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Catalogna, Corea, Cina, riforma fiscale Trump: speranze e paure si spegneranno

ImagoEconomica

Catalogna. Non ci possono essere dubbi sul fatto che abbia un’identità nazionale. Era etnicamente diversa dal resto della penisola iberica fin dai tempi preromani. Fu marca autonoma sotto influenza francese per quattro secoli e poi divenne parte semi-indipendente del regno di Aragona, la regione che sta alle sue spalle. Aragonesi e catalani si crearono un piccolo e prospero impero che comprendeva a un certo punto la Sardegna, l’Italia meridionale e perfino Atene. Arrivarono ad avere un papa loro, Alessandro VI Borgia, molto migliore di come la tradizione lo ha dipinto.

Nel 1469 Fernando di Aragona sposò Isabella di Castiglia per completare la cacciata degli arabi dal sud e per proiettare i due regni verso l’Africa e le Americhe. Per quanto unificati, i due regni mantennero totale parità di peso e autonomia linguistica e giuridica fino all’inizio del Settecento, quando i catalani si schierarono dalla parte perdente nella lunga Guerra di successione spagnola e si ritrovarono un Borbone francese, Filippo V, come nuovo re. Filippo, nipote diretto di Re Sole, applicò immediatamente i principi centralisti e assolutisti assorbiti a Versailles e tolse ai catalani sconfitti la loro autonomia.

Con l’inizio del Novecento e il passaggio alla repubblica la Catalogna riacquistò immediatamente larga autonomia politica e linguistica e ai tempi della Guerra Civile divenne, insieme al Paese Basco e alle Asturie, il centro dell’opposizione a Franco. Come Filippo V, Franco vincitore represse in ogni modo i catalani, che riuscirono comunque a rimettersi in piedi e a fare da motore del miracolo spagnolo degli anni Cinquanta. Caduto il franchismo, Barcellona riottenne immediatamente una larga autonomia, erosa però progressivamente sotto i governi controllati dal Partido Popular e soprattutto con Rajoy. Da qui, da un decennio, la spinta crescente a risolvere una volta per tutte la questione attraverso l’indipendenza.

All’indipendentismo catalano manca però lo stesso elemento che è mancato all’indipendentismo del Québec e a quello scozzese, tutti capaci di sfiorare il 50 per cento dei consensi popolari senza mai andare oltre. Manca la compattezza della classe imprenditoriale, quella che nell’Ottocento e nel Novecento si chiamava borghesia e che fu decisiva nelle guerre di indipendenza che si conclusero con successo (Stati Uniti, America Latina, Italia, India). E così, mentre le imprese coreane se ne restano tranquillamente a pochi chilometri dalle atomiche di Kim, la finanza e le utilities catalane, soggette ai regolatori di Madrid, Bruxelles e Francoforte, non hanno esitato un minuto a scappare. A questo punto, la montagna sollevata dal referendum sembra destinata a partorire il topolino di una guerra politica di logoramento destinata a durare anni o decenni. L’Europa, che ha perso memoria di molti suoi valori e che tratta la Catalogna da provincia ribelle, non rischierà nulla, se non di apparire ancora più lontana, imperiale e autoreferenziale.

Terza guerra mondiale. Come mai i mercati accolgono con uno sbadiglio le dichiarazioni quotidiane di Trump sulla necessità di prepararsi a una guerra con la Corea del Nord e quelle del senatore Corker, che fu a un passo dal diventare segretario di stato, che sostiene che la politica di Trump ci sta portando verso la terza guerra mondiale? È molto diffusa la convinzione che la montagna di retorica serva solo a spaventare Kim, che in effetti da qualche tempo sembra essersi preso una pausa. Si sa che sono aperti canali di comunicazione tra Washington e Pyongyang e che la retorica aggressiva potrebbe essere davvero un semplice fuoco di copertura delle trattative. Resta, come dato di fatto, cha la montagna di dichiarazioni bellicose sta producendo un’accelerazione nel rialzo forte e sicuro dei titoli della difesa. Che ci sia guerra o pace armata, il bull market del settore è secolare.

Cina. A cinque giorni dall’apertura del XIX congresso del partito, tutto è come deve essere, ovvero perfettamente in ordine. Il Pil, al 6.7 per cento, supera di due decimali, cioè del giusto, l’obiettivo di piano del 6.5. Il renminbi è tornato in buona salute, i capitali non fuggono più e le riserve valutarie hanno ripreso a crescere (tutto senza esagerare, per non danneggiare le fiorenti esportazioni). La borsa di Shanghai, dopo le tempeste del 2015, è tornata composta e in costante moderato rialzo. Xi Jinping controlla con mano ferma il partito e il paese e non si vede nessuna fronda in grado di preoccuparlo.

E tuttavia la montagna di attese degli anni scorsi su un nuovo corso riformatore nell’economia deve lasciare il campo a una realtà ormai consolidata che appare più contrastata. Da una parte è vero che la Cina intende seriamente, sia pure con i suoi tempi, riorientarsi verso i consumi interni, limitare la sovrapproduzione nell’industria pesante e orientarsi aggressivamente verso le nuove tecnologie, nelle quali vuole essere davanti all’America entro il 2030. Ed è anche vero che il mercato è una voce ascoltata nella determinazione del cambio e dei tassi.

È però altrettanto vero che di privatizzazioni non si parla più. La politica non vuole assolutamente perdere il suo posto di comando. Accetta che le imprese pubbliche si confrontino con il mercato, ma intende mantenerne il controllo. Quanto alle grandi imprese private, la loro fedeltà politica deve essere totale, tanto da essere proclamata nella statuto aziendale. Una volta fedeli, possono fare tutti i soldi che vogliono. Per quanto poi riguarda il grande problema del debito, la Cina continua a dimostrare una grande capacità tecnica nel gestirlo, ma non ha intenzione di ridurlo, semmai di moderarne la crescita limitando le attività di shadow banking.

Dove la Cina sta conseguendo grandi successi è nella sua penetrazione capillare nel tessuto economico dell’Asia, dell’Africa e ora anche dell’Europa. Il grandioso progetto One Belt, One Road, con il quale la Cina si lega a tre continenti, è il frutto di un pensiero strategico potente. A ogni paese la Cina porta in dono una centrale nucleare, un porto, una linea ferroviaria, un parco industriale e ne ha in cambio uno sbocco per i suoi prodotti e, spesso, una base militare. Dopo il congresso la crescita cinese rallenterà leggermente e il renminbi smetterà di rafforzarsi, ma nei prossimi 6-12 mesi la Cina, e con lei tutta l’Asia, continueranno a godere di ottimi livelli di crescita nella stabilità.

Riforma fiscale americana. Studiata nei dettagli negli otto anni di opposizione repubblicana, doveva essere la più grande rivoluzione economica dal New Deal. Mese dopo mese ha però perso i pezzi e ora il rischio è che davvero ne esca un topolino. Ha cominciato la lobby degli importatori a impedire l’introduzione della border tax sulla produzione estera. Poi la lobby degli indebitati ha bloccato (almeno per ora) l’abolizione della detraibilità degli interessi passivi. Si pensava di abbassare l’aliquota per le società al 15, ma senza border tax e interessi passivi non ci sono i soldi e ora è rimasto solo Trump a parlare del 20 mentre tutti gli altri parlano del 23-25.

Sul fronte delle imposte sulle persone, la lobby dei repubblicani di New York e California sta lavorando per il ritiro della proposta di abolire la detraibilità delle imposte locali, attraverso la quale gli stati virtuosi finanziano gli stati spendaccioni. I soldi per abbassare le aliquote scendono quindi ogni giorno che passa. Insomma, l’impianto della riforma è bombardato da tutti i lati e la maggioranza al Senato è di soli due membri, con McCain e Rand Paul già defilati e Corker che giura che non autorizzerà un solo centesimo di deficit in più.

Il consenso di mercato sconta 8 dollari per azione di maggiori utili dalla riforma fiscale, ovvero il 6 per cento in più. Nei suoi calcoli, tuttavia, il mercato parte dalla proposta dei Sei Saggi (Trump e i leader di Camera e Senato) alla quale mancano però i voti decisivi dei senatori citati. Abbiamo visto gli stravolgimenti radicali cui è stata sottoposta la riforma sanitaria in corso d’opera (la riforma è fallita comunque) e annacquamenti profondi ci saranno anche per quella fiscale, a partire dal differimento del suo inizio nel corso dei prossimi dieci anni.

Le borse festeggeranno qualsiasi testo di riforma che uscirà dal Congresso, ma nel corso del 2018 si accorgeranno che l’impatto sugli utili sarà molto più modesto di quello che si stanno aspettando. Per non correggere (e per tentare di salire ancora) dovranno appoggiarsi su altri fattori. Come la crescita globale, che l’anno prossimo potrebbe essere buona come quella di quest’anno.

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