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Miragliotta (Polimi): “Intelligenza artificiale, sfida ineludibile”

Imagoeconomica

Rischio o opportunità? Strage di posti di lavoro o semplice cambiamento delle competenze? Più benessere o più disuguaglianze? In molti si interrogano sugli effetti che la quarta rivoluzione industriale – ovvero quella dell‘Internet connesso agli oggetti, dell’automazione, della robotica e, in definitiva, dell’intelligenza artificiale – avrà sulle nostre vite, sul futuro delle nostre professioni e dei nostri sistemi economici. Una rivoluzione che secondo McKinsey, solo per citare uno degli ultimi studi, porterà un valore aggiunto di 6mila miliardi nel mondo, mentre Accenture stima, grazie alla collaborazione uomo-macchina (se davvero collaborazione sarà), incrementi di fatturato del 38% e di occupazione del 10%; anche se altri studi prevedono invece la scomparsa di 2.000 mansioni da qui al 2030, con un saldo negativo per centinaia di milioni di impieghi nel mondo.

Dall’auto a guida autonoma ai chatbot (i robot delle chat, che sostituiscono i call center), dai sistemi che regoleranno i semafori delle nostre città (che diventeranno smart cities), ai software che leggeranno i nostri esami medici e a quelli che prediranno la possibilità di guasti ai nostri veicoli attraverso il recupero di un’infinità di informazioni rilevate tramite sensori: dobbiamo avere paura o essere entusiasti, come siamo stati entusiasti di fronte alla rivoluzione di Internet? Soprattutto nell’industria, l’intelligenza artificiale è costituita da algoritmi, sempre più complessi, strutturati per consentire alle macchine di realizzare meglio delle persone attività tipicamente umane. Quanto meglio? Da sole o in collaborazione con gli umani? “Dell’I.A. abbiamo bisogno – ha spiegato in questa intervista rilascita a FIRSTonline, Giovanni Miragliotta, Direttore dell’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano -: la complessità dei nostri sistemi industriali, economici e sociali richiede ormai questo tipo di supporto”.

E i posti di lavoro, Professore?

“Tra i tanti temi che riguardano l’intelligenza artificiale, che inevitabilmente presenta una scenario fatto di luci ed ombre, dall’etica all’accessibilità a queste soluzioni, dall’interpretabilità delle decisioni di una macchina fino alla privacy, quello del futuro del mercato del lavoro è sicuramente uno dei più delicati. La mia convinzione è che non vi saranno drammatici deficit occupazionali”.

Eppure alcuni studi, uno dei quali riportato dal Focus del servizio studi di Bnl, sostengono che entro il 2030 le nuove tecnologie distruggeranno fino a 800 milioni di posti di lavoro nel mondo (con la scomparsa di 2.000 mansioni) e ne creeranno solo 300-350 milioni di nuovi.

“Ci sono vari studi in proposito, alcuni che dipingono prospettive con saldi occupazionali negatici, altri addirittura positivi, e gli studiosi si dividono. Per farsi una idea compiuta è necessario comprendere il perimetro e le ipotesi con cui sono stati condotti, e tenere comunque in considerazione che ci sono fattori che, nei tempi considerati da tali ricerche, altereranno significativamente il mercato del lavoro, come ad esempio l’invecchiamento della popolazione ed il cambiamento stesso del concetto di lavoro. In una società più vecchia lavorano meno persone, mentre più persone hanno bisogno di assistenza e questa può essere data grazie all’I.A. Inoltre da qui ai prossimi 12 anni sarà forse cambiato il concetto di lavoro: chi può dire già oggi quali saranno le nuove professioni?”.

Dai vostri studi che tendenza emerge?

“Le cito due casi di scuola. Il primo è un white paper (dunque ancora senza rilevanza scientifica) datato a marzo 2017 negli Usa, per studiare appunto la correlazione tra la diffusione di robotica nell’industria, il tasso di impiego e i salari. La ricerca ha rilevato che in delle zone specifiche (commuting zone), con bacini di offerta di lavoro stagni e isolati, dove ci sono i robot ci sono effettivamente meno posti di lavoro e salari più bassi. Un robot ogni mille lavoratori fa perdere il posto a 2 di questi, e fa ridurre lo stipendio dello 0,2-0,3% in media agli altri. Un altro studio dello scorso ottobre, condotto sul mercato tedesco, che in proporzione ha una maggiore diffusione della robotica di quello statunitense, ha invece dimostrato che non è vero che l’automazione crea disoccupazione: al massimo ha avuto come conseguenza che non si assumesse più per certi lavori nel manifatturiero, ma che in compenso si sia assunto di più nel settore dei servizi, ovviamente legati alla tecnologia. Quindi meno manifattura e più servizi: esattamente quello che ci si aspetta dall’I.A.”.

E i salari? Un recente libro di Massimo Gaggi, Homo Premium, sostiene che uno dei più grandi rischi della rivoluzione digitale sia una nuova stagione di disuguaglianze.

“Nel caso tedesco che citavo, effettivamente si è assistito a una polarizzazione dei salari: stipendi più bassi nelle fabbriche, condizioni migliori – non solo dal punto di vista economico ma anche delle prospettive di carriera – nei servizi. Disuguaglianze ce ne potranno essere, ma non se si interviene per tempo, come invece secondo me accadrà perché ormai la consapevolezza di questo cambiamento è diffusa: servono più formazione, anche rivolta a chi è già nel mondo del lavoro, e una tassazione dei servizi digitali equa e uniforme. Dai maggiori profitti delle società tecnologiche verranno fuori più risorse, che però non utilizzerei in chiave assistenzialista (reddito di cittadinanza o simili) quanto reinvestendo appunto nella formazione e nell’innovazione per le imprese. E poi c’è l’accettabilità sociale: un cambiamento, se giudicato dannoso dalla società, può essere rallentato dalla società stessa: se siamo tassisti o autisti e lo sono molti tra i nostri amici e parenti, difficilmente acquisteremo un’auto a guida autonoma”.

A proposito di formazione: l’Italia è pronta, o stiamo ancora formando i giovani per professioni che non saranno più richieste?

“Come Politecnico stiamo lavorando molto per i mestieri del futuro. Personalmente, ad esempio, tengo un esame che si chiama “Laboratorio di pianificazione avanzata”, in cui insegniamo a pianificare scorte e materiali in filiere produttive, attraverso l’utilizzo di sensori che vengono collegati a piattaforme cloud per elaborare i dati. La parte teorica rimane, ma è completata da tutto il lavoro sui dati. La risposta del mercato del lavoro ci conferma questa direzione di lavoro: nel portale Polimi in cui le aziende possono inserire le loro offerte di lavoro, oggi per ogni ingegnere informatico laureato ci sono in media 30 richieste. E non siamo gli unici: il Sant’Anna di Pisa è un’eccellenza per la robotica, per esempio”.

Non c’è dunque meno lavoro, ma cambiano le competenze richieste.

“Esatto, sono le cosiddette skills 4.0. Abbiamo studiato una serie di casi in tutto il mondo, in cui sono stati utilizzati software (ma non robot né droni) di I.A., e abbiamo ancora una volta rilevato che non c’è, per lo meno in queste fasi iniziali, la volontà da parte delle imprese di eliminare posti di lavoro. Anzi c’è un incremento di domanda di competenze, soprattutto di fascia alta (data science, etc) e in generale le prime applicazioni di intelligenza artificiale sono orientate a migliorare l’efficacia, a offrire cose nuove, a estendere i prodotti o i servizi, non a fare lo stesso lavoro sostituendo l’uomo con la macchina”.

Domanda tecnica per evitare di fare confusione: con l’I.A. c’entra qualcosa anche l’Internet of Things?

“Sì, IoT e intelligenza artificiale sono strettamente collegati. Tramite l’IoT si acquisiscono miliardi di dati e informazioni connettendo tra di loro gli oggetti, l’I.A. processa questi dati”.

A che punto di questa transizione tecnologica è l’Italia?

“Studiando solo le grandi imprese italiane, quelle con oltre 1,5 miliardi di fatturato, abbiamo visto che poco più della metà di loro, il 56%, utilizza già adesso soluzioni di intelligenza artificiale. Poco rispetto alla media di Paesi europei come Francia e Germania, che viaggiano sul 70%, ma leggermente meglio della media mondiale, sul campione che abbiamo analizzato, che risulta appena sotto al 50%”.

Concretamente, quali sono le forme di I.A. più utilizzate al momento?

“A differenza di quanto si potrebbe credere, non è la robotica, che a livello mondiale rappresenta solo il 4% dell’intelligenza artificiale usata nelle imprese. Al primo posto, col 35%, c’è l’Intelligence Data Processing, ovvero ad esempio i software che elaborano suggerimenti (i famosi “potrebbe anche interessarti”), il predicting, come quello che attraverso l’elaborazione dei dati forniti dai sensori sulle auto è in grado di prevenire guasti e trovare soluzioni, o ancora i sistemi che rilevano transazioni anomale con le nostre carte di credito o bancomat e che poi le comunicano all’assistenza umana, che ci avvisa. Questo è anche un caso di collaborazione uomo-macchina. Nel 25% delle aziende sono poi diffusi i chatbot, le chat robot ovvero dei software che, di solito in modalità testuale ma anche vocale, offrono assistenza tramite un algoritmo in grado di rispondere alle nostre domande”.

E i chatbot, non faranno sparire i call center?

“Non è detto, le capacità dei chatbot sono ancora molto limitate rispetto alle capacità di un uomo, e ci vorranno anni perché evolvano. Ciò che è certo, per ora, è che creano un’opportunità in più per il cliente, perché pur coi loro limiti sono attivi 24 ore su 24, come per un call center tradizionale sarebbe troppo gravoso fare”.

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