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Miracolo a Roma? Rilanciare la Capitale si può ma serve una nuova leadership

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Può Roma arrestare il declino e il degrado in cui, giorno dopo giorno, sembra ineluttabilmente sprofondare? È la domanda che, con una certa angoscia, quotidianamente i cittadini romani si pongono e a cui questo libro tenta di dare una risposta. Innanzitutto facendo giustizia di una serie di slogan e di luoghi comuni spesso ripetuti da analisti e politici e che suonano tendenzialmente autoconsolatori: Roma: “una città internazionale”, “una città non industriale ma con un forte distretto scientifico-tecnologico”, “una città ‘aperta e solidale’”, “una città della cultura”. Luoghi comuni che forse vogliono indicare delle aspirazioni frustrate, ciò che Roma avrebbe potuto essere (e forse potrebbe ancora diventare) ma che nella realtà non è stata o è stata solo per brevi periodi. Il che è avvenuto, come Alfredo Macchiati spiega molto bene, per l’assenza di politiche pubbliche capaci di sviluppare visioni e strategie e consolidare le potenziali vocazioni della città.

Ma Roma, per riconquistare condizioni di vivibilità e proiettarsi nella modernità, deve superare alcuni handicap storici che hanno condizionato la sua crescita, la sua morfologia, la sua struttura sociale, il suo modo di essere capitale. Sono problemi antichi che affondano le radici nella storia d’Italia e della sua capitale. Perché lo Stato italiano, a differenza degli altri grandi Stati nazionali sorti in Europa a partire dal Medioevo, non ha avuto nella Capitale il punto di riferimento dell’identità e dell’unità della nazione. Le eredità papaline di Roma hanno segnato la arretrata struttura produttiva della città e il carattere dei suoi abitanti e hanno impedito il formarsi di una borghesia produttiva moderna e dinamica e il nascere di quello spirito civico e di comunità che, al contrario, nell’Italia dei Comuni e delle signorie si era radicato sin dal xii secolo. È una debolezza che, peraltro, riguarda la Capitale in quanto proiezione di uno Stato debole, rimasto frammentato fino a centocinquanta anni fa e il cui processo di unificazione deve ancora realizzarsi in modo compiuto.

Le riforme federaliste degli anni Duemila non hanno certo aiutato in questo senso così come ha trovato resistenze, sorde ma profonde, l’accettazione di una leadership di Roma anche se, come affermato da Cavour nel discorso tenuto a Torino nel marzo 1861, di fronte al neonato Parlamento del Regno d’Italia, “Roma sola può essere la capitale d’Italia”. Ma in origine, nella Costituzione repubblicana, di Roma capitale non si faceva cenno. Il riconoscimento costituzionale è arrivato solo nel 2001 con la riforma del Titolo V anche se, di fatto, l’impegno originario, implicito nella disposizione inserita nell’articolo 114 della Costituzione, di conferire a Roma maggiori poteri e risorse, è rimasto lettera morta. Perché quel riconoscimento più che l’esito di un processo collettivo di adesione al ruolo di Roma, ha rappresentato il rabberciato compromesso politico tra la spinta, reale e forte, del federalismo di marca leghista e la volontà, debole e poco radicata, di una riaffermazione dell’unità nazionale di cui solo il Presidente Ciampi ebbe a suo tempo il coraggio di fare una bandiera, senza temere accuse di retorica o di nazionalismo, remore che invece furono della sinistra che infatti, in epoca repubblicana, ha sempre lasciato alla destra il tema dell’identità nazionale.

E oggi ci risiamo: in Parlamento si discute di nuovo di un possibile Statuto speciale di Roma Capitale, ovvero di un assetto istituzionale che avvicini Roma alle altre capitali d’Europa. Ma se ne discute sempre e solo tra i parlamentari romani come se si trattasse di una rivendicazione campanilistica e non, invece, di una questione che riguarda il Paese intero, l’intero assetto dello Stato. D’altra parte, questo non sembra neppure il momento migliore per riproporre il tema visto che Roma vive oggi uno dei momenti più bassi della sua storia di capitale e per i cittadini, sicuramente per i cittadini non romani ma anche per quelli romani, risulta particolarmente difficile sentire Roma come espressione della loro identità nazionale. La leadership, anche quella istituzionale, si conquista sul campo e oggi la Capitale non è in grado di reclamarla.

Che il problema della sua crisi – economica, sociale, culturale, infrastrutturale – non dipenda dall’assenza di poteri rafforzati ma dalla persistente assenza di una leadership politica e di una classe dirigente che siano portatori di una visione strategica e abbiano la determinazione di perseguirla con coerenza e continuità emerge da questo libro con, talvolta ruvida, chiarezza. Così come emerge che per Roma i periodi migliori in termini di qualità amministrativa e di crescita complessiva della città – periodi che Macchiati identifica nelle sindacature Nathan, Argan-Petroselli e Rutelli – hanno sempre coinciso con fasi in cui, a livello nazionale, la politica ha espresso capacità di innovazione e cultura riformista che hanno trainato l’affermarsi, anche nella Capitale, di una nuova classe dirigente.

Da questo punto di vista la prossima sindacatura potrebbe giovarsi di un fenomeno analogo. Ma non è scontato che ciò avvenga, perché sembra mancare la condizione che in passato ha fatto fare a Roma uno scatto di orgoglio e di rilancio: e cioè che anche nella città si verifichi un profondo rinnovamento politico e sociale. Ma a Roma (come nelle altre città in cui è imminente la consultazione elettorale) non sembrano emergere nuove classi dirigenti dinamiche e innovative, capaci di rigenerare le prospettive della capitale; le città chiamate al voto sembrano piuttosto essere divenute il campo in cui si sono ritirate le forze politiche la cui insipienza e mancanza di credibilità internazionale hanno determinato l’arrivo del governo di Mario Draghi.

Dunque, coloro che si candidano al governo della città dovranno essere molto chiari sugli obiettivi che intendono realizzare e anche sulle modalità con cui si propongono di raggiungerli, perché per conseguire un cambiamento vero e profondo sarà necessaria la massima autonomia dai partiti romani che in questi anni hanno frenato, anteponendo interessi di parte, interessi corporativi (o altri interessi talvolta inconfessabili) a quelli della città. Il libro di Macchiati indica un’agenda, essenziale ma ineludibile, che dovrà essere una bussola per i candidati che si apprestano a definire i loro programmi, ma sarà anche uno strumento molto utile per gli elettori che vogliano fare scelte consapevoli. Perché i prossimi cinque anni saranno decisivi per capire se Roma potrà annoverarsi ancora tra le moderne capitali europee o se sarà diventata una capitale del Sud del Mediterraneo.

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