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Internet e la guerra del copyright: diritto naturale o diritto commerciale?

Il “vizietto” originario del ©

Com’è noto è stata la regina Anna d’Inghilterra, agli inizi del XVIII secolo, a inventare il copyright per togliersi di mezzo la questua di teatranti e artisti di ogni risma che chiedevano l’obolo governativo, sicuri di contribuire follemente alla gloria della nazione. Intorno a questo mood originario piuttosto prosaico, modulato sul pensiero “toglietevi dalle p***e”, si impernia la moderna industria culturale, una delle più fiorenti e ammirate del pianeta. A guardare bene questo mood originario è rimasto vivo in alcuni ambiti della società occidentale che vedono nel copyright un qualcosa che ostacola lo sviluppo della conoscenza e la crescita umana nell’epoca dei contenuti dematerializzati e facilmente condivisibili.
Americani ed Europei sono molto simili, hanno essenzialmente la medesima koinè e condividono un comune sistema di valori e di riferimenti. Ci sono però molte aree di divergente visione tra le due sponde dell’Atlantico. Le 12 monarchie europee fanno sorridere gli americani e gli europei li ricambiano a proposito della musica Country e degli stili alimentari degli americani. Il primo emendamento della costituzione americana sancisce il primato delle libertà d’espressione, se in Europa ci fosse un primo emendamento riguarderebbe la privacy. Libertà d’espressione e privacy sono una coppia sempre sull’orlo del divorzio e in genere è l’interesse che li tiene insieme. Questa differente scala di valori ha dato è darà luogo a parecchie tensioni tra le due sponde dell’Atlantico.

Un’area di divergenza riguarda il copyright specialmente dopo che Napster e soprattutto il web 2.0, ha colpito l’industria culturale come un meteorite di grosse dimensioni che si abbatte su un pianeta privo di atmosfera. Dopo questo impatto, detto in termini piuttosto brutali ma sostanzialmente corretti, la cosa è messa così: per gli europei il copyright è lo scudo spaziale che difende gli artisti e i creativi del continente, per gli americani è un qualcosa che ostacola lo sviluppo del business. Per cui le due aree geografiche ed economiche, in sintonia su molte cose, tendono a muoversi in direzioni sostanzialmente divergenti, la prima tende a regolamentare sempre più e la seconda ad alleggerire.

© guerra fredda?

Sulla faccenda del copyright si vanno addensando delle questioni piuttosto strategiche nelle relazioni USA-UE e uno storico dei rapporti transatlantici come Peter Baldwin, professore di storia alla UCLA, ha dedicato a questo tema uno studio specifico di 600 pagine dal significativo titolo The Copyright Wars: Three Decades of Trans-Atlantic Battle (Princeton University Press, 2014). Il libro di Baldwin parte dalla constatazione che quello che era un differente approccio che trovava pacificamente applicazione nelle leggi nazionali è degenerato in una sorta guerra con l’avvento di Internet e i suoi corollari che sono l’oggettiva sovranazionalità della diffusione dei contenuti, l’imperialismo tecnologico delle giovani società della Silicon Valley e il ritardo dell’Europa che con l’IT non ha saputo fare quello che ha fatto in altri campi come l’industria aeronautica, automobilistica, meccanica, alimentare, della moda e via dicendo.

Gli europei, che subiscono l’iniziativa degli americani sul piano dell’innovazione e dei modelli di business e di consumo, hanno fatto del copyright, come si diceva sopra, uno scudo spaziale protettivo della loro tradizione culturale e dell’industria del divertimento. Anche giusto, se non si fosse giunti alla paranoia: tra poco in alcuni paesi europei verrà meno anche il diritto di citazione, che può essere facilmente inglobato nel concetto di ancillary copyright che è già legge in Germania e in Spagna. Potrà succedere che citare un brano, anche in un lavoro scientifico, sarà possibile solo con il consenso esplicito del detentore del diritto una volta soddisfatta la clausola del giusto compenso.

La © è la nuova stelletta della bandiera europea. In verità un certo accanimento sul copyright, da parte dei legislatori dell’Europa continentale, ha poco a che vedere con il diritto d’autore in sé, quanto è correlato alla necessità di proteggere i media europei e i business collegati dall’azione disruptiva delle multinazionali globali americane che tendono, senza interventi extra-mercato, a polverizzare le attività che incontrano. La disruption, così di moda oltre Atlantico, è attività non grata in Europa.

Civil law e common law

Peter Baldwin, nel suo corposo The Copyright Wars, propone un interessante approfondimento sul tema della proprietà intellettuale, mettendo a confronto la legislazione europea con quella anglosassone e auspicando il rinnovamento di leggi anacronistiche ed eccessivamente restrittive, che non rispecchiano le sfide poste dallo sviluppo tecnologico e dall’avvento dei media digitali.

Le leggi sul diritto d’autore, nate in Europa attorno al XVI secolo, conferiscono agli autori il potere di consentire la riproduzione delle loro opere o di pretendere un risarcimento nel caso in cui esse siano sfruttate a fini commerciali senza il consenso di chi ne detiene la proprietà intellettuale, un termini di più recente coniazione. Si trova menzionato in un documento dell’Accademia dei Georgofili del 1865.

Tali diritti, che originariamente si estinguevano con la morte degli autori, furono poi estesi ai loro eredi, assumendo due forme distinte nei paesi caratterizzati dal civil law e dal common law. Nel primo caso, ovvero nell’Europa continentale, la legge tutela maggiormente gli interessi degli autori, mentre nei paesi anglosassoni il fair use consente di riprodurre le opere d’ingegno in modo più libero a fini didattici, scientifici e anche commerciali. Il fair use, per esempio, è il pilastro che regge Google e, soprattutto, il collegamento ipertestuale che è il sistema nervoso del web.

Oltre i diritti morali?

Nonostante le sottili differenze tra le due legislazioni, lo sviluppo esponenziale della tecnologia ha posto il mondo intero di fronte alla necessità di colmare il vuoto normativo che è andato creandosi, nel corso del XX secolo, attorno al concetto anglosassone di “copyright” e a quello europeo di “diritto d’autore”. La facilità con cui oggi è possibile condividere in Internet ogni tipo di contenuti (in particolare attraverso sistemi come il file sharing e il peer-to-peer) ha privato l’industria dei media tradizionale di quei mezzi che per secoli le avevano permesso di controllare il mercato, costringendo i nuovi autori a ricercare delle vie alternative per farsi conoscere dal grande pubblico in modo rapido ed economico. Un esempio emblematico, in tal senso, è quello dell’industria discografica, che ha risentito notevolmente dell’espansione del web, non essendo più in grado di offrire al pubblico materiale originale a prezzi competitivi.

Sul piano etico, inoltre, è discutibile il fatto che i diritti di sfruttamento economico perdurino per un tempo illimitato, quando le opere intellettuali dovrebbero più equamente appartenere alla società intera. Pur nell’intento di garantire la trasmissione corretta delle opere d’ingegno, infine, il valore assoluto che l’ordinamento europeo attribuisce ai diritti morali sembra impedire agli autori emergenti di sviluppare le grandi eredità artistiche in modo nuovo e originale, adeguato ai tempi

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