X

Macron lancia la sfida europea al protezionismo Usa: “Mettiamo in comune il 2% del Pil”. Von der Leyen apre, l’Italia spera

Imagoeconomica

Altro che Mes. La vera partita del 2023 è quella che si giocherà in Europa a partire dal vertice dei capi di governo del prossimo 9-10 febbraio: è qui che l’Italia si giocherà le chances di crescita della nostra economia. In sintesi: Sì a una politica industriale comune tra i 27 attraverso un “Fondo per la sovranità economica”. No agli aiuti di Stato senza vincoli precisi, una trappola mortale per le aziende di Paesi che, come l’Italia o la Spagna, non hanno alle spalle le economie più solide.
Insomma, dopo tante scaramucce, prende corpo il mondo post-global. Una grande occasione da cogliere al volo, ma anche il rischio di far da vaso di coccio in un confronto con gli Usa (e la Cina) che promette di far ben pochi prigionieri.

Macron: occorrono aiuti di stato privilegiando il “Buy Europe”

E’ questa la preoccupazione di Emmanuel Macron che, in una lettera inviata ai partner Ue il 9 gennaio ha invocato uno shock che faciliti gli aiuti di Stato all’interno dell’Europa privilegiando però il “Buy Europe” nelle commesse pubbliche. E, tanto per sottolineare l’importanza del tema, l’affondo del presidente coincide con la missione in giro per l’Europa del francese Thierry Breton, il commissario Ue al mercato unico che ha già visitato Polonia, Belgio e Spagna per lanciare l’idea di un fondo per sostenere l’industria europea. Di quali dimensioni? “L’IRA americana – dice Macron – vale il 2 per cento del Pil Usa. Dobbiamo rispondere con un’iniziativa analoga”.

L’esempio della legge Usa (Ira): da inizio anno già stanziati 370 miliardi di dollari per l’industria

Già, tutto nasce dall’IRA, che sta per “Inflation Reduction Act”, la legge Usa in vigore da inizio 2023 che stanzia 370 miliardi di dollari a favore dell’industria Usa. L’obiettivo dichiarato è promuovere l’industria verde, ma nei fatti è soprattutto un formidabile aiuto di Stato ad alcuni settori: 200 miliardi di dollari sono destinati a sostenere l’acquisto di auto elettriche (7,600 dollari per veicolo) purché prodotte sul suolo americano con una precisa percentuale di materiali made in Usa. Lo stesso atteggiamento tenuto sul fronte dei chips. Biden ha convinto i colossi di Taiwan a trasferire buona parte dei futuri i investimenti sul suolo americano.

Per i gruppi europei le condizioni negli Usa sono più allettanti

Intanto l’americana Intel ha chiesto alla Germania di aumentare gli aiuti già previsti per una fabbrica in Sassonia minacciando di tornare in patria visti gli incentivi previsti dagli Usa. “Ormai non passa giorno senza che un gruppo industriale europeo non annunci l’intenzione di crescere in Usa”. Così denunciava a dicembre un editoriale di Le Monde citando a mo’ di esempio, le scelte di Volkswagen e di Bmw ma anche della belga Solvay o della francese Saint Gobain piuttosto che di Iberdrola. Da allora l’elenco si è allungato anche perché al peso degli incentivi Usa (compreso il piano di aiuti per gli investimenti nei semiconduttori) va aggiunto il costo dell’energia, il vero tallone d’Achille dell’industria europea per giunta costretta ad affrontare regole e vincoli ambientali più rigorosi dei concorrenti.

Von den Leyen: stiamo preparando un piano di per aumentare i finanziamenti Ue

E’ in questa cornice che è maturato l’affondo del presidente francese, convinto che le iniziative europee per ammorbidire le posizioni americane siano destinate ad ottenere risultati modesti. La replica di Ursula Von den Leyen, che ha seguito in prima persona le trattative con gli Usa, è arrivata ieri a Davos. Certo, per ora i risultati non ci sono. “Alcuni elementi dell’Inflation Reduction Act sollevano varie preoccupazioni per gli incentivi mirati alle aziende – ha ammesso – Ma per questo stiamo lavorando con gli Usa per trovare una soluzione, ad esempio facendo sì che le aziende europee e le auto elettriche europee possano anch’esse beneficiare” del programma di aiuti da 369 miliardi di dollari.
Insomma, per ora non è una dichiarazione di guerra. Ma la stessa presidente ha dovuto fare un passo avanti rispetto alla dottrina degli aiuti di Stato: la Ue deve “realizzare la transizione verso le emissioni zero senza creare nuove dipendenze” e per farlo “abbiamo un piano. Un Piano industriale per il Green Deal”. In sostanza, “gli aiuti di Stato sarebbero una soluzione limitata“: per evitare la frammentazione del Mercato unico “dobbiamo aumentare i finanziamenti Ue” e “per il medio termine prepareremo un Fondo sovrano europeo nella revisione di medio-termine del nostro bilancio nel 2023″. Sul piano normativo, “proporremo un nuovo ‘NetZero Industry Act” sulla falsariga del Chips Act.

Gli aiuti di stato iniziano a non essere più un tabu’, nemmeno in Germania

Un passo nella direzione indicata da Macron, che ha raccolto negli ultimi giorni consensi insperati. Pochi giorni fa per la prima volta, un documento della Spd, il partito del cancelliere tedesco Olav Scholz, si è dichiarato a favore e adesso si cambia: un documento della socialdemocrazia tedesca, il partito del Cancelliere Olav Scholz, si è pronunciato a favore di strumenti che offrano alle aziende europee dei sussidi da utilizzare per finanziare la riconversione “verde” dei loro processi produttivi, così da mettersi nelle condizioni di reggere la concorrenza con le imprese rivali statunitensi. E perfino la commissaria alla Concorrenza Margrete Vestager, da sempre ostile ad allargare i confini degli aiuti di Stato, ha parlato della possibilità di introdurre nuove forme di “finanziamento comune”.

Ma restano le contrarietà per il debito comune

La strada però resta in salita. Quando si passa dalle indicazioni di principio ad azioni più concrete sorgono i veri problemi, quelli finanziari in primis. Nonostante il documento della Spd favorevole a finanziamenti comuni, il governo di Olaf Scholz rimane contrario a ulteriore debito comune. Per Berlino, ci sono ancora molti soldi a disposizione attraverso il Recovery fund, RePowerEu e la Banca europea degli investimenti. La stessa Von der Leyen non ha fornito dettagli su come finanziare il Fondo comune. Se ne parlerà più avanti, dopo aver superato, tra l’altro, l’ostilità dei Paesi del Nord, a partire dalla presidenza svedese dell’Ue, che è contraria al debito comune e scettica sugli aiuti di stato. “Dobbiamo discutere come attrarre imprese sulla base dei nostri meriti di lungo periodo e non sulla base di aiuti di stato di lungo periodo”, ha avvertito il premier Kristersson.

Le differenze tra i paesi Ue

Come sempre accade in sede europea il dibattito promette di esser lungo ed articolato. Ma i tempi stringono. Non solo per il pressing delle aziende di oltre Oceano, ma anche perché i problemi delle industrie Ue rischiano di coincidere con i tempi della temuta recessione. Il Fondo per la sovranità economica potrebbe contribuire ad allontanare il rischio di una crisi monetaria. Non a caso la notizia del sì al Fondo dei socialdemocratici ha coinciso pochi giorni fa con la discesa dello spread tra Btp e Bund.
A schierarsi per un fondo europeo sono del resto ovviamente i Paesi del Mediterraneo, i più deboli sul piano finanziario. In assenza di un piano comune, infatti, le industrie spagnole e quelle di casa nostra sarebbero danneggiate due volte: oltre al confronto con lo strapotere Usa, anche quello con la Germania tentata, come nel caso del gas, di far valere la miglior salute finanziaria rispetto agli altri partner. Vale al proposito il precedente degli aiuti di Stato concessi per reagire agli effetti del conflitto in Ucraina. Finora la Commissione ha approvato 170 misure nazionali per un valore di 540,2 miliardi di euro. La Germania fa la parte del leone: il governo di Berlino ha notificato il 49,33 per cento di tutti gli aiuti approvati dalla Commissione. La Francia è al secondo posto con il 29,92 per cento. Al terzo c’è l’Italia, ma con un distacco impressionante se si considera che è la terza economia dell’Ue: 4,73 per cento di tutti gli aiuti approvati. La classifica continua con la Danimarca (4,48 per cento), la Finlandia (3,24 per cento) e la Spagna (1,86 per cento). La Germania, un’economia che rappresenta il 25 per cento del Pil dell’Ue, ha concesso metà degli aiuti di stato che sono stati adottati dal 24 febbraio scorso.

Per evitare queste distorsioni occorre che l’impegno principale riguardi la Ue nel suo complesso. Impresa improba, ma necessaria perché, come ha detto la stessa Verstagen esiste un “rischio di frammentazione del mercato unico”. E’ il grande dilemma dell’Ue: rompere la diga sugli aiuti di stato significa avvantaggiare i paesi che possono permetterselo a danno delle imprese degli stati membri senza spazio fiscale. Possiamo evitarlo? Probabilmente sì, ma d’ora in poi è vietato sbagliare una sola mossa. Specie all’insegna di un sovranismo un po’ straccione che nelle partite che contano serve solo a far danno.

Related Post
Categories: News