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L’Eurozona ha tante facce: tra i 19 Paesi le differenze crescono

L’estate 2015, almeno sul fronte finanziario, verrà senza dubbio ricordata come quella della crisi greca. Le convulse settimane a cavallo tra giugno e luglio hanno infatti segnato un passaggio fondamentale nella storia della Grecia e dell’Europa. Per quanto gli aiuti erogati il 17 luglio ora abbiano temporaneamente ridotto le tensioni sui mercati e abbiano ridato ossigeno ad un’economia sull’orlo del collasso, essi non hanno però sicuramente risolto i problemi strutturali del Vecchio Continente. Anzi, l’evoluzione della crisi di Atene ha semmai messo in grande evidenza come sia ormai impossibile proseguire con un sistema come quello attuale, che prevede un’unione monetaria ma non un’unione politica, economica e fiscale.

Il difficile percorso verso una maggiore integrazione tra i vari paesi dell’Eurozona ha come ostacolo principale le differenze tra le varie economie dell’area. Analizzarle nel dettaglio è dunque importante per meglio decifrare l’attuale situazione dell’Europa. La tabella nell’immagine in alto a sinistra quindi i principali dati macroeconomici relativi alle economie della zona Euro. Più che analizzare le singole cifre, in questa fase ci interessa in particolare osservare quanto per ciascun parametro i dati differiscano da paese a paese.

Possiamo partire dall’analisi dei conti pubblici, almeno teoricamente vincolati ai parametri di Maastricht approvati da tutti i governi dell’area. Grecia a parte, notiamo che il livello di rapporto debito/PIL oscilla tra il 10% della piccola Estonia e il 132% italiano, e che l’indebitamento dei paesi mediterranei, come noto, è molto superiore rispetto a quello dei paesi del Nord. Di fronte a queste differenze e all’acuirsi della crisi del debito (2011-2012), le autorità continentali da anni hanno imposto ai paesi in maggiore difficoltà il rispetto delle regole europee in termini di finanza pubblica, al fine di favorire il rientro del rapporto debito/PIL dei paesi periferici.

Nonostante questo, però, nel 2014 otto paesi dell’area hanno registrato deficit superiori rispetto a quanto previsto dagli accordi (3%); e per l’anno in corso ancora quattro di essi avranno un disavanzo significativo. Così, mentre la Germania si avvia a chiudere il 2015 con un surplus di bilancio, la Spagna avrà un deficit del 4,5%. Detto al di là dei numeri, questo significa che di fronte alla crisi alcuni paesi hanno adottato politiche di bilancio restrittive privilegiando il rigore sui conti pubblici (spesso anche a scapito della crescita), mentre altri hanno preferito generare nuovo deficit per accelerare la ripresa.

E’ anche per queste ragioni che le differenze sono grandi se si guarda all’andamento del PIL. Mentre l’Eurozona è cresciuta dello 0,8% nel 2014 e si appresta a crescere dell’1,5% quest’anno, al suo interno ci sono paesi come l’Irlanda e la Spagna (dove il ritmo di crescita è dell’ordine del 3-4%) e situazioni opposte come quella italiana, con una recessione nel 2014 e una crescita ancora bassa nell’anno in corso.

Quanto poi al mercato del lavoro, le discrepanze sono più che mai significative: la quota di disoccupati oscilla tra il 5% tedesco (specchio di un’economia vicina alla piena occupazione) e il 24,5% spagnolo, simbolo di un’economia ancora in grande difficoltà. Per finire, abbiamo grosse differenze anche sul fronte dei prezzi, con alcuni paesi in deflazione nel 2014 e altri come l’Austria con un’inflazione già vicina al 2% obiettivo della BCE.

Insomma, al di là della Grecia, le situazioni di squilibrio all’interno del Vecchio Continente sono davvero numerose; e il livello di PIL Pro-Capite evidenzia ancora di più quanto sia differente il grado di sviluppo dei vari paesi. Giunti a questo punto, è bene però precisare che le disomogeneità all’interno di un’unione tra stati sono inevitabili: negli stessi USA il PIL pro-capite del Delaware è doppio rispetto a quello del Mississippi, la disoccupazione nel Nebraska è un terzo rispetto a quella del West Virginia e i tassi di crescita variano in maniera significativa da stato a stato.

Tuttavia, oltreoceano, un’unione fiscale coordinata da un governo centrale forte garantisce una ridistribuzione delle risorse pubbliche a livello federale, mentre un mercato del lavoro flessibile e integrato favorisce la riduzione degli squilibri. L’obiettivo non può quindi essere quello di annullare le differenze. Tuttavia, se l’Unione Europea vuole continuare ad esistere nel lungo termine dovrà necessariamente interrogarsi a breve per decidere se a gestire gli squilibri futuri sarà la presenza di un governo continentale forte, oppure se saranno le dinamiche dei mercati valutari.

Per realizzare il primo scenario, visto l’attuale contesto, sono necessarie una forte volontà politica, fiducia reciproca tra i governi, capacità di prendere decisioni rapide e grande lungimiranza. Nel secondo scenario, invece, il progetto Euro e forse lo stesso progetto Unione Europea potrebbero dirsi conclusi. In ogni caso, nei mesi e negli anni a venire, il tema occuperà le prime pagine dei giornali e influenzerà l’andamento dei mercati.

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