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Italia va in pensione più tardi: nel 2024 l’età media sale a 64,8 anni. Le novità del Rapporto Inps

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La pensione si allontana ancora. Nel 2024 l’età effettiva media di uscita dal lavoro in Italia è salita a 64,8 anni, segnando un nuovo record in un trend che appare ormai irreversibile. Rispetto all’anno precedente, quando si attestava a 64,2, il salto è di oltre il mezzo punto percentuale. Ma il dato più eloquente è quello storico: in trent’anni, la soglia del ritiro si è spostata in avanti di ben sette anni. Un cambiamento lento ma costante, che racconta di un sistema previdenziale sempre più selettivo e di un mercato del lavoro che non ammette scorciatoie.

A rivelarlo è il 24° Rapporto annuale dell’Inps, che disegna l’immagine di un’Italia dove le pensioni anticipate si riducono, gli incentivi alla permanenza in attività si moltiplicano e la pressione demografica rende più fragile il patto intergenerazionale. La platea contributiva cresce lentamente, ma non abbastanza da sostenere il peso di un invecchiamento accelerato.

A spingere in alto l’età media ha contribuito in modo decisivo la Quota 103, che consente l’uscita a 62 anni con 41 di contributi, ma solo accettando un assegno calcolato interamente con il metodo contributivo. Una formula che ha scoraggiato molti, soprattutto tra chi può ambire a una pensione più alta restando qualche anno in più. In parallelo, il “Bonus Giorgetti” ha premiato chi sceglie volontariamente di restare in attività nonostante abbia già maturato i requisiti, trasformando il rinvio della pensione in una strategia di vantaggio. Ma l’effetto finale è che si lavora di più, e si va in pensione più tardi.

Pensioni in equilibrio, ma con profonde diseguaglianze

Secondo il 24° Rapporto annuale dell’Inps, il sistema previdenziale italiano, nonostante la pressione demografica, rimane in equilibrio finanziario. A fine 2024 i pensionati erano circa 16,3 milioni e la spesa complessiva per pensioni ha raggiunto i 364 miliardi di euro. L’importo lordo medio mensile si è attestato a 1.860 euro. Ma dietro questo dato si nasconde una realtà profondamente diseguale, soprattutto sul piano di genere.

Le donne costituiscono la maggioranza della platea – oltre 8,4 milioni – ma ricevono solo il 44% della spesa pensionistica. La loro pensione media è di 1.594 euro, contro i 2.142 degli uomini, un divario del 34% che riflette carriere più brevi, salari inferiori, maggiore incidenza del part-time e minori possibilità di avanzamento. Anche l’età effettiva di uscita dal lavoro è più elevata per le donne. In media, un anno e cinque mesi in più rispetto agli uomini, a causa della difficoltà nel raggiungere i requisiti contributivi per la pensione anticipata.

Le disuguaglianze non si attenuano neppure a parità di trattamento. Nel 2024, ad esempio, le donne che hanno ottenuto una pensione anticipata hanno percepito in media 1.852 euro al mese, contro i 2.277 euro degli uomini, con uno scarto del 23%. Una differenza che non nasce alla fine del percorso, ma è l’esito di un’intera carriera segnata da minori opportunità, retribuzioni più basse e una partecipazione al mercato del lavoro più frammentata.

Il sistema, quindi, tiene dal punto di vista contabile, ma continua a produrre effetti diseguali, soprattutto per chi ha lavorato tanto ma in condizioni meno favorevoli. E le donne, ancora una volta, pagano il prezzo più alto.

L’effetto delle regole: meno anticipi, più permanenza

L’allungamento dell’età media di pensionamento è dovuto anche alla stretta sulle uscite anticipate. Le riforme più recenti hanno reso più selettivo l’accesso ai trattamenti anticipati, aumentando i requisiti o riducendo gli importi. Le pensioni di vecchiaia restano stabili attorno ai 67,2 anni, mentre quelle anticipate si fermano a 61,6. Ma la ridotta convenienza delle formule disponibili ha spinto una quota crescente di lavoratori a rimanere in attività più a lungo, sia per necessità che per scelta razionale.

Nel 2024 le nuove prestazioni pensionistiche erogate sono state quasi 1,6 milioni, in crescita del 4,5% rispetto all’anno precedente. Questa espansione ha riguardato principalmente le prestazioni assistenziali, mentre le pensioni contributive mostrano un ritmo più contenuto. La platea complessiva si fa così più anziana, con trattamenti mediamente più alti solo per chi ha avuto carriere lunghe e continuative.

Più lavoro, ma meno potere d’acquisto

Il sistema tiene anche grazie all’aumento della base contributiva: nel 2024, oltre 27 milioni di persone hanno versato almeno una settimana di contributi all’Inps, 400mila in più rispetto al 2023. La crescita è trainata soprattutto dal lavoro dipendente privato, che ha recuperato quasi un milione e mezzo di occupati rispetto al 2019, prima della pandemia.

Ma a questa espansione numerica non ha corrisposto un miglioramento del reddito reale. Le retribuzioni contrattuali, infatti, sono aumentate solo dell’8,3% tra 2019 e 2024, mentre l’inflazione ha registrato un balzo del 17,4%. Ne è derivata una perdita di potere d’acquisto di oltre nove punti. Solo l’intervento dello Stato, attraverso la riduzione del cuneo fiscale e il taglio delle aliquote, ha permesso una parziale compensazione con gli stipendi netti sono cresciuti tra il 12 e il 17%, ma non abbastanza da colmare il divario.

Fava: “Senza donne e giovani il sistema non regge”

Per il presidente dell’Inps, Gabriele Fava, il sistema previdenziale italiano è stabile, ma non può permettersi immobilismo. “Entro il 2040 – spiega Fava – l’Italia perderà cinque milioni di persone in età lavorativa. Per contrastare questa dinamica servono politiche coraggiose, che aumentino l’occupazione femminile, incentivino i giovani e integrino in modo strutturale i lavoratori migranti.”

Fava ha rilanciato l’idea di valorizzare anche i lavoratori senior, permettendo loro di restare attivi oltre l’età di pensionamento grazie a formule più flessibili e premiali. È un approccio che punta alla “sostenibilità dinamica” del sistema: meno focalizzato sulla spesa a breve termine, più orientato a rafforzare la base produttiva e contributiva nel medio-lungo periodo. In questa visione, il vero investimento non è sulla previdenza, ma sul lavoro.

Congedi parentali: la diseguaglianza inizia da qui

Uno dei principali fattori che alimenta il divario pensionistico tra uomini e donne si annida nelle prime fasi della vita lavorativa e familiare. Secondo l’Inps, nel primo anno di vita di un figlio, le madri usufruiscono in media di 126 giorni di congedo parentale, contro i soli 36 giorni dei padri. Una differenza che, pur attenuandosi negli anni successivi, resta significativa e influenza le carriere femminili.

La riforma dei congedi introdotta nel 2023 ha reso le condizioni di accesso più favorevoli, ma non ha ancora inciso in modo decisivo sulla ripartizione dei carichi familiari. Il risultato è che il costo dell’accudimento ricade quasi interamente sulle donne, penalizzandole nella progressione di carriera, nella retribuzione e, infine, nel calcolo pensionistico.

Tra ritorni qualificati e pensioni in fuga

Il 2024 ha visto crescere il numero di lavoratori altamente qualificati rientrati in Italia, circa 40mila, grazie agli incentivi previsti per il “rientro dei cervelli”. È un dato incoraggiante, che segnala la possibilità di invertire una tendenza storica. Ma resta significativo anche il fenomeno opposto con oltre 37mila pensionati italiani hanno scelto di trasferirsi all’estero, attratti da una fiscalità più leggera e da un costo della vita più contenuto.

Questi due flussi – entrata di competenze e uscita di rendite – raccontano un sistema che ancora fatica a trattenere chi potrebbe contribuire e a valorizzare chi ha già dato. La vera sfida, per il futuro, sarà trasformare la mobilità in un’opportunità, e non in una perdita strutturale.

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Categories: Pensioni