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Moda e lusso, non piangere se arriva lo straniero

Autogrill, Atlantia, Enel, Lottomatica (ora Gtech), Luxottica, Fiat, prima con l’acquisto di Case, (veicoli industriali) poi di Chrysler, sono solo alcuni, e i più famosi, dei nomi delle imprese italiane che nell’ultimo quindiccennio hanno conquistato posti di preminenza nei mercati internazionali attraverso acquisizioni strategiche all’estero. Per non parlare di Unicredit, divenuta seconda banca europea per dimensione. E delle tantissime medie imprese che hanno seguito la stessa strada. Questo per dire che il ritornello che si scatena ogni volta che un marchio italiano famoso viene acquisito da un’impresa estera, che siamo terra di conquista, che a noi all’estero non ci permettono di andare e che insomma occorrerebbe una protezione dei nostri marchi storici, non pare tanto giustificato.

Occorrerebbe invece riflettere sulle ragioni per le quali certi fenomeni avvengono. E la conclusione finirebbe probabilmente per essere la stessa: perché continuare a stare con successo sul mercato globale sempre più competitivo richiede un salto di qualità e di dimensione organizzativa, finanziaria e gestionale che è molto impegnativo. Ed è più facile affidarsi a chi questo salto l’ha già fatto che farlo da soli. Soprattutto nel contesto economico italiano.

Prendiamo la moda e il lusso: il marchio e lo stile sono importanti. Ma nel mercato mondiale per i prodotti di lusso occorre controllare la domanda attraverso una distribuzione diffusa nei grandi centri di consumo, che ormai vanno dall’Europa agli USA agli importantissimi paesi dell’Est asiatico. In un mercato sofisticato questo consente di essere sempre in sintonia con le preferenze dei potenziali clienti e evitare le contraffazioni, problema centrale per queste imprese. Occorre anche aggiornare e rinnovare la gamma, per essere sempre sulla frontiera della competizione. Tutto questo richiede risorse imponenti. Come qualche anno fa raccontava al Financial Times l’allora Direttore Generale di Fendi, quando la marca fu acquistata da LVHM controllava tre negozi: la distribuzione era lasciata a concessionari. In due anni il sistema fu rivoluzionato e furono aperti oltre 150 negozi in tutto il mondo. La gamma della produzione fu ampliata ai livelli che ora conosciamo attraverso una riorganizzazione e potenziamento della parte creativa.

La dimensione paga anche perché essere più grandi permette di essere in posizione più favorevole in molte contrattazioni: chi ha molti marchi, come LVHM o Richemont o PPR (ora Kering) può permettersi di occupare interi piani degli shopping mall di lusso di Kuala Lumpur o di Chongqing, occupando le posizioni migliori con i suoi negozi e presumibilmente strappando condizioni più favorevoli. Infine, una gamma completa di marchi, di diverso livello e di diverse produzioni, permette di coprire il mercato, seguire il cliente e bilanciare i flussi di ricavi. Insomma: i conglomerati del lusso hanno una ragione economica e infatti prosperano. D’altronde non sono i soli: anche i marchi acquisiti si giovano dall’appartenere a gruppi più grandi, né pare che questo gli faccia perdere il loro carattere: anzi, questi gruppi prosperano proprio sul dinamismo e la vitalità di marchi che per questo sono tenuti autonomi. I successi di Gucci e Fendi, la rivitalizzazione di Pucci, la nascita di nuovi marchi di nuovi stilisti sono lì a testimoniarlo. Ecco anche perché gli imprenditori originari spesso restano e restano volentieri nei gruppi che li acquistano.

Ecco anche perché i lai italiani quando un marchio della moda passa in mani straniere non sembrano tanto giustificati: non è una partita di calcio in cui bisogna tenere per la squadra di casa e probabilmente invece si aprono prospettive di sviluppo. Casomai, la preoccupazione dovrebbe essere per gli altri marchi, che non riescono giovarsi delle economie e delle sinergie di cui si giovano i grandi gruppi. 

Il che ci porta alla domanda: d’accordo, ma perché non si può fare in Italia? E la risposta è forse in alcune caratteristiche del nostro sistema economico, limitatezza dei capitali, incapacità di fare sistema, ma ancor di più nelle caratteristiche del nostro capitalismo. In primo luogo, capitalismo artigiano, in cui l’imprenditore è inventore, creatore, ma anche padrone: e quindi inadatto a gestire portafogli di iniziative lasciandole largamente autonome. Ne è testimonianza il fallimento di alcune aggregazioni intorno a marchi storici, ad esempio di Jil Sander intorno a Prada, fallita per i difficili rapporti tra il padron di Prada e gli stilisti di Jil Sander. Al contrario Arnaud, Pinault non sono stilisti né creatori: sono aggregatori, formatisi in settori del tutto diversi (costruzioni, materiali elettrici) ed hanno poi percepito le possibilità che si aprivano nel mercato del lusso, mettendo insieme i loro imperi, anche approfittando di circostanze fortunate.

E allora, perché non si formano da noi aggregatori? E qui c’è una seconda caratteristica del nostro capitalismo: l’importanza della “relazione” e il fascino del potere. Troppo spesso i nostri aggregatori i loro soldi preferiscono metterli (e molto spesso perderli) in quelle iniziative che danno loro lustro e rapporto con il potere: dai giornali, alle banche, ai grandi incroci azionari senza frutto nelle comunicazioni, all’attività immobiliare. L’attenzione al lusso e ai grandi marchi è solo quella da consumatori. Fortuna per il sistema Italia che ci sono i francesi……

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