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Volpe (Falck): “Rinnovabili, ecco perché la rivoluzione non si fermerà più”

Imagoeconomica

Una storia ultracentenaria, che ne ha fatto uno dei simboli dell’industria dell’acciaio italiana dall’inizio del ‘900 fino agli anni del boom economico salvo poi reinventarsi, negli ultimi decenni, produttrice di energia pulita al 100%. E’ la storia un po’ paradossale del gruppo Falck, che dal 2010 si chiama di fatto Falck Renewables (la holding Falck Spa ne detiene circa il 62% ed è l’unica sua attività): un tempo un’industria “energivora” per eccellenza, oggi tra i più importanti player del nuovo mercato delle rinnovabili.

“Ma nemmeno tanto paradossale – racconta a FIRSTonline Toni Volpe, dal 2016 amministratore delegato di Falck Renewables -: proprio perché l’industria siderurgica richiede parecchia energia, già ai tempi Falck aveva impianti di produzione, soprattutto idroelettrici. Quella che era già una piccola parte del business è diventata oggi l’unica: ora facciamo solo produzione di energia pulita – o eroghiamo servizi legati a questa – anche se non facciamo più idroelettrico ma principalmente eolico, per il 77%, fotovoltaico, una piccola quota di biomasse e abbiamo un termovalorizzatore per il waste”. La storia attuale parla di un fatturato che a fine 2017 ha avvicinato i 290 milioni di euro e un titolo in Borsa che nel 2018 è stabilmente sopra i 2 euro per azione, con un guadagno del 65% negli ultimi 12 mesi.

Il piano quinquennale predisposto a fine 2016 e aggiornato a fine 2017 ha dato una grande spinta alla società, contribuendo finora a ridurre l’indebitamento finanziario e ponendosi l’obiettivo ambizioso di quasi raddoppiare la produzione da qui al 2021. Quali sono i pilastri di questo piano?

“Il piano, presentato a fine 2016 e poi rafforzato alla fine dell’anno scorso, è stato pensato per portare la produzione dagli 822 MW di fine 2015 ai 1.375 MW di fine 2021, facendo tornare l’azienda ai fondamentali: più eolico e solare, rispetto alle altre fonti, e più espansione internazionale, al fine di cogliere tutte le opportunità e soprattutto di diversificare il rischio. Per noi è più importante essere presenti in più Paesi piuttosto che concentrarci in un’unica realtà. Due anni fa, quando sono arrivato in Falck, eravamo presenti in quattro mercati: Italia, Uk, Spagna e Francia. Oggi abbiamo raddoppiato, aggiungendo Svezia, Norvegia, Olanda e Usa. Inoltre puntiamo sempre di più sui servizi altamente specializzati da offrire alle imprese che vogliono produrre energia pulita. Questa è ancora una piccola parte della nostra attività, ma che ci consente di essere presenti in molti Paesi dove non produciamo, come ad esempio il Giappone in particolar modo ma anche il Messico. Contiamo di trasformare nel tempo questa presenza, per ora solo ingegneristica, in un’opportunità industriale”.

Il settore servizi è legato a un’importante acquisizione che avete fatto nel 2016, quella della spagnola Vector Cuatro, che si occupa proprio di questo. Avete in cantiere altre acquisizioni?

“Dal punto di vista degli impianti non al momento, ma siamo sempre attenti alle opportunità che offre il mercato. Per quanto riguarda l’eventuale acquisizione di società di servizi come Vector Cuatro siamo interessati perchè ci consente di diversificare ulteriormente l’attività e di essere presenti in più Paesi”.

Tra le tante svolte avvenute sotto la sua amministrazione, c’è anche la performance di Borsa: il titolo ha tirato il fiato in questi primi mesi del 2018, ma ha guadagnato il 65% da giugno 2017. Il piano è piaciuto anche agli investitori?

“Il titolo nel 2018 ha perso qualcosa, è vero, ma è fisiologico dopo aver toccato il picco a 2,35 euro a fine 2017, dopo l’aggiornamento del piano, e comunque è stabilmente sopra i 2 euro per azione, cioè sui valori più alti dal 2011. Va tenuto conto che nell’anno solare 2017 il valore medio era di 1,3 euro, mentre nel 2016, prima del piano che abbiamo presentato a novembre, era di 0,8 euro. A giugno 2016 abbiamo toccato il valore più basso (0,65) in seguito alla Brexit, che ci ha penalizzato perché già allora avevamo diverse attività nel Regno Unito. Anche se in realtà abbiamo scontato un’ondata di natura esclusivamente ‘emotiva’, perché la Brexit non ha alcun impatto reale sulla nostra attività. In compenso la performance degli ultimi 12 mesi è, tra l’altro, la migliore in termini di guadagno percentuale tra i competitor europei del settore: evidentemente il nostro piano ha fissato target chiari, alcuni dei quali sono anche già stati raggiunti e questo ha convinto gli investitori”.

Recentemente la Ue ha aumentato gli obiettivi per l’energia pulita al 2030 portando il target dei consumi da fonti rinnovabili al 32%. Giudica raggiungibile questo obiettivo?

“In Italia come produzione siamo già al 36,4% secondo i dati Terna e la SEN ha stabilito che possiamo arrivare a produrre oltre la metà dell’energia da fonti rinnovabili da qui al 2030. Per quanto riguarda i consumi, in Europa al momento la percentuale è del 17% e nel mondo del 10%, ma credo che l’obiettivo possa essere raggiunto perché il settore delle rinnovabili attualmente cresce del 8,3% in termini di capacità installata a livello globale (dato IRENA per il 2017), che è un dato altissimo e dà l’idea della sua espansione. Solo noi, come Falck, vogliamo quasi raddoppiare la produzione da qui al 2021 e le assicuro che non stiamo facendo niente di eccezionale: in un mercato che corre al +8,3% ogni anno, gli obiettivi che ci siamo posti sono assolutamente normali e raggiungendoli faremmo solo il nostro. La rivoluzione ormai è avviata ed è certo che sarà portata a termine, può esserci solo un dubbio sui tempi”.

Nonostante qualche scettico, anche molto influente, come il presidente degli Usa Donald Trump?

“A parole Trump nega i cambiamenti climatici, ma poi nei fatti nemmeno lui sta ostacolando lo sviluppo delle rinnovabili. Basti pensare che nella ampia riforma fiscale approvata qualche mese fa, il presidente avrebbe potuto toccare gli incentivi per gli impianti di produzione di energia pulita, ma non lo ha fatto. Le rinnovabili creano molti posti di lavoro, tra l’altro soprattutto negli Stati repubblicani”.

E l’Italia, col nuovo governo, come si sta muovendo sul fronte delle politiche energetiche?

“Dai primi passi, per quel che posso vedere, direi bene: già il piano Calenda era molto buono, ma il nuovo esecutivo mi sembra ancora più ambizioso. E’ significativo ad esempio che in una delle sue prime uscite da ministro dello Sviluppo economico, quindi con delega all’energia, Di Maio abbia contribuito a spingere l’Europa ad alzare ulteriormente il target per le rinnovabili al 2030: l’Italia, insieme ad altri Paesi, ha proposto di fissarlo al 35%, mentre Francia e Germania avevano idee più conservative, soprattutto Berlino. Alla fine si è trovato l’accordo per il 32%, ma la nostra linea è stata più coraggiosa di quella di altri. Se ne è parlato poco, ma è stato un primo segnale importante a livello internazionale: il nuovo governo sembra concettualmente più interessato del precedente ad avere obiettivi ambiziosi sulle rinnovabili”.

Sul regime di maggior tutela del mercato, il cui termine è previsto in teoria a luglio 2019, il nuovo esecutivo non è però ancora stato chiaro. Non riguarda il vostro business direttamente, ma cosa pensa di quel passaggio?

“Sono favorevole alla liberalizzazione, perché spero che i benefici dell’energia pulita arrivino anche ai consumatori e la liberalizzazione può portare a questo”.

Nei prossimi anni potremmo dunque davvero spendere sensibilmente meno per le bollette energetiche (proprio giovedì scorso l’Autorità ha annunciato sensibili aumenti per luce e gas da luglio)?

“Ragionevolmente sì, per vari motivi. Innanzitutto perché l’energia pulita costerà sempre di meno ai produttori. Gli impianti non necessitano della stessa manutenzione delle vecchie centrali termiche, e la tecnologia è stra-consolidata e ogni anno migliora rendendo sempre più economico il processo. E’ un business più sicuro, più stabile e soprattutto più prevedibile nei suoi costi, anche a lunghissimo termine. Certo è legato alle variabili climatiche (ma il rischio si supera con una buona diversificazione geografica) ma ormai è pienamente autosufficiente, non dipende più dalle sovvenzioni pubbliche e soprattutto dalle oscillazioni dei prezzi delle materie prime come petrolio, gas, carbone. Ci sarà più indipendenza energetica e questo sarà un bene anche dal punto di vista geopolitico soprattutto per un Paese come l’Italia, che non è ricco di materie prime”.

Anche in Europa e in Italia, nell’ottica di un ulteriore beneficio economico per il consumatore, possono avere un ruolo gli aggregatori, i cosiddetti CCA (Community Choice Aggregation), che in California vendono energia pulita senza scopo di lucro?

“Sì. Ora la normativa europea lo prevede, sta ai singoli Paesi recepirla. Io li chiamo i “Groupon dell’energia”, sono gruppi di acquisto, aggregatori ma di natura cooperativa, senza fini di lucro, che aggregano la domanda di energia offrendo prezzi ulteriormente competitivi. In California il 25% dell’elettricità si vende così”.

La sfida delle rinnovabili è dunque lanciata: ma in un domani in cui coprirà una percentuale sempre maggiore dell’intera produzione, sarà in grado di soddisfare tutta la domanda globale?

“In realtà oggi i consumi elettrici nel mondo stanno diminuendo, grazie all’efficienza energetica. Ma in futuro potrebbero di nuovo aumentare, perché stanno arrivando sul mercato nuove sfide. Per esempio quella della mobilità elettrica, ma anche quella del riscaldamento/raffreddamento: nell’ottica della decarbonizzazione, l’obiettivo è fare sempre meno uso di gas e di usare l’elettricità anche per regolare la temperatura dei nostri ambienti domestici e lavorativi. Questo comporterà nuovi consumi, ma l’importante è che siano sempre di più coperti da energia pulita. La grande sfida di oggi è rendere pulita non solo la produzione elettrica per i tradizionali consumi elettrici, ma anche per il trasporto (non solo auto elettrica) e il riscaldamento/raffreddamento”.

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