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Bini Smaghi smonta “la tentazione di andarsene” dall’euro

Nei giorni scorsi alla Luiss è stato presentato il libro di Lorenzo Bini Smaghi sull’Europa e “la tentazione di andarsene” (Il Mulino). L’autore si chiede qual è lo zoccolo duro, fattuale, del disamore verso l’Europa di alcuni paesi, tra i quali l’Italia. È a causa dei cetrioli? Le giuste proporzioni dei quali sono regolamentate dalla Commissione in 5 pagine, ovvero dall’ossessione per i regolamenti che tanto disturbava gli inglesi?

Bini Smaghi scopre che gli Usa regolamentano le dimensioni dei cetrioli in 14 pagine, e così gli altri paesi avanzati. A parte questa chicca aggiunta alla fine del libro, Bini Smaghi parte dalla forbice tra la crescita dell’Ue e quella degli Usa che si allarga dal 2003 e ancor più dal 2009. Se però si raffina l’analisi considerando la crescita pro capite in modo da tener conto del maggior aumento della popolazione negli Usa, si vede che la divergenza a favore degli Usa c’è solo a partire dal 2011.

Mentre l’economia americana, che pure era stata l’epicentro della crisi finanziaria, riprendeva a crescere, l’Europa ha subito una seconda crisi, cosiddetta dei debiti sovrani, che molti considerano self-inflicted. Infatti nessuna governance dell’economia nell’Area Euro era prevista nei Trattati per far fronte a crisi, recessioni, rischi di deflazione. I parametri di Maastricht erano contro l’eccesso di domanda e l’inflazione ovvero il contrario di quanto ci è capitato dopo il crash Lehman Brothers. Nuove regole e istituzioni per l’aggiustamento e la stabilità sono state create a partire dal 2011, con risultati discutibili.

Il libro rifiuta la tesi secondo la quale austerità e cambio dell’euro siano la causa della minore crescita europea e ne identifica le cause in carenze istituzionali ma anche nella composizione disomogenea dell’area euro. Infatti, se si scorpora l’Italia dalla media europea del reddito pro-capite, si ottiene un andamento simile agli Usa e se si confrontano Stati Uniti e Germania, quest’ultima ha una performance nettamente migliore. Dunque, c’è una grande responsabilità dell’Italia nel peggiorare le medie europee.

Ma si può davvero considerare singolarmente ogni paese di un’unione monetaria? Nel dibattito seguito alla presentazione, l’attenzione è virata su un’altra forbice riportata nel libro: quella tra investimenti e risparmio nell’area euro. La caduta degli investimenti privati, che non ha potuto essere compensata da investimenti pubblici per le regole europee, riduce la crescita presente e futura.

L’aumento dei risparmi nell’area è dovuto principalmente al surplus commerciale tedesco. Le regole europee permettono un’asimmetria tra la soglia di pericolo al 4% del deficit della bilancia commerciale (più precisamente del conto delle partite correnti della BoP) e al 6% per il surplus della stessa. La Germania è arrivata al 9% di surplus commerciale: buon per lei che è riuscita a migliorare la sua competitività, ma quel surplus all’interno dell’area si rispecchia in mancati investimenti, mancata crescita e alta disoccupazione in altri paesi.

La governance europea non è riuscita a gestire questo eccesso di risparmi nell’area, esattamente come non è riuscita a gestire l’immigrazione di massa. Mentre è esattamente ciò che devono fare le istituzioni sovranazionali. Altrimenti il prezzo è perdere legittimità di fronte ai cittadini europei che leggono il messaggio: “Ciascuno per sé”.

Keynes proponeva che i surplus eccessivi dopo alcuni anni venissero sequestrati, ma si attendeva che ciò non capitasse mai perché i governi avrebbero speso il surplus a favore dei loro concittadini prima di perderli. È ora di ridare ai cittadini tedeschi le loro belle autostrade e ferrovie, che oggi versano in cattive condizioni: investimenti europei selezionati, finanziati e monitorati centralmente farebbero ripartire l’economia dell’intera area, dando una risposta positiva ai risentimenti di cui si nutrono i populisti, perché non c’è peggior diseguaglianza della disoccupazione e della mancanza di speranza nel miglioramento futuro per sé e i propri figli.

È vero che la Germania ha migliorato la sua competitività con le riforme fatte al momento giusto. L’Italia non le ha fatte, malgrado il crollo della produttività già negli anni ’90, arrabattandosi con le svalutazioni prima e il bonus dell’euro poi. Ma la crisi ha aperto tutte le falle tappate alla buona: in Italia il cittadino medio ha un reddito inferiore a quello di 20 anni fa e la disoccupazione, specialmente giovanile è a livelli inaccettabili.

Quindi sono meritate le osservazioni di Bini Smaghi sulla dissonanza cognitiva in Italia, dove s’ignora lo stato deplorevole dell’amministrazione, la giustizia, la corruzione dilagante etc… E “la difficoltà di riformare si trasforma in un alibi per accettare l’immobilismo” e pertinente la citazione di Carli che ricordava come un’eredità della cultura autarchica fosse la sindrome del complotto internazionale quando l’economia va male.

Ma questi peccati del passato e non solo, visto il risultato del referendum sulla riforma costituzionale, sono sufficienti ad affermare che non c’è nulla da cambiare nelle politiche europee del fiscal compact? Sembrerebbe, al contrario, che le maggiori difficoltà presenti ad attuare riforme come quelle del mercato del lavoro siano una ragione in più per una politica di sostegno dell’economia a livello europeo.

Ormai lo sostiene la Commissione e, pochi giorni fa, Moscovici, intervenendo nel dibattito sull’euro, ha proposto politiche attive per ristabilire la convergenza economica e sociale minata da politiche macroeconomiche “inadeguate” e dal fatto che “la governance economica della zona euro non è stata concepita per ricercarne il bene comune”. Anche Sigmar Gabriel invita a tollerare uno 0,5% in più di deficit per evitare il rischio populisti in paesi come la Francia e l’Italia. E le intenzioni di riforma dell’Europa da parte di Macron sembra vadano nella stessa direzione.

Quindi giusto mettere ordine in casa nostra, ma “with a little help from our friends”.

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Categories: Cultura