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Processo alla rete e passività digitale: dall’intelligenza predittiva al controllo del consumatore

Chi possiede il futuro

La pattuglia dei delusi dal web sta diventando più numerosa di quella degli euro scettici. A Evgeny Morozov, autore nel 2011 del libro The Net Delusion, si sono aggiunte personalità del calibro di Jonathan Franzen, uno scrittore a cui “Time” ha dedicato un’intera copertina, Jaron Lanier, uno dei padri della rete, e infine Dave Eggers, che con il suo romanzo The Circle, ha scritto Le mie prigioni del nostro secolo.

Non si tratta di arcadici o luddisti, anche se dopo aver letto l’ultimo libro di Tyler Cowen, Average is over, ci sarebbe la tentazione di diventarlo. Faccende come l’intelligenza predittiva, l’ultimo mantra di Google, e il controllo remoto dei consumatori, una delle tante applicazioni dei big data, sollevano dei dubbi legittimi su chi ha in mano il nostro futuro, per parafrasare il titolo dell’ultimo libro di Jaron Larnier, Who Owns the Future.

Prendiamo l’intelligenza predittiva. In sé è una gran fi**ta. È una specie di personal trainer che indovina tutti i bisogni e in modo portentosamente inferenziale e suggerisce un sacco di cose intelligenti da fare che neppure ci vengono in mente. Per fare questo lavoro il software (basato sull’inferenza bayesiana) ha bisogno di ficcare il  naso in tutte le nostre attività: deve leggere i post e le email, deve conoscere dove ci rechiamo, che cosa acquistiamo e quanti soldi spendiamo, deve fare la conoscenza delle persone che frequentiamo, monitorare le nostre letture, la musica che ascoltiamo, i film che vediamo e i farmaci che assumiamo oltre alla malattie conclamate o potenziali che ci affliggono o ci potranno affliggere. Il motore dell’intelligenza predittiva è lo snooping. cioè l’attività di intelligence. Un software così sarebbe una favola e, se fosse esclusivamente controllato dall’utente, ci sarebbe da scapicollarsi a scaricare le applicazioni con tecnologia predittiva dall’AppStore o da Google Play per qualche euro o a costo zero.

 

Il patto luciferino

Il guaio è che le applicazioni d’intelligenza predittiva sono controllate delle grandi corporazioni commerciali del web e, grazie alla rete, queste app sono inesorabilmente integrate nei grandi sistemi informativi dei data center di questi gruppi. Le informazioni captate da queste applicazioni/droni, attraverso il continuo tracciamento dei comportamenti, servono la persona che le usa, ma soprattutto le strategie di questi gruppi globali, foraggiati da Wall Street, che fanno i soldi con dati e pubblicità. Come dice Larnier sì è venuta a creare una transazione luciferina tra la persona e la corporazione, la prima cede i propri dati personali in cambio di servizi e beni gratuiti sempre più sofisticati ed evoluti che penetrano subdolamente nella sfera privata. Contro questo patto insensato si scaglia Jaron Larnier con la stessa veemenza con la quale si scagliava qualche anno fa contro il maoismo digitale di Wikipedia e dell’open source in You Are Not a Gadget.

Questo patto rende possibile un qualcosa d’impensabile solo qualche hanno fa: il controllo remoto dei consumatori verso cui indirizzare prodotti e servizi come il cecchino indirizza la pallottola verso il proprio bersaglio dopo un accurato appostamento e giorni di osservazione.

Fortunatamente la tecnologia predittiva è ancora molto grezza e il più delle volte finisce per infastidire l’utente più che sedurlo. L’invadenza di notifiche fuori contesto, quelle non richieste o generate da inferenze non corrette suscitano nell’utente lo stesso sentimento d’irritazione che solleva un venditore porta a porta che spinge il campanello dell’appartamento in un momento d’intimità familiare. Come dice Baris Gultekin, uno degli architetti della tecnologia predittiva di Google Now “ci deve essere un equilibrio tra copertura e precisione e ancora deve essere superata l’asticella posta molto in alto dalla coppia verosimiglianza/utilità”.

Siamo lieti di proporre ai nostri lettori in traduzione italiana le riflessioni su questi temi di Jaron Larnier in un articolo dal titolo “Digital Passivity” comparso sull’“International New York Times” il 27 novembre 2013. Buona lettura ed allacciatevi le cinture di sicurezza per attraversare la “turbolenza Larnier”, perché il primo imputato del processo alla rete intentato da Larnier siamo proprio noi, le persone stesse che lo utilizzano e hanno reso possibile quello che sta accadendo.

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