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Accadde Oggi – 6 agosto 1945: la bomba atomica su Hiroshima, l’ora zero dell’umanità

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Ottant’anni fa, alle 8:15 del mattino, il cielo di Hiroshima veniva squarciato da una luce bianca più intensa del sole. Una città intera si dissolse in pochi istanti. Il mondo entrava nell’era atomica. La bomba sganciata dagli Stati Uniti quel 6 agosto 1945 non fu solo un atto bellico. Fu un punto di non ritorno. Hiroshima e, tre giorni dopo, Nagasaki cambiarono per sempre il destino dell’umanità.

Quel trauma collettivo generò non solo morte e macerie, ma anche una cultura della memoria. Dal primo Godzilla, nato come metafora del terrore nucleare, a film, canzoni, fumetti, il grido muto di Hiroshima ha attraversato decenni e generazioni.

Oggi, tra guerre in Europa, arsenali in espansione e minacce che tornano a farsi esplicite, quel ricordo è più attuale che mai. La guerra in Ucraina ha riportato lo spettro nucleare al centro del dibattito globale. La Russia agita la minaccia come deterrente. Gli Stati Uniti rispondono con posture militari rafforzate. La Cina accelera la costruzione dei suoi missili intercontinentali. Il mondo non è più diviso in due blocchi, ma è forse più instabile che mai.

Hiroshima, 6 agosto 1945, ore 8:15: la luce, poi il nulla

Il 6 agosto 1945, il cielo sopra Hiroshima era sereno, poi un lampo. Dal bombardiere Enola Gay fu sganciata Little Boy, la prima bomba atomica mai usata in guerra. Esplose a 580 metri d’altezza con la forza di 16.000 tonnellate di tritolo. In pochi secondi, la città si trasformò in un gigantesco rogo.

Circa 80.000 persone morirono all’istante. Entro la fine dell’anno, le vittime erano salite a 140.000 (e la scia di morte continuò per anni, tra malattie, tumori, radiazioni). La temperatura al centro dell’esplosione superò i 4.000 °C. Le ombre delle persone si fissarono sull’asfalto. Hiroshima fu annientata: il 90% degli edifici distrutti, 51 templi cancellati, interi quartieri ridotti in polvere.

I superstiti – gli hibakusha – camminavano come spettri. Ustionati, muti, con la pelle a brandelli. Hiroshima non era più una città. Era una cicatrice incisa nella carne dell’umanità.

Perché fu colpita Hiroshima

L’obiettivo principale non era solo militare. Hiroshima fu colpita per spezzare, una volta per tutte, la volontà di resistenza del Giappone imperiale. La guerra tra Stati Uniti e Giappone era diventata un conflitto senza sbocchi. Dopo anni di combattimenti feroci nel Pacifico, i giapponesi continuavano a opporsi, rifiutando qualsiasi ipotesi di resa. Ogni isola riconquistata dagli Alleati era costata decine di migliaia di vite. L’invasione del Giappone, prevista per l’autunno, prometteva milioni di morti. Washington voleva evitare un massacro e dare un segnale chiaro. L’atomica era quel segnale: nuovo, assoluto, definitivo.

Ma Hiroshima fu scelta anche per un altro motivo, più cinico e scientifico: era una città ancora intatta, mai colpita da bombardamenti. Perfetta per osservare con precisione gli effetti della nuova arma, mai usata prima in guerra. Furono tre gli aerei americani in volo: l’Enola Gay, che trasportava l’ordigno il The Great Artiste, incaricato di raccogliere dati scientifici e Necessary Evil – il “male necessario” – per documentare fotograficamente l’esplosione.

Il bersaglio designato era Kokura. Ma quella mattina il cielo era coperto. L’equipaggio fu costretto a virare. Alle 8:14 e 45 secondi, Little Boy fu sganciata su Hiroshima. Dopo 43 secondi, esplose. La bomba funzionava. La missione era compiuta. Fu l’inferno sulla terra.

Tamiko Sora, tre anni, si trovava a poco più di un chilometro dall’epicentro. “Quando uscimmo dal rifugio – ha raccontato – Hiroshima era sparita. Le montagne, che prima sembravano lontane, ora ci sembravano addosso”. Padre Pedro Arrupe, missionario gesuita, scrisse: “Non dimenticherò mai quelle ragazze che si trascinavano, bruciando vive. Pregammo. Non c’era altro da fare”.

Ninoshima, l’isola degli agonizzanti

La strage non finì con l’esplosione. A sud di Hiroshima, sull’isola rurale di Ninoshima, iniziò un altro capitolo della tragedia: quello della disperazione. I sopravvissuti in fin di vita venivano trasportati a centinaia da piccole imbarcazioni militari, spesso con equipaggi addestrati a missioni suicide. Arrivavano con il volto irriconoscibile, la pelle staccata, i vestiti fusi sulla carne. L’ospedale da campo dell’isola fu allestito in emergenza, ma poteva fare ben poco. Le cure erano minime, l’acqua scarseggiava, i medici pochi.

Solo qualche centinaio riuscì a sopravvivere. Gli altri morirono tra urla, silenzi e deliri. I cadaveri vennero sepolti in fosse comuni, in fretta e nel caos. Nessuno registrava i nomi. Nessuno piangeva più.

Decenni dopo, Ninoshima è ancora una terra di memoria incompiuta. I ricercatori scavano alla ricerca dei resti: frammenti ossei, mandibole, piccoli crani. Un giorno, fu ritrovata persino la mascella di un neonato, con i dentini ancora intatti. “Se non li onoriamo, per loro la guerra non è mai finita”, ha detto Rebun Kayo, archeologo dell’Università di Hiroshima.

Ma la morte non restò confinata al 6 agosto. Proseguì per anni, silenziosa e lenta. Le radiazioni continuarono a uccidere, sotto forma di infezioni, leucemie, tumori. Molti hibakusha sopravvissero all’esplosione, ma non alla sua eredità.

Per capire gli effetti a lungo termine della bomba, il Radiation Effects Research Foundation, (Rerf), istituito nel 1950 per studiare le conseguenze sanitarie dell’attacco nucleare, ha seguito oltre 120.000 persone dal 1950 in poi, tra sopravvissuti, controlli e discendenti.

Tra gli hibakusha monitorati, sono stati registrati circa 10.800 decessi per tumore, di cui 500-600 attribuiti direttamente all’esposizione alle radiazioni. Una quota limitata in percentuale – circa il 5% – ma inequivocabile dal punto di vista scientifico.

Le forme più legate all’esplosione sono la leucemia, comparsa nei primi anni, e vari tumori solidi: tiroide, polmoni, seno, stomaco, colon, fegato.

Nagasaki: la replica dell’orrore

L’orrore nucleare non si fermò a Hiroshima. Fu replicato, come un monito e un ultimatum. E così il 9 agosto 1945, tre giorni dopo la prima bomba, stessa sorte toccò a Nagasaki. Anche in questo caso, il bersaglio iniziale era Kokura, ma le nuvole e il fumo delle bombe incendiarie dei giorni precedenti costrinsero l’equipaggio a deviare.

Alle 11:02, Fat Man, un ordigno al plutonio più potente di Little Boy, esplose su una valle stretta tra le colline. Morirono altre 74.000 persone. Una città cancellata in un istante.

Perché colpire di nuovo, e così presto? Washington voleva spingere il Giappone alla resa senza condizioni, scoraggiando anche l’eventuale ingresso dell’Unione Sovietica nella guerra del Pacifico. Un secondo attacco – ravvicinato e più distruttivo – serviva a dimostrare che gli Stati Uniti avevano altre bombe e la volontà di usarle.

Il 15 agosto, l’imperatore Hirohito annunciò la resa del Giappone. La Seconda guerra mondiale era finita. Ma l’era atomica era appena cominciata.

La Guerra Fredda e l’equilibrio del terrore

Con Hiroshima e Nagasaki, la bomba atomica uscì dai laboratori scientifici e diventò strumento di potere geopolitico. Il mondo non fu più lo stesso. Nacque una nuova dottrina militare: la Mutually Assured Destruction (MAD), la distruzione reciproca assicurata. Un concetto tanto semplice quanto spaventoso: se due potenze nucleari si fossero attaccate, non ci sarebbe stato alcun vincitore. Solo l’annientamento totale.

Fu questo paradosso a reggere l’equilibrio del mondo per tutta la Guerra Fredda. La bomba non fu mai più usata in guerra, ma rimase al centro della strategia globale, brandita come deterrente supremo.

Gli Stati Uniti condussero 1.054 test nucleari, di cui 278 in atmosfera, e nel 1966 raggiunsero il picco: 32.000 testate nei propri arsenali. Oggi, ne possiedono 5.044, di cui 1.770 operative. La Russia non è da meno: 5.580 testate, con 1.710 pronte all’uso. Poi vengono Cina (500), Francia (290), Regno Unito (225), seguiti da India, Pakistan, Israele e Corea del Nord.

Secondo il Sipri Yearbook, nel 2024 erano presenti nel mondo 12.121 testate nucleari, di cui 2.100 in stato di allerta immediata. Pronte a essere lanciate in pochi minuti.

La bomba nucleare oggi: la minaccia che ritorna

Per decenni, la paura dell’apocalisse nucleare sembrava un ricordo del Novecento. Ma oggi quella minaccia è tornata. Silenziosa, ma più concreta che mai.

La guerra in Ucraina ha spezzato un tabù: la Russia ha evocato esplicitamente l’uso di armi nucleari tattiche. Non solo come deterrente, ma come possibile strumento operativo in uno scenario di guerra convenzionale. Mosca ha anche trasferito testate in Bielorussia, rompendo con decenni di equilibrio. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno rafforzato la propria postura nucleare in Europa e nel Pacifico. Parlano di “deterrenza integrata”, ma dietro le formule c’è il timore reale di un’escalation.

Intanto la Cina sta espandendo rapidamente il suo arsenale. Un tempo limitato a qualche centinaio di testate, oggi – secondo le stime – punta ad avere oltre 1.000 testate entro il 2030. Per Pechino, la bomba non è più solo uno “scudo difensivo”, ma parte di una strategia di potenza globale.

India e Pakistan, storicamente in tensione, continuano a modernizzare i rispettivi programmi. La Corea del Nord ha moltiplicato i test missilistici e minaccia apertamente i suoi vicini. L’Iran, nonostante anni di negoziati e il recente attacco israeliano, sembra proseguire con un programma ambiguo e instabile, sospeso tra ambizione e rischio. E poi c’è Israele, che continua a mantenere la sua tradizionale “ambiguità strategica”: non conferma né smentisce, ma secondo le stime possiede almeno 80 testate operative.

Il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), firmato nel 1968, appare oggi svuotato di efficacia. Viene ignorato, eluso o considerato obsoleto da molti attori emergenti. Nessuno sembra più disposto a fidarsi.

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Nel frattempo, le nuove testate nucleari sono più potenti, più mobili, più precise. Le decisioni si giocano in minuti, il margine d’errore si è drasticamente ridotto. Cresce il rischio di incidenti, attacchi informatici, incomprensioni strategiche. Come ai tempi della crisi di Cuba nel 1962 ma senza linee rosse, senza telefoni rossi, senza blocchi netti. Il mondo non è più diviso in due. È multipolare, frammentato, instabile. E la bomba è di nuovo al centro della storia.

Hiroshima, oggi: memoria e consapevolezza

Unico Paese ad aver subito un attacco nucleare in guerra, il Giappone ha trasformato il trauma in impegno civile. Hiroshima e Nagasaki non sono solo luoghi della memoria ma sono diventati simboli viventi di un messaggio universale contro la guerra atomica.

Nel corso dei decenni, il Giappone ha fatto del pacifismo nucleare la propria bandiera. La battaglia è stata lunga e spesso silenziosa, ma costante: nei forum internazionali, nelle scuole, nelle commemorazioni pubbliche. E soprattutto attraverso la voce degli hibakusha, i sopravvissuti. Sempre più anziani, sempre più rari, ma ancora ascoltati.

Nel 2024, il loro impegno ha ottenuto il massimo riconoscimento con il Premio Nobel per la Pace che è stato assegnato al Nihon Hidankyo, l’associazione che riunisce gli hibakusha. Le loro testimonianze – rese nei decenni in tutto il mondo – sono oggi considerate patrimonio dell’umanità.

“Dobbiamo trasmettere ai giovani lo spirito di Hiroshima. Non per odio, ma per la pace”, ha dichiarato il sindaco Kazumi Matsui, che da anni guida la città nella promozione della memoria come strumento di disarmo. “Come prima città a sperimentare la devastazione nucleare – ha aggiunto – intendiamo condividere questo spirito e promuovere la consapevolezza della pace, a partire dall’educazione dei più giovani”.

Per l’80° anniversario del bombardamento, a Hiroshima sono attesi rappresentanti di 120 Paesi. Per la prima volta ci saranno anche Palestina e Taiwan. Cina, Pakistan e Corea del Nord saranno assenti. Gli Stati Uniti parteciperanno ufficialmente a entrambe le cerimonie commemorative. Anche la Russia potrebbe essere presente: un gesto simbolico, se confermato, in tempi di profonda frattura diplomatica.

Il cuore della memoria resta il Genbaku Dome, l’unica struttura rimasta in piedi vicino all’epicentro. Oggi è monumento mondiale riconosciuto dall’Unesco, visitato ogni anno da milioni di persone. Poco distante, il Museo della Pace accoglie scolaresche, capi di Stato, attivisti, cittadini comuni. Hiroshima continua a raccontare. E a chiedere al mondo di non dimenticare.

Cultura, cinema e canzoni: Hiroshima sopravvive nel racconto

Hiroshima non è rimasta solo nella storia. Ha attraversato il tempo entrando nel linguaggio della cultura, trasformandosi in memoria viva, rielaborata, trasmessa, raccontata. L’esplosione non ha solo distrutto una città, ma ha generato un’eco che ancora oggi risuona nel cinema, nella musica, nei fumetti, nei libri, nei videogiochi.

Nel 1954, in un Giappone ancora sconvolto, nacque Godzilla. La creatura mutante, generata dalle radiazioni, divenne una metafora vivente del terrore atomico, il simbolo della paura che il Giappone portava impressa nella carne e nell’anima. In Europa, fu il regista Alain Resnais a raccontare l’intimità del trauma con Hiroshima mon amour, un film che mescolava memoria e poesia, amore e dolore.

Il cinema giapponese non ha mai smesso di tornare su quella ferita. Da Pioggia nera a Rapsodia in agosto di Kurosawa, fino a Fat Man and Little Boy. Negli Stati Uniti, più recentemente, Oppenheimer di Christopher Nolan ha riportato al centro la figura dello scienziato e la genesi della bomba, raccontandone il peso morale e politico anche nei momenti in cui l’esplosione resta fuori campo. Lo stesso è accaduto nel mondo dell’animazione. Gen di Hiroshima, Una tomba per le lucciole dello Studio Ghibli, In questo angolo di mondo: tre opere che hanno raccontato la tragedia con gli occhi dei bambini, mostrando il disastro non attraverso l’enfasi, ma nella dolcezza quotidiana spazzata via in un attimo.

Anche la musica ha raccolto l’eco dell’esplosione. Nel 1980 gli OMD pubblicarono Enola Gay, una delle canzoni più iconiche del pacifismo post-nucleare. Gli Iron Maiden raccontarono l’atomica in Brighter than a thousand suns, mentre il compositore polacco Krzysztof Penderecki compose la Trenodia per le vittime di Hiroshima, un grido di dolore trasformato in partitura. Da Yoko Ono a Paul McCartney, dai Rush ai Nomadi, fino agli U2, tanti artisti hanno lasciato un segno, contribuendo a mantenere vivo il racconto.

La storia di Sadako Sasaki, la bambina che piegava gru di carta per sopravvivere, è diventata un simbolo globale di speranza e di pace. Oggi, milioni di studenti in tutto il mondo ripetono quel gesto, in suo nome.

E anche dove meno ce lo si aspetta, Hiroshima è presente. Nei videogiochi come Fallout o Call of Duty, la bomba non è solo uno strumento, ma un’ombra costante. Una minaccia silenziosa che continua a incombere.

L’incubo nucleare nacque quella mattina del 6 agosto 1945. E da allora non è mai morto. Se c’è una lezione che il tempo non ha cancellato, è che quando l’uomo usa l’arma assoluta, non muore solo una città. Muore una parte dell’umanità.

Mattarella: “Nucleare nei conflitti un crimine contro l’umanità”

“L’ottantesimo anniversario del tragico bombardamento atomico di Hiroshima, cui seguì tre giorni dopo quello su Nagasaki, segnò l’esperienza di un evento apocalittico”. Lo ha detto stamani il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Quei tragici avvenimenti, le molteplici sofferenze patite negli anni successivi dai sopravvissuti, rimangono per l’umanità un monito che non può essere dimenticato. L’annientamento dell’umanità è la prospettiva che l’uso del nucleare ha posto dinanzi a tutti noi. Oggi occorre ribadire con forza che l’uso o anche la sola concreta minaccia di introdurre nei conflitti armamenti nucleari appare un crimine contro l’umanità. La architettura globale del disarmo e della non proliferazione delle armi nucleari, tra i cardini del sistema multilaterale faticosamente costruito nel secondo dopoguerra, non può essere abbandonata”.

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