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Brexit, cosa cambia per Ue e Uk? Tutto in 3 punti

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Londra, ore 23.00 del 31 gennaio. Bruxelles, ore 00.00 del 1°febbraio. Il Regno Unito è fuori dall’Unione Europea, la Brexit è ufficialmente realtà. A tre anni e mezzo dal referendum del 23 giugno 2016 e dopo 47 anni di permanenza, il Regno Unito diventa il primo paese nella storia a dire addio alla Ue.

Mercoledì 29 gennaio, il Parlamento europeo ha approvato, tra le lacrime di alcuni deputati, l’accordo di fuoriuscita precedentemente siglato da Westminster, Commissione Europea e Consiglio Ue. A far da colonna sonora all’evento c’era “Auld Lang Syne”, il tradizionale canto scozzese che si intona nei Paesi di lingua inglese quando si dice addio a un amico e con il quale gli eurodeputati hanno voluto omaggiare i colleghi che hanno deciso di andar via.

Dopo tre anni di psicodrammi, accuse incrociate e negoziati, la Brexit è compiuta, almeno dal punto di vista ufficiale. Per quello formale dovremo aspettare altri 11 mesi, perché nonostante la portata storica assunta da questa data, “31 gennaio 2020”, ciò che conta davvero sarà quello che succederà nel cosiddetto periodo di transizione, che scatta a mezzanotte e un minuto del 1°febbraio e si concluderà alla mezzanotte del 31 dicembre 2020. Fino a quel momento infatti poco o nulla cambierà nei rapporti tra Regno Unito ed Unione Europa

BREXIT: IL PERIODO DI TRANSIZIONE

Paradossalmente i tre anni e mezzo trascorsi dal 23 giugno 2016, giorno del referendum sulla Brexit, al 31 gennaio, data della fuoriuscita ufficiale, potrebbero rappresentare “la parte facile”. Quella più difficile comincia adesso. Regno Unito e Unione Europea avranno 11 mesi di tempo per accordarsi sulle future relazioni che intercorreranno i due blocchi. “Solo 11 mesi”, affermano in molti calcando il tono sull’avverbio per sottolineare che il tempo è poco e le cose da discutere tante, forse troppe. 

E nel frattempo? Non cambia nulla. Londra continuerà a far parte del mercato unico e dell’unione doganale e fino a fine anno i cittadini, sia europei che britannici, potranno continuare a viaggiare per turismo o per lavoro da una parte all’altra del continente senza limitazioni né preoccupazioni. Tradotto: niente visto, né passaporto. Agli italiani basterà la solita carta d’identità.

Il Regno Unito dovrà inoltre continuare a pagare la sua quota di partecipazione alla Ue e a rispettare tutte le sue norme, comprese quelle riguardanti la Corte di Giustizia Ue, ma non potrà mettere bocca sulle decisioni che prenderanno gli altri 27 Paesi. 

UE E UK: COSA BISOGNA NEGOZIARE

Le lancette scorrono inesorabili. Entro il 31 dicembre 2020 Regno Unito e Unione Europea dovranno accordarsi su temi delicatissimi: dai possibili dazi da applicare su prodotti e merci, ai rapporti sulla concorrenza che intercorreranno tra aziende e istituzioni, passando per sicurezza, condivisione di informazioni, brevetti, farmaci, aiuti di Stato, forniture di gas ed elettricità e diritto di pesca. 

Facciamo solo un esempio: ad oggi, l’Unione Europea esporta nel Regno Unito circa 40 miliardi di euro l’anno di prodotti, 3,4 miliardi di essi arrivano dall’Italia. Nel periodo 2001-2017, la presenza del Made in Italy agroalimentare sul mercato britannico è aumentata del 43%, grazie a vini, prodotti ortofrutticoli e formaggi. Cosa succederebbe se su tutti questi prodotti venissero imposti dei dazi o se il Governo di Boris Johnson decidesse di aprire il mercato britannico a prodotti ottenuti secondo criteri meno rigorosi in termini di sicurezza alimentare e protezione delle risorse naturali? “È un aspetto, questo, che preoccupa anche gli agricoltori britannici – evidenzia il numero uno di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti -. Nel quadro dello scontato accordo commerciale con gli Stati Uniti, ad esempio, si teme l’apertura alle carni ottenute con l’uso degli ormoni negli allevamenti e al pollame trattato con il cloro”. 

Dal punto di vista commerciale, la volontà dell’Unione Europea, confermata anche dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sembra essere quella di non applicare alcuna tariffa su prodotti o merci a condizione che il Regno Unito rispetti delle condizioni: Londra dovrà applicare standard ambientali simili a quelli dell’Unione Europea e rispettare le norme sui lavoratori e sugli aiuti di Stato, evitando di dare troppa mano libera alle sue aziende. Il timore è che, allo scopo di favorire il rilancio dell’economia ed evitare i possibili contraccolpi della Brexit, Londra offra alle sue società condizioni impossibili da rispettare per le aziende comunitarie, ignorando de facto le regole sulla concorrenza in vigore al di qua della Manica. Johnson potrebbe giocarsi anche la carta di un accordo favorevole con gli Usa che rafforzerebbe la sua posizione negoziale nei confronti della Ue (le trattative con Washington verranno effettuate in parallelo). Non è detto però che l’amico Donald Trump – che negli ultimi giorni è pure arrabbiato con lui per le libertà concesse a Huawei sul 5G sul suolo britannico -, gli renda la vita così facile. Gli Stati Uniti dovranno guadagnarci e Londra corre il rischio di ritrovarsi tra due fuochi.

Ma torniamo a noi. Una volta trovata un’intesa su questi temi si comincerà a parlare di “persone”: che trattamento avranno i cittadini europei che arrivano o vivono nel Regno Unito e viceversa? La Gran Bretagna continuerà a partecipare al progetto Erasmus+? Si continuerà a cooperare su cultura o sicurezza? Domande che nei prossimi mesi rimarranno senza risposta. 

Resta poi aperto il problema del controllo dei confini, soprattutto per quanto riguarda la frontiera fra Repubblica d’Irlanda – appartenente all’Unione Europea – e Irlanda del Nord, parte del Regno Unito. Questione che a Londra, Dublino e Belfast ha causato non poche tensioni. Secondo l’accordo preliminare ci sarà una barriera doganale nel mare d’Irlanda, ma i dettagli sono ancora tutti da definire.

BREXIT: IL NO DEAL È ANCORA DIETRO L’ANGOLO

Le possibilità che Regno Unito e Unione Europea riescano ad accordarsi su tutte queste questioni entro il 31 dicembre 2020 sono bassissime. Allo scopo di suffragare questa tesi molti citano come esempio l’intesa tra Canada e Unione Europea, i cui negoziati hanno richiesto ben sette anni di tempo. Michael Bernier, capo negoziatore della Ue, ha calcolato che in questo caso ne serviranno almeno tre. A peggiorare il quadro c’è anche il fatto che le trattative tra Londra e Bruxelles in realtà non cominceranno il 1°febbraio, ma secondo il Guardian, si dovrà aspettare addirittura il 3 marzo perché Commissione e Consiglio Ue dovranno approvare la proposta di mandato negoziale necessaria per partire.

Proprio per questi motivi, sono in molti a chiedere già da oggi che il periodo di transizione venga prorogato oltre il 31 dicembre 2020. Il problema è che un mese fa il Parlamento britannico, dominato dopo le elezioni dai conservatori, su proposta dello stesso Premier Boris Johnson ha approvato una legge che impegna Downing Street a portare a termine la Brexit entro il 31 dicembre “a qualsiasi costo”. Per questo motivo, nonostante l’accordo ufficiale sulla fuoriuscita, lo spettro di un no deal e di una conseguente Hard Brexit rimane più intenso che mai. 

Attenzione però perché c’è anche un’altra possibilità (oltre a quella che i negoziati vadano a buon fine nei tempi stabiliti, ovviamente): Westminster potrebbe approvare un’altra legge, opposta a quella di dicembre, che consenta a Londra di chiedere un’estensione dei tempi. Ipotesi paradossale? Non troppo. Brexit in questi tre anni e mezzo ci ha abituato a tutto e al contrario di tutto. Alla prossima puntata.

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