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Consiglio europeo, che cosa cambia con Donald Tusk

Donald Tusk non ha perso tempo. Lunedì primo dicembre, appena qualche ora dopo il passaggio delle consegne da parte del presidente uscente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e l’incontro con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, l’ex-primo ministro polacco ha chiamato al telefono Barack Obama per ribadire l’importanza che l’Unione europea attribuisce al mantenimento del legame forte con gli Stati Uniti. Ieri poi ha sentito, sempre per telefono, il presidente cinese Xi Jinping con il quale ha auspicato un rafforzamento delle relazioni strategiche fra Bruxelles e Pechino, “che apporteranno benefici all’Ue, alla Cina e al mondo intero”. E ha ricevuto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg per un primo scambio di idee sui focolai di crisi appena fuori dal confine orientale (Ucraina) e da quello meridionale (Siria e Libia) dell’Europa.

Con una contenuta esperienza internazionale (negli ultimi due mesi s’è messo a studiare a ritmo serrato l’inglese per padroneggiare meglio una lingua che conosceva poco), Donald Tusk possiede però un curriculum di tutto rispetto a livello nazionale. Nato a Danzica come Lech Walesa, uomo-simbolo che guidò e condusse al successo la resistenza all’oppressione comunista in Polonia, Tusk, 17 anni più giovane, ha seguito le orme del Premio Nobel per la pace. Correva il 1980 quando fece nascere, proprio nell’ambito di Solidarnosc, un’associazione indipendente degli studenti. Iniziativa che il potere di quegli anni tollerò per un limitato periodo di tempo. E a quel punto Tusk, per evitare l’arresto, si diede alla macchia fin quando la polizia politica lo rintracciò e lo rinchiuse in carcere.

Liberato in conseguenza di un’amnistia indirizzata ai detenuti politici, un paio d’anni dopo fondò un partito, il Congresso liberal-democratico. Eletto in Parlamento per la prima volta nel 1990, tredici anni dopo Donald Tusk fu tra i promotori di un nuovo partito di centro, Piattaforma civica. E sette anni fa gli è stata affidata la guida del governo che ha mantenuto per 7 anni (un record per la Polonia del dopo-comunismo) e che ha lasciato quando gli Stati membri dell’Ue lo hanno eletto all’unanimità presidente del Consiglio europeo.

Con alle spalle questa brillante carriera politica in Polonia, arricchita da risultati economici di grande rilievo (nell’arco di questi anni in cui la crisi ha messo in ginocchio praticamente – chi più, chi meno – tutti gli altri Stati membri dell’Unione europea, la Polonia è riuscita a far crescere il proprio Pil del 20%), Donald Tusk sarà in grado – si chiedono a Bruxelles – di imprimere una svolta in positivo alle politiche europee?

Per rispondere a questa domanda può essere utile riflettere su ruolo e poteri del presidente permanente del Consiglio, una figura introdotta dal Trattato di Lisbona del 2009 allo scopo di raggiungere un miglior livello di efficienza del complicato processo di formazione delle leggi europee, che deve tener conto anche delle aspirazioni (e delle ambizioni) di tutti gli Stati membri dell’Unione.

Ruolo e poteri che in realtà non sono molto marcati poiché, contestualmente alla creazione della figura del presidente permanente, è stato rafforzato il peso dell’Europarlamento affidando a questo organo il ruolo di “co-legislatore”. In pratica, nella maggior parte dei casi, una legge europea deve essere approvata sia dal Parlamento (che è eletto a suffragio universale dai cittadini) sia dal Consiglio (dove siedono i rappresentanti dei Paesi membri).

Così che – recita il Trattato di Lisbona – il presidente permanente deve assicurare l’ordinato andamento dei lavori del Consiglio europeo. E “assicurare inoltre la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”.

Un vero e proprio pasticcio regolamentare che prima o poi potrà originare intricati nodi politici difficili da sciogliere. Ipotesi che potrebbe concretarsi anche in tempi brevi considerato che il neo-presidente è dichiaratamente filo-americano e che non per nulla ha incontrato a tamburo battente il segretario generale della Nato. Il quale, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha illustrato i motivi che lo inducono a preparare i Paesi dell’Alleanza atlantica anche all’eventualità che la crisi ucraina possa sfociare in un confronto armato con la Russia. Ipotesi, questa, che Federica Mogherini (ossia l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza) pare impegnata a scongiurare.

Ma, nella malaugurata ipotesi che uno dei conflitti dovesse degenerare e che dovessero essere prese decisioni in tempi molto rapidi, a chi toccherà il compito di parlare per l’Europa?

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