentanza, sia datoriali che sindacali nei diversi contesti regionali, utilizzando il peso percentuale dei contratti territoriali sul totale contratti delle singole regioni, spicca la Provincia di Trento con circa il 50%, (in valore assoluto Trento da sola ha il doppio di tutti i contratti territoriali del Sud), seguita dall’Emilia Romagna con il 37%. Le altre regioni seguono con valori molto più bassi.

Questa fotografia della diffusione della contrattazione di secondo livello si riproduce negli stessi termini per quanto riguarda i contratti che comprendono la possibilità per il lavoratore di convertire il Piano di Risultato in Servizi di Welfare Aziendale, che sono circa il 51,0% del totale.

Quando si parla di Welfare Aziendale, è bene ricordare come questa categoria di strumenti rientri in un più ampio processo di transizione complessiva del sistema universalistico del welfare tradizionale, verso una destinazione ibrida orientata verso un insieme di strumenti, caratterizzato dalla presenza di un “secondo welfare” in grado di affiancare la tradizionale offerta pubblica, comunque necessaria a garanzia dei livelli essenziali di assistenza.

Questa nuova offerta di welfare non intende porsi in una linea sostitutiva o concorrenziale rispetto al modello tradizionale , che pure mostra evidenti segnali di incapacità di risposta ad una evoluzione importante dei bisogni sia in termini quantitativi che qualitativi, ma vuole integrarlo e completarlo attrraverso lo sviluppo di proposte articolate coinvolgendo soggetti privati e del terzo settore, aggiungendo via via i tasselli di un mosaico ancora in gran parte da definire.

Stiamo quindi parlando di un cantiere aperto ancora difficilmente inquadrabile, che vede uno dei suoi pilastri nei nuovi approcci del welfare privato aziendale che si sperimentano da qualche anno nelle imprese medio-grandi. Dalle più tradizionali e ormai molto diffuse misure in ambito di sanità integrativa e previdenza complementare alle sperimentazioni più innovative sulla conciliazione vita-lavoro; dalla fornitura di beni e servizi a prezzi e tariffe più convenienti, alla mobilità sostenibile per i dipendenti; dalla gestione convenzionata di servizi di assistenza sanitaria di lungo termine, allo sviluppo di percorsi formativi oltre a quelli obbligatori. Ogni azione in grado di migliorare la qualità della vita dei dipendenti e delle loro famiglie, può ricadere sotto questa accezione.

Per quanto diffuso a “macchia di leopardo” e praticato in modo strategico e continuativo da una nicchia di imprese soprattutto di grandi dimensioni, il Welfare Aziendale è in evidente espansione e si nutre anche di pratiche di alto livello sperimentate nelle piccole e medie imprese, che spesso attuano approcci di Responsabilità Sociale di Impresa (CSR) in modo inconsapevole, perdendo così l’opportunità di comunicare in modo sistematico i risultati e di posizionarsi strategicamente sul tema.

Dal punto di vista delle stime sul peso economico, il dato della contribuzione riferibile al welfare aziendale (voce composta, tra l’altro, da spesa per pacco spesa, istruzione, assistenza ai familiari anziani, trasposto e attività ricreative), depurato da quello della previdenza complementare e della sanità integrativa e abbattuto del valore dei c.d. buoni pasto (3 miliardi di euro circa), ammonta per il 2017 a circa 2,5 miliardi di euro. In questo settore gli operatori attivi sono circa 90, di cui circa 30 proprietari di piattaforme dedicate per la gestione dei rapporti di convenzione. I settori che registrano un maggiore sviluppo welfare aziendale sono quelli bancario, chimico-farmaceutico, servizi e industria e il valore medio del piano di welfare è pari a 900/1.000 euro( Fonte: Itinerari Previdenziali)

Le motivazioni di introduzione di questo elemento in azienda possono essere diverse: prevale la volontà di migliorare il reddito a disposizione dei dipendenti in assenza della possibilità di offrire un aumento salariale di tipo monetario. Si ragiona quindi in un’ottica di retribuzione complessiva reale (totalreward), nella consapevolezza che beni e servizi di welfare possono generare benessere in modo trasversale per tutti i dipendenti. La controprestazione in beni e servizi gode infatti di agevolazioni fiscali in grado di consentire un netto aumento del valore ottenuto dai dipendenti, a parità di costi per l’imprenditore, riducendo quindi , attraverso la riduzione del cuneo fiscale il costo del lavoro avvantaggiarsi di una maggiore motivazione e senso di appartenenza dei lavoratori, che si traduce spesso in una riduzione dei tassi di assenteismo e turnover.

Tuttavia la realtà delle piccole e medie imprese, che rappresentano la quasi totalità del tessuto produttivo italiano, incontra non poche difficoltà a sperimentare progetti di welfare aziendale. E’ vero che, eccezion fatta per alcune esperienze di PMI particolarmente “virtuose” ed in grado di assurgere a best practice quanto all’implementazione di percorsi di welfare aziendale, la maggioranza delle piccole e medie imprese hanno un approccio prettamente informale, destrutturato e, talvolta, inconsapevole.

Ed infatti, semplificando al massimo, per la strutturazione di un (buon) progetto di welfare aziendale sono innanzitutto necessari tempo e risorse economiche. Il primo è quello da dedicare allo sviluppo del piano di welfare aziendale e che, in concreto, si traduce nel lavoro di un consulente o, preferibilmente, di un dipendente full-time o part-time che conosca bene la società, nonché nell’impegno che lo stesso imprenditore deve direttamente dedicarvi. Ciò – unitamente ad una difficile e/o parziale comprensione delle potenzialità dello strumento e alle difficoltà di quantificazione di quello che viene definito come “ritorno” in termini di business, tra cui la percezione del guadagno in produttività – si traduce spesso in un primo forte disincentivo all’implementazione di pratiche di welfare aziendale.

Superata la diffidenza iniziale ed allocate le risorse umane necessarie allo sviluppo del progetto, spesso articolato e complesso da gestire data la necessità di individuare le reali esigenze del personale da soddisfare, anche il tema delle risorse in senso stretto finanziarie da dedicare all’erogazione dei servizi di welfare aziendale risulta un argomento critico per molte PMI.

Tuttavia, occorre preliminarmente rilevare come non tutto quanto è riconducibile al welfare aziendale sia caratterizzato da costi elevati o comunque non facilmente sostenibili anche dalle più piccole realtà produttive.

Infatti, va anzitutto tenuto in considerazione che non esistono, a priori, servizi “migliori” rispetto ad altri tra quelli erogabili attraverso il welfare aziendale, né esistono modelli predefiniti e rigidi sul “come” questi debbano essere erogati. Considerato che tale sistema si basa sulla volontà di trovare risposta alle più diverse esigenze (ancora insoddisfatte) attinenti per lo più alla sfera personale dei lavoratori e tenuto conto che, all’interno di ciascun settore e territorio interessato, sarà necessario individuare la tipologia dei servizi erogabili in grado di rispondere alle suddette specifiche esigenze, il welfare aziendale si presenta, in tal senso, come uno strumento adattabile alle diverse realtà aziendali e territoriali.

Inoltre, posto che un progetto di welfare aziendale realmente valido è solo quello capace di intercettare i reali bisogni dei lavoratori per poi darne efficace soddisfazione, indipendentemente da valutazioni qualitative riferibili ai singoli servizi in sé considerati, è necessario considerare che da una parte esistono misure di welfare aziendale dal costo ridotto o comunque contenibile, come accade nel caso delle convenzioni da stipularsi con diversi centri e strutture (ad esempio palestre, centri sportivi, asili ), e dall’altra possono essere esperite soluzioni che non comportano per l’azienda alcun ulteriore esborso ( come ad esempio la possibilità di convertire un premio già esistente in azienda in benefit a contenuto sociale).

Infine è opportuno sottolineare come il welfare aziendale non si sostanzi esclusivamente nell’erogazione di meri “benefit”, ma possa tradursi in soluzioni che attengono a temi quali l’organizzazione dell’ambiente di lavoro, il wellness organizzativo e la conciliazione vita-lavoro.

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