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Bcc, un’autoriforma che parte male e non va al cuore dei problemi

Continua il dibattito sulla autoriforma delle BCC. E il primo risultato è che non vi è ancora un risultato, nonostante le intenzioni di procedere in tempi celeri per fronteggiare le criticità strutturali di cui sempre più numerosi esperti di credito cooperativo si dichiarano consapevoli. Ma, quando si tratta di confezionare una nuova veste, nulla di strano se le preferenze dei vari interessati non coincidano fin da subito e che il sarto sia chiamato, ripetutamente, a modificare il modello imbastito, fino a tenere conto delle esigenze estetico/funzionali di quanti più attori possibili.

Che l’operazione non sia delle più semplici si evidenzia dal fatto che al momento sul tavolo del sarto vi sono più modelli cartacei, tra l’altro, finora, poco distinguibili tra di loro. Ma forse il problema non è nemmeno questo. Il problema è: con le riforme in corso si sta mirando a cucire un vestito su un corpo con molte gibbosità o si sta cercando di modificare quelle deformità?

Per evitare l’accusa di indulgere nelle analisi ed essere poco propositivo, non mi soffermerò più di tanto sui fattori di criticità più volte e con determinazione ribaditi da Banca d’Italia, se non per ricordarne i più importanti quali il gigantismo, l’autoreferenzialità, l’assenza di strategie di respiro, l’albagia di aver portato la testa del sistema sotto la vigilanza europea, i mancati investimenti nella macchina operativa, l’assenza di una politica per la efficiente risoluzione delle sempre più numerose e rilevanti crisi bancarie, il mancato controllo sulla Governance di importanti componenti locali del sistema, protagonisti di conflitti di interesse di distruttiva portata, il tempo perduto nei tentativi, rimasti sulla carta, di introdurre nuovi modelli aggregativi come il Fondo Istituzionale. E mi fermo qui, consapevole di essermi inq ualche modo autolimitato.

Dunque proviamo a parlare di che cosa manca ai tentativi di ridisegno del sistema perché si possa avviare una credibile fase di rinnovamento. Manca innanzitutto il disegno della sua riconfigurazione industriale.

Come a dire che le modificazioni di governance se non affiancate da una proposta industriale che individui, fin da subito, i piani di investimento e disinvestimento, in termini di business e di governo della macchina operativa, soltanto per restare sulle macrocategorie di qualsiasi attività economica, rischiano di tradursi in operazioni di facciata.

Come si traduce, in numeri, la prevista perdita di autonomia delle componenti territoriali del credito cooperativo in favore di una maggiore efficienza auspicata dalla centralizzazione delle scelte strategiche e delle azioni di controllo del sistema?

Ci sono esercizi quantitativi in base ai quali si possono evidenziare i presunti benefici di una operazione di trasformazione della portata prefigurata? Se ci sono (e, verrebbe da dire, come potrebbero non esserci), perché non sono ancora esposti e discussi. Perché non si affronta la questione dei costi di struttura, del necessario ridimensionamento di tutte le componenti, locali e centrali? Anzi, perché non si parte proprio dal bisogno di efficientamento e ricambio negli organismi centrali del movimento?

Insomma chi sta facendo i conti con le risorse disponibili, con i progetti strategici da selezionare e avviare, con i processi operativi da trasformare anche sotto il profilo tecnologico?

Qualche tempo fa, in vena di censimenti, mi vennero da elencare alcuni aspetti dell’ipertrofismo, malattia senile del cooperativismo bancario. Con crescente sorpresa scoprii le dimensioni dell’esercito di consiglieri e sindaci in carica presso BCC e enti centrali, nonché quelle della galassia delle società prodotto, di servizio, di rappresentanza, istituzionali, associative, e via dicendo, tutte alimentate dal business di base delle 381 BCC viventi a fine 2014. E ciò senza nulla dire dei circa 4500 sportelli di queste ultime (15% del sistema) autorizzati in base ai faraonici piani industriali degli ultimi quindici anni, e dello stuolo di dipendenti del credito cooperativo nel suo complesso (oltre 30.000 unità). Un costo unitario del prodotto credito cooperativo ben maggiore della media del sistema!

Un secondo punto riguarda la scarsa accoglienza che l’Unione Europea sta riservando alle modalità di preservazione della species BCC, ritenendo che gli interventi nelle crisi, attuate con l’unico strumento, ad adesione obbligata, del Fondo di Garanzia dei depositanti, si configurino come aiuti di stato. Pertanto, se si vuole continuare ad agire intervenendo sistematicamente a sostegno dell’intermediario in default piuttosto che limitarsi ai diritti deirisparmiatori meritevoli di protezione (quelli con depositi fino a 100.000 euro),l’Europa ci dice che lo si può fare a condizione di far pagare la crisi per primiagli azionisti e ai creditori della banca mediante l’ormai famoso bail-in (chesta per salvataggio dall’interno) e soltanto dopo, e volontariamente, alle altre Bcc.

Al 30 giugno scorso risultavano non in regola con i parametri del Fondo di Garanzia (e quindi a rischio di autonoma sopravvivenza) ben 145 BCC, parial 38% dell’intero sistema cooperativo; inoltre, di tutti gli interventi finanziari erogati dal Fondo nella sua ventennale esistenza, l’84% si sono concentrati nell’ultimo quinquennio, con una crescente destinazione di risorse a sostegno di banche di dimensioni più elevate della media nel Nord del Paese. Nel solo 2014, gli interventi deliberati per consentire la soluzione delle situazioni più critiche sono stati in numero di 9 per circa 200 milioni di euro a carico dei restanti consorziati.

Insomma, il “soldato BCC” potrebbe essere sempre più spesso abbandonato al proprio destino, per alleviare il peso di un sostegno finanziario sempre più oneroso per le altre consorelle. Anche la solidarietà ha un costo e le risorse sono sempre più scarse.

Ciò a dimostrazione che la preservazione autarchica della specie, oltre a produrre costose inefficienze, urta contro principi europei, tanto più difficili a contrastare quanto più si tenga conto del fatto che il credito cooperativo è ormai arrivato ad occupare dimensionalmente il terzo posto tra le banche italiane. Come può, il cooperativismo bancario, rimanere un enclave separata dalle altre, con le sue regole specifiche e, per qualche verso, fuori mercato, una volta che si è grandiosamente autoproclamato componente a rischio sistemico per la stabilità finanziaria del Paese? Forse la dimensione potrebbe anche impedire di beneficiare del contenimento dei costi di regulation, secondo il cosiddetto principio di proporzionalità.

Quindi anche da questo punto di vista occorrerà prendere rapidamente in considerazione razionalizzazione, consolidamento e ridimensionamento dell’attuale apparato produttivo.

Terzo punto. Il ruolo della vigilanza nazionale nella questione delle autoriforme in fieri.

Una volta che essa avrà formalmente ricevuto il progetto autoprodotto dal movimento (fino ad oggi non risulta che sia stato depositata alcuna proposta concreta sul tavolo del Sarto Vigilante), lo coniughi con la sua spietata analisi delle debolezze strutturali del sistema e stabilisca fin da subito le regole peraccompagnare questo “autoriconfezionamento”. Vale a dire come equalmente dovranno funzionare eventuali holding nazionali e sub holdingregionali, con quali regole di assoggettamento ai controlli di vigilanza, con quali garanzie di efficacia industriale ex ante (patrimonio, numero ecomposizione aderenti, etc.), per evitare clamorosi insuccessi e ulteriori insostenibili ridondanze. E tratteggi l’Organo di vigilanza anche le vie d’uscita per coloro che non vorranno aderire a nuovi schemi di Governance del credito cooperativo.

Sono certo che l’Autorità non potrà che procedere con lucida e consapevole determinazione, anche nel riconoscimento che le nuove norme, ove non affiancate da policy correnti ed efficaci, non saranno in grado di rappresentare, da sole, il toccasana per il mutamento della attualecondizione.

Ma, a costo di ripetermi, le idee non sono al momento affatto chiare e la dialettica non riesce ancora a declinare nemmeno le differenze tra le varie posizioni in campo. Per cui rischierei di continuare a parlare di un mondo che non c’è.

Tornando alla metafora della autoriforma come nuova veste da gettare sul corpo esausto del cooperativismo bancario, non vorrei nemmeno rievocare i miti greci di Ercole e Deianira e di Medea e Giasone sulla pericolosità di abiti nuovi ricevuti in dono, che appiccicandosi al corpo, non solo non ne determinano la rigenerazione, ma addirittura ne causano la definitiva distruzione. Soprattutto va evitato che dei cambiamenti facciano le spese le componenti più virtuose del movimento, che, avendo saputo misurare con maggiore saggezza le proprie forze, non hanno inseguito sogni di grandeur, rimanendo saldamente ancorate al ruolo di banca locale e alla propria responsabilità sociale per garantire nel tempo non soltanto supporto creditizioalle economie di riferimento, ma anche i posti di lavoro via via creati nelle proprie strutture operative. Ed è questo il vero soldato BCC da salvaguardare!

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