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Pensioni, ecco gli interventi possibili

Da quando il Commissario per la Spending Review affrontò il tema nella sua audizione in Senato, il tema di un intervento sulle pensioni continua ad essere oggetto di riflessione, con l’idea di spuntare, anche attraverso interventi temporanei, almeno le pensioni “più alte”. Che poi ci sia accordo su quali siano le pensioni “più alte” è difficile dire. Si va da chi vuole intervenire sulle pensioni superiori a 2.500 euro a chi ritiene che 10.000 euro sia la soglia adeguata, salvo poi notare che i percettori di pensioni così alte sono solo un pugno. E come poi? Con un’imposta straordinaria, ovvero permanente, ovvero in relazione alla differenza tra il valore della pensione retributiva e quanto sarebbe maturato in base ai contributi versati?

Le diverse soluzioni e la loro fattibilità devono tuttavia essere considerate non solo in relazione ai potenziali effetti sul bilancio pubblico, ma del loro impatto sui diritti che l’ordinamento giuridico garantisce a coloro che le pensioni ricevono: in una parola della loro legittimità costituzionale, e in particolare della loro aderenza ai principi guida fissati dalla Corte Costituzionale. Infatti, non c’è dubbio che qualsiasi riforma sarà posta in questione dai cittadini che ne saranno colpiti davanti ai tribunali. E che questi finiranno per richiedere alla Corte se le norme siano compatibili con la nostra carta dei diritti fondamentali: e difficilmente la Corte potrà di molto spostarsi dalle posizioni già più volte affermate.

In particolare, nelle sentenze 223 del 2012 e n. 116 del 2013, che hanno dichiarato l’incostituzionalità di due leggi che nel 2011 hanno istituito contributi di solidarietà, modulati per scaglioni e temporanei (fino al 2014), nei confronti dei redditi dei dipendenti pubblici e alle pensioni superiori a 90.000 euro, la Corte ha statuto due principi. Il primo, che non sono compatibili con i principi di eguaglianza di fronte alla legge e di capacità contributiva imposte che colpiscono solo alcuni percettori dello stesso tipo di reddito: i sacrifici imposti dalla necessità di affrontare la crisi fiscale devono ricadere su tutti i contribuenti sulla base della loro capacità contributiva, e non possono essere concentrati su una certa classe di contribuenti (nella specie i pensionati)

Il secondo, ai nostri fini anche più importante, è che i redditi pensionistici hanno diritto a una protezione particolare. Infatti, a differenza dei redditi da lavoro, quelli pensionistici corrispondono a situazioni giuridiche ormai concluse e non più suscettibile di reviviscenza; il pensionato non può ovviare alla riduzione del suo reddito a seguito dell’imposta lavorando di più o cercando un altro lavoro:  ed è per questo che il suo reddito merita una protezione particolare.

Alla luce di questi principi c’è da chiedersi se vi sia spazio per un intervento specifico sulle pensioni, rispettoso dei principi di equità su cui i principi affermati dalla Corte si basano. Sembra difficile, ma forse alcune strade possono essere tentate.

In particolare, per quel che riguarda il primo principio, di eguaglianza nell’imposizione fiscale in relazione alla capacità contributiva, ci si può chieder se accanto al principio dell’equità orizzontale non si debba tener conto di un principio di equità verticale. Come osservato commentando la sentenza del 2013, le pensioni versate agli attuali pensionati sono in tutto o in parte calcolate con il sistema retributivo, mentre buona parte di coloro che percepiscono redditi da lavoro, e in particolare i più giovani, percepiranno una pensione calcolata col metodo contributivo. Nella misura in cui la pensione non corrisponda al frutto dei contributi versati, i pensionati ricevono di fatto un trasferimento intergenerazionale a loro favore dagli altri contribuenti. I loro redditi sono qualitativamente diversi. E questo potrebbe giustificare un trattamento differenziale sulle pensioni il cui valore ecceda quello che della pensione calcolata sui contributi versati.

Due osservazioni potrebbero farsi al riguardo: la prima che il calcolo dei contributi vale solo per i lavoratori privati, poiché per quelli pubblici fino al trasferimento della gestione all’INPS non vi era accumulazione di contributi. Ma ovviamente questo non impedisce di ricostruire i contributi “virtuali” dei dipendenti pubblici applicando le aliquote INPS più favorevoli alle retribuzioni storicamente percepite. La principale obiezione è invece che secondo questo criterio probabilmente una buona parte delle pensioni basse (e qui si intendono quelle veramente basse, poco sopra la pensione minima) risulterebbe non coperta dai contributi versati). E qui occorre  considerare due aspetti che riguardano il secondo principio enunciato dalla Corte, che giustifica la particolare protezione per i redditi pensionistici.

La protezione della situazione giuridica del pensionato deve ritenersi assoluta? O può ritenersi che la tutela che deve essere garantita a chi ha compiuto delle scelte irreversibili fidando sulla garanzia di un reddito  pensionistico possa trovare un limite nel fatto che quest’ultimo è in fondo sempre un trasferimento pubblico e che quindi potrebbe ben conoscere un limite sulla base di criteri di ragionevolezza e  proporzionalità dell’onere imposto su chi finanzia il trasferimento? In parole povere: si potrebbe sostenere che il principio si deve certamente applicare fino a un certo livello pensionistico, ma potrebbe essere attenuato oltre quello? Il problema sembra essere che questo livello dovrebbe essere sufficientemente elevato. Ma se lo fosse, allora l’idea di un’imposta sulle pensioni al di sopra di un certo livello e per la sola parte  eccedente il flusso di reddito derivante dai contributi versati potrebbe essere perseguita.

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Tags: Pensioni