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Messori: nella manovra sarebbe meglio l’Ici della supertassa e gli effetti recessivi vanno ribaltati

La necessità di ridefinire la manovra, varata poche settimane fa con l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio pubblico nel 2014, avrebbe potuto essere l’occasione non solo per correggere il precedente e inaffidabile rinvio di gran parte degli aggiustamenti a un periodo post-elettorale ma anche per introdurre modifiche in grado di erodere le diffuse aree di rendita della nostra economia e di rilanciarne la crescita.

Ciò avrebbe consentito al governo italiano di raggiungere due risultati rilevanti: reagire in modo positivo al sostanziale commissariamento, subito la scorsa settimana da parte della Banca centrale europea (BCE) e dei membri ‘forti’ dell’Unione monetaria europea (UME); attuare quel consolidamento del bilancio pubblico e quelle riforme strutturali, invocate da tempo per migliorare la competitività del nostro sistema economico e l’equità del nostro sistema sociale. Viceversa, stretto fra i veti incrociati dei suoi principali esponenti, il governo si è limitato a svolgere il compito minimo imposto dalla BCE e dall’UME (ossia, la presunta anticipazione al 2013 del pareggio del bilancio pubblico) senza preoccuparsi dell’impatto recessivo delle nuove misure. Esso ha perso, così, un’occasione unica per aumentare il nostro potenziale di crescita e per recuperare credibilità interna e internazionale.

La nuova manovra, che dovrebbe portare a un aggiustamento di circa 20 miliardi di euro nel 2012 e di 25,5 miliardi di euro nel 2013, è incentrata su quattro capisaldi: un aumento biennale delle aliquote IRPEF del 5%, per la parte dei redditi lordi superiore ai 90.000 euro annuali, e del 10% per quella superiore ai 150.000 euro annuali oltre all’aumento della quota Irpef per gli autonomi con redditi superiori ai 55mila euro; un taglio ai trasferimenti in favore delle regioni e degli enti locali, che dovrebbe comportare anche una significativa riduzione nel numero delle “poltrone” pubbliche; l’unificazione al 20% dell’aliquota di tassazione dei rendimenti finanziari; un anticipo nell’attuazione della delega fiscale e assistenziale, in grado di produrre aggiustamenti fin dal 2011. Non dispongo dei dettagli tecnici per verificare se questi quattro interventi siano sufficienti ad approssimare gli obiettivi quantitativi che caratterizzano la nuova manovra. Certo è che ognuno di essi solleva qualche perplessità.

A causa dell’elevata evasione fiscale presente in Italia, l’aumento biennale dell’IRPEF colpirà soprattutto i lavoratori dipendenti che appartengono al ceto medio e  che hanno una famiglia mono-reddito e lo sparuto drappello di chi denuncia un reddito medio-alto e alto. Per giunta, tale aumento incentiverà ulteriormente l’evasione e l’elusione fiscali da parte dei lavoratori autonomi e degli imprenditori; il che rischia di vanificare le previsioni governative in termini di recupero dell’evasione stessa per ben più di un biennio. In alternativa, esclusa un’elevata tassazione una tantum sui patrimoni mobiliari e immobiliari, il governo italiano avrebbe potuto ripristinare l’ICI sulla prima casa, inasprire l’ICI sulle seconde case e ritornare a quella tassazione della successione ereditaria che rappresenta una condizione necessaria per garantire una “uguaglianza delle opportunità”.

Inoltre, il taglio indistinto dei trasferimenti a regioni ed enti locali rischia di tradursi in un indebolimento dei servizi e delle protezioni sociali erogate in una fase di alta disoccupazione e di forte disagio per le fasce più deboli della popolazione. Se avesse voluto affrontare davvero il problema dei ‘costi della politica’, il nostro governo avrebbe potuto sopprimere gli enti inutili, procedere a più selettivi recuperi di efficienza nell’ambito della pubblica amministrazione e avviare una drastica e immediata riduzione nel numero degli enti locali; così facendo, esso avrebbe anche gettato le basi per una riforma del patto di stabilità interno e costruito un potente incentivo per la privatizzazione di parte delle aziende locali. Infine gli aggiustamenti, che dovrebbero scaturire dalla delega assistenziale, restano affidati a iniziative ancora prive di un contenuto ben definito; e le riduzioni lineari dei regimi di esclusione ed esenzione fiscale, che dovrebbero continuare a scattare entro il 2013 a compensazione della mancata o inadeguata realizzazione di questa delega, avrebbero un segno così regressivo da essere difficilmente attuabili.  

Il governo ha opportunamente deciso sia l’unificazione dell’aliquota di tassazione dei rendimenti finanziari che l’anticipazione temporale di una parte marginale delle riforme già deliberate in materia previdenziale. In ambedue i casi si è, però, trattato di iniziative troppo timide. L’aliquota unica sulle rendite finanziarie  avrebbe dovuto essere fissata al 23% anziché al 20%; e le anticipazioni temporali in materia previdenziale avrebbero dovuto riguardare l’insieme delle decisioni già assunte, anche se applicandole ai soli lavoratori appartenenti – in tutto o in parte – al regime vigente prima della riforma Dini ossia al regime a ripartizione retributiva.

Oltre a questi quattro capisaldi, la nuova manovra prevede iniziative anche condivisibili. Così è, per esempio, per gli impegni assunti rispetto alla dismissione delle quote di proprietà pubblica e alla liberalizzazione di alcune attività professionali e di alcuni mercati. Tali impegni rimangono, però, tanto generici da risultare velleitari. Soprattutto, essi non sono in grado di rovesciare l’impatto recessivo dell’aumento della pressione fiscale e dei tagli indistinti di spesa.

La nuova manovra è stata, comunque, varata. La speranza è che la BCE e i membri ‘forti’ dell’UME siano almeno disposti a riconoscere al governo italiano di aver svolto il compito, a esso assegnato, con il voto minimo sufficiente per meritare la temporanea conferma dell’ombrello protettivo europeo sui titoli del debito sovrano. La qualità della manovra è, comunque, tale da diminuire il già infimo potenziale di crescita dell’economia italiana e da riprodurre la necessità di un commissariamento europeo del nostro governo. Il dubbio è che, per l’Italia, la più efficace spinta alla crescita e al consolidamento del bilancio pubblico rimanga la sostituzione dell’attuale governo con un governo istituzionale capace di riguadagnare la nostra perduta reputazione a livello europeo.
 
* Ordinario di Intermediari finanziari all’Università di Roma Tor Vergata ed ex presidente Assogestioni

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