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Partecipazione dei lavoratori alle aziende: la nuova legge, voluta dalla Cisl ma non dalla Cgil, avvierà un nuovo corso sindacale?

Imagoeconomica

È sempre rischioso porre a confronto tra di loro eventi avvenuti in contesti diversi, ma val la pena di correre l’alea per far comprendere – magari con qualche forzatura – le analogie riconducibili a determinate scelte compiute (e da chi) in tempi lontani con quelle che sono all’ordine del giorno oggi. Mettiamo le carte in tavola. Nel febbraio del 1953, il Consiglio generale della Cisl, riunito a Ladispoli, introdusse, con una relazione di Dionigi Coppo, nel dibattito sindacale il tema della contrattazione aziendale. In quei tempi la contrattazione collettiva si basava su accordi di carattere interconfederale che tenevano insieme tutto il mondo del lavoro. Il rinato sindacalismo democratico rimase a lungo impegnato (la Cgil più di tutti) in politiche rivendicative di carattere generale, promosse attraverso la contrattazione interconfederale. Com’ebbe a spiegare Di Vittorio, grazie a questa linea di condotta era stato possibile conseguire – attraverso una rigida centralizzazione contrattuale – «una perequazione approssimativa fra i lavoratori di tutte le categorie di tutte le regioni d’Italia. In questo modo – aggiungeva – i lavoratori delle organizzazioni più forti hanno dato la mano ai loro fratelli più deboli e li hanno portati avanti insieme a loro».

La nuova politica contrattuale proposta dalla Cisl prevedeva, invece, la negoziazione di contratti aziendali complementari al contratto nazionale di categoria, allo scopo di poter meglio redistribuire i profitti e i recuperi di produttività nelle singole aziende, essendo il salario aziendale affidato all’esclusivo dominio del datore. Un’indicazione siffatta apriva poi un nuovo problema: quello della presenza di un’istanza sindacale nel posto di lavoro collegato e coordinato con il sindacato esterno. Veniva così messo in discussione il ruolo delle commissioni interne , un organismo forzatamente unitario chiamato a svolgere, dall’accordo interconfederale del 1953, compiti di rappresentanza limitati all’applicazione dei contratti nazionali. Questa posizione della Cisl fu contrastata non solo dalle associazioni imprenditoriali (ci vorranno almeno dieci anni per farla passare), ma anche dalla stessa Cgil, la quale temeva il formarsi di chiusure aziendalistiche e corporative e il diffondersi di un «sindacalismo giallo» patrocinato dagli imprenditori. L’anno successivo venne stipulato l’accordo interconfederale sul conglobamento retributivo allo scopo di riordinare la struttura della retribuzione e inquadrare nella «paga base» una serie di voci salariali che si erano venute accavallando nel tempo. nella contrattazione nazionale di categoria. La Cgil non sottoscrisse quell’accordo, ma si attivò con grande impegno nella fase applicativa dello stesso relativamente al riordino dei contratti di categoria che in generale consisteva in un recupero e in un aggiornamento dei contratti corporativi che, dopo lo scioglimento dei sindacati fascisti, era stati mantenuti in vigore con un decreto luogotenenziale del 1944 e che avevano mutato natura trasformandosi da atti con valore di legge ad accordi di diritto comune.

La svolta del 1955 e il ripensamento della Cgil

Nella Cgil rimase il sospetto nei confronti della contrattazione aziendale, fino a quando le liste della Fiom nel 1955 non furono sconfitte nelle elezioni delle Commissioni interne alla Fiat. I voti alla Fiom crollarono dal 65 per cento al 36 per cento; la Fim-Cisl salì dal 25 per cento al 41 per cento, la Uilm-Uil dal 10 per cento al 23 per cento. Se a dirigere la Cgil di allora ci fosse stato Landini, egli avrebbe trovato il modo di incolpare (con tante ragioni) la politica repressiva dell’azienda. Per fortuna c’era ancora Giuseppe Di Vittorio insieme ad un gruppo dirigente con la testa sulle spalle che si resero conto delle responsabilità del sindacato. Fu appunto Di Vittorio che alla «storica» riunione del comitato direttivo della Cgil del 26 aprile 1955 condusse un’analisi coraggiosa denunciando le intimidazioni, le rappresaglie e i licenziamenti che avevano annichilito la classe operaia. Ma oltre a tali elementi, che pur pesavano, il leader della Cgil s’interrogò sugli errori della Fiom (i cui dirigenti furono sostituiti) e sul suo distacco dalla realtà delle fabbriche, che stavano diventando sempre più moderne e caratterizzate da specificità non raccolte dalla contrattazione interconfederale e nazionale di categoria. Val la pena di ricordare le sue parole, pronunciate cinquant’anni or sono, ma di una modernità sconcertante, perché valide anche oggi:

Il progresso tecnico e la crescente concentrazione monopolistica dei mezzi di produzione, accentuano continuamente queste differenze, determinando condizioni di vita e di lavoro estremamente differenziate fra vari gruppi di operai anche in seno alla stessa azienda. Il fatto che la Cgil – proseguiva Di Vittorio – sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore. La situazione oggettiva ci obbliga – concludeva – a far centro della politica salariale la fabbrica, l’azienda“.

La Cgil riconosceva di essere arrivata in ritardo, ma ci teneva a sottolineare che la prospettiva della contrattazione articolata era diventata una realtà solo dopo la sua conversione e il suo contributo. Nel 1958 il governo varò una legge che imponeva alle aziende Iri ed Eni di uscire dalla Confindustria e di costituire proprie associazioni datoriali (l’Intersind e l’Asap) che sperimentarono esperienze importanti di contrattazione aziendale fino al Protocollo che nel 1962 riconobbe la contrattazione articolata nel rinnovo del ccnl dei metalmeccanici che poi nel febbraio del 1963 la imposero anche alla Confindustria.

Oggi come allora: partecipazione o deriva ideologica?

È venuto il momento di spiegare perché l’abbiamo presa così lunga e tanto lontana nel tempo. È presto detto: riscontriamo nel contesto politico/sindacale di oggi elementi che ci riportano in quegli anni. Certo, i protagonisti di allora, se confrontati con quelli di oggi, erano dei giganti: dei Gulliver a Lilliput. Ma guardiamo a ciò che succede in queste settimane: il Parlamento ha approvato in via definitiva il ddl proposto dalla Cisl sulla partecipazione ai sensi dell’articolo 46 della Costituzione, mentre la Cgil sta conducendo la sinistra sulla via dei passi perduti di un referendum novecentesco che difficilmente (ce lo auguriamo) raggiungerà il quorum. Per quanto sia debole, la legge sulla partecipazione mette allo scoperto una nuova cultura delle relazioni industriali imperniata sulla collaborazione tra management e sindacato nell’affrontare le nuove sfide della AI, in un contesto profondamente modificato dalla globalizzazione e dalla crisi del mercato del lavoro, in termini qualitativi e quantitativi, sul versante dell’offerta. Persino il nuovo Pontefice pensa ad una Rerum Novarum 2.0. nella quale continuerà a trovare posto un principio del testo di Leone XIII: “A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale”.

Ammesso e non concesso che ci siano ancora dei socialisti, ben poco è rimasto delle caratteristiche ideali e politiche denunciate nell’Enciclica. Nei referendum di Landini sopravvive un solo sentimento: l’odio. Un odio che viene evocato per dare forza alla mobilitazione per il successo di quell’operazione referendaria, anche a costo di rappresentare una società che non esiste: dove dilaga il precariato, si perpetua una strage degli innocenti perché i datori pensano al profitto e non alla sicurezza, dove i lavoratori vengono licenziati senza potersi difendere. Anche a costo di votare soluzioni che non risolvono alcunché, ma che finiscono per essere solo dei simboli. Ecco allora che il disegno della sinistra reazionaria deve essere battuto, attraverso la modalità più sicura: il mancato raggiungimento del quorum, perché, per come si sono messe le cose anche il voto No diventa un Si perché concorre a formare il quorum di validità del referendum. E se passa il quorum è certa la vittoria dei Sì, perché i sostenitori sono gli unici ad aver fatto campagna elettorale. Dubitiamo però che una sonora sconfitta di Landini nel referendum determini un ripensamento autocritico sulla strategia sfascista della Cgil che somigli sia pure alla lontana a quello di Di Vittorio del 1955. Quanto all’altro sindacato, quello che festeggia la partecipazione, è bene che non si faccia illusioni. Nessuno si salva da solo. La Cisl si trova ad avere contro di sé e le sue idee, in questa sfida – a cui si reca con un impianto normativo abbastanza debole – sia la Cgil e la Uil, sia la Confindustria. In grande si ripeterà la vicenda dell’inizio degli anni ’80: quella dello 0,50% chiamato a costituire un fondo per l’occupazione giovanile. L’iniziativa ebbe fin dall’inizio la macumba del Pci e non riuscì mai a decollare.

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