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Patrizio Bianchi: “Modello tedesco per rilanciare l’industria italiana”

In marzo la produzione industriale ha gelato le previsioni: invece di proseguire sulla strada della ripresa, è rimasta invariata rispetto a febbraio facendo scendere l’incremento del primo trimestre ad un modesto 0,7%. Con questo ritmo, se non ci sarà una accelerazione nei prossimi mesi, anche l’obiettivo di crescita del PIL dell’1,2% per l’intero 2016, appare difficilmente raggiungibile. Certo nel 2015 l’Italia è uscita dalla tremenda recessione durata quasi 7 anni, ma la risalita appare lenta ed incerta. Soprattutto l’industria manifatturiera che pure è sempre stata il motore capace di trainare l’intera economia, appare anemica non meno del settore delle costruzioni che è stato in passato il secondo pilastro del nostro sviluppo.

Nonostante le condizioni esterne siano molto favorevoli con il costo del denaro a livelli così bassi quali mai si erano visti in passato, la svalutazione dell’Euro nei confronti del dollaro, ed il basso prezzo del petrolio, la nostra industria, che in altre analoghe situazioni aveva dimostrato di saper scattare verso l’alto, mostra un ritmo di recupero abbastanza blando. Sicuramente su questo andamento pesano il permanere di cause congiunturali dovute alla stentata ripresa della domanda interna, ma probabilmente sono ancora più rilevanti i cambiamenti strutturali avvenuti durante gli anni di crisi e l’evoluzione dei mercati internazionali.

Cercare di capire le cause profonde di questo relativo declino è fondamentale per poter studiare ed attuare una strategia di recupero evitando di tirar fuori vecchie ricette di politica industriale o modalità di intervento pubblico già fallite, e non certo adatte ad affrontare il nuovo scenario dell’economia globale.

Patrizio Bianchi è da diversi anni assessore alla formazione, ricerca e lavoro della regione Emilia-Romagna, dove ha potuto mettere in pratica le sue convinzioni sulla politica industriale maturate in tanti anni di studi come professore all’Università di Bologna e di Ferrara. A lui abbiamo chiesto una spiegazione di quanto sta avvenendo e di conseguenza qualche consiglio sugli indirizzi che il nuovo ministro per lo Sviluppo Carlo Calenda, dovrebbe dare al suo ministero.

Professore quali sono a suo parere le cause di fondo di questo andamento altalenante, ma sostanzialmente stazionario della produzione industriale italiana?

“Da un lato ci sono stati profondi mutamenti del quadro internazionale e dall’altro si sono determinati forti cambiamenti nella struttura del nostro sistema industriale tra chi è riuscito a stare sul mercato internazionale e chi invece è rimasto ancorato alla domanda interna, cioè tra chi possiede la tecnologia e le capacità organizzative per proiettarsi nel mondo e chi invece non accede a questi mercati ed anzi subisce in casa la concorrenza dei produttori di beni di consumo a basso costo”.

“Se guardiamo a quanto sta accadendo sul mercato mondiale vediamo che per i prossimi anni il FMI prevede una crescita abbastanza modesta che sarà comunque appannaggio soprattutto dei paesi emergenti, la Cina in particolare. Proprio la Cina oggi sta passando da produttore di beni di consumo poco sofisticati a fornitore di tecnologie di alta gamma. Si pensi a quanto sta avvenendo nel settore delle ferrovie dove nei grandi progetti di investimento che dovrebbero facilitare il passaggio delle merci cinesi verso l’Occidente, la Cina non si pone più come semplice promotore di iniziative finanziarie ma come un vero e proprio fornitore di tecnologie sofisticate in questo ramo dei trasporti. Questo ci fa capire che in futuro anche per le nostre imprese che posseggono la tecnologia per stare sui mercati internazionali, ci sarà un aumento della competizione e che quindi bisogna attrezzarsi in tempo per mantenere adeguati margini di competitività”.

Ma anche la lunga crisi economica iniziata nel 2008 ha influito sulla struttura dell’industria italiana tanto che la produzione è calata del 25% ed ora stenta a riprendersi.

“Certamente si è creata una doppia frattura tra i vari settori dell’industria, ed a volte anche all’interno dello stesso settore, tra chi è riuscito a stare con successo sui mercati internazionali e chi invece non ha potuto avere questo accesso. Ed inoltre si è aggravata la spaccatura tra il Nord del Paese, agganciato al cuore dell’Europa incentrato sulla Germania, ed il Sud che invece è rimasto tagliato fuori. Ci sono in altre parole delle imprese, soprattutto meccaniche, ma non solo, che sono riuscite ad entrare a far parte di una filiera industriale centro europea, per le quali oggi le vendite all’estero rappresentano il 90% del totale e quindi in mercato italiano è di fatto totalmente marginale, ed imprese che invece esportano piccole percentuali del loro fatturato e per le quali il mercato interno è largamente dominante. Le prime vanno bene mentre le seconde sono ancora sull’orlo della crisi. Questa frattura ha una conseguenza anche territoriale in quanto le imprese trainanti sono concentrate in poche regioni del Nord (Lombardia, Emilia, parte del Veneto e del Piemonte) mentre nelle altre regioni prevale l’industria tradizionale con mercato soprattutto interno. Il problema quindi è oggi come agganciare i due segmenti di imprese e colmare le differenze territoriali per poter tornare ad avere dall’insieme del sistema industriale una spinta sufficiente a trainare l’intera economia italiana”.

Ma su queste modifiche strutturali come ha influito la politica monetaria della Bce ed la crisi del sistema bancario, specie delle banche italiane che incontrano molta difficoltà ad ampliare i loro crediti a causa soprattutto dei vincoli regolatori delle autorità di Francoforte ?

“Sicuramente una unione monetaria non accompagnata da politiche di riequilibrio territoriale e di sostegno ai settori produttivi più deboli (non nel senso dei vecchi sussidi, ma per aiutarne l’evoluzione competitiva), ha prodotto questi risultati. Era facilmente immaginabile. Le attuali difficoltà delle banche, specie italiane, certo non agevolano gli impegni a fare investimenti di prodotto o di processo ma soprattutto non sostengono la necessità di fare politiche espansive sui mercati internazionali. Perché oggi il vero punto critico per le aziende è quello di immaginare una vera e propria strategia di global trade che non è solo l’esportazione di una parte dei propri prodotti, ma la capacità di impiantarsi in maniera stabile su molti mercati con strutture commerciali ed anche produttive integrate”.

Visti i cambiamenti epocali dei mercati internazionali ed i colpi subiti dal nostro apparato produttivo quale dovrebbero essere le priorità del nuovo ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, per salvaguardare il nostro apparato produttivo e per avviare un processo di vera e propria reindustrializzazione?

“Il punto centrale per mantenere o portare nuove produzioni in Italia non è più tanto il costo del lavoro, o il sostegno finanziario, ma l’ innovazione, la diffusione delle tecnologie e le competenze del lavoro. Bisogna insomma diffondere l’innovazione attraverso le filiere produttive proprio per evitare che quelle imprese che si sono già internazionalizzate siano solo un’isola in mezzo ad un mare di stagnazione. Lo strumento da usare non sono tanto i vecchi sussidi generalizzati quanto norme e regole chiare e mantenute nel tempo, che si inquadrano in un indirizzo strategico ben delineato e comprensibile a tutti gli attori sociali. Insomma quello che dobbiamo cercare di creare è un sistema che si muove tutto insieme verso una direzione ben chiara e convincente. Bisogna offrire agli investitori italiani ed internazionali una visione chiara e norme conseguenti. Poi gli investimenti arrivano: in Emilia l’Audi ha fatto parecchi investimenti ed anche Luiss Vuitton trovando un ambiente favorevole e delle competenze professionali formate da buoni istituti tecnici sorti tenendo conto delle esigenze delle imprese”.

Il Governo dovrebbe varare un grande progetto per l’industria 4.0 come fatto in Germania dal ministro per l’educazione e la ricerca ?

“Credo fermamente che compito del Governo sia quello di dare un indirizzo strategico capace di collegare innovazione, competenze, networking in un progetto di lungo periodo per lo sviluppo del paese nel quale l’industria manifatturiera sia destinata a rimanere il centro motore. Il punto centrale è quello di riuscire a mobilitare tutte le forze della società verso un obiettivo realistico e ben chiaro, aumentando le conoscenze condivise e fruibili collettivamente. Questo è l’unico modo per sviluppare insieme competitività e coesione sociale. La Germania su questo terreno si sta muovendo bene. Nulla impedisce di prendere ispirazione da quanto stanno facendo”.

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