La crescita mondiale resiste ai dazi…
Al principio dell’estate l’economia mondiale si mostra resistente al colpo inferto dai dazi trumpiani. O, meglio, ai colpi, visto che come un irato Giove pluvio il Presidente americano continua scagliare fulmini a destra e a manca (più a manca…).
I segni di questa guerra commerciale unilaterale si vedono però in molti dati. Sebbene non ancora in quelli decisivi: i prezzi al consumo USA. Però, prima di tirare le fila, sarà bene attendere che si depositi il polverone degli annunci e dei contro annunci, o almeno passino i primi effetti e si manifestino quelli del secondo stadio, i più duri.
…ma in USA la frenata è evidente
Quando scriviamo “resistente” intendiamo che non è caduta in recessione. Tuttavia, un rallentamento c’è, eccome. Proprio nell’economia statunitense, che i dazi mirano a rendere più grande e più bella che pria. Infatti, se nel 2024 il PIL a stelle e strisce è aumentato del 2,8% (2,5% nel 2022 e 2,9% nel 2023), con un +2,4% annualizzato nell’ultimo trimestre, nei primi sei mesi del 2025 è salito dell’1% annualizzato: una bella frenata. E non è stato solo lo yo-yo dell’import, schizzato su nei primi tre mesi per anticipare l’arrivo dei dazi e crollato poi nei secondi tre, a produrre questo magro risultato.
Infatti, i consumi, che costituiscono il 70% del PIL (l’80% della domanda finale interna privata), sono passati da incrementi di poco inferiori al 4% annualizzati nella seconda metà dello scorso anno a un aumento dell’1,4% in maggio sull’ultimo trimestre ’24, equivalente a un ritmo dello 0,8% annualizzato. Così, gli indicatori di fiducia,che segnalavano forte disagio nei consumatori, hanno trovato conferma in minor aumento degli acquisti.
Mercato del lavoro solido, però salgono i sussidi
Anche il mercato del lavoro ha scalato marcia, ma in minor misura, e il monte salari reali ha continuato a inerpicarsi lungo il trend precedente (pur con passo incostante). In generale, il mercato del lavoro appare forte nel numero di posizioni aperte e nel basso livello della disoccupazione, ma qualche crepa c’è nel rialzo dei sussidi continuativi di disoccupazione.
La stessa componente output dell’indagine PMI mostra per gli USA una diffusione dell’espansione minore che nel corso del 2024. Ma superiore a quella delle altre maggiori economie, esclusa l’India.
Tre ragioni dietro alla resilienza americana
Prima di passare a esaminare lo stato di salute del resto del sistema economico globale, vale la pena ragionare sulle ragioni della resilienza statunitense. Le prime due ragioni sono legate all’inflazione, effettiva e attesa: l’inflazione effettiva ha continuato a frenare e non ha fatto un plissé di fronte ai maggiori dazi (saliti dal valore medio del 2,42% al 17,57% con le lettere del 7 luglio; quelle del 9 lo ha spinto ancora più su); l’inflazione attesa invece è aumentata. Se i prezzi effettivi non salgono il potere d’acquisto è salvo e le famiglie non devono fare tagli ai budget di spesa. Mentre se quelli attesi aumentano più rapidamente c’è un forte incentivo ad anticipare un po’ alcune compere e a essere più parsimoniosi per altre. Una terza ragione è che i dazi colpiscono le merci (materie prime e manufatti), mentre la stragrande parte dell’economia è fatta di servizi, che utilizzano sì le merci ma il loro prezzo è soprattutto formato sulla dinamica del costo del lavoro. Poi c’è una quarta ragione, di cui parliamo quando esaminiamo l’inflazione.
L’India galoppa, l’Asia avanza, l’Eurozona resta indietro
Fuori dagli USA i dazi sono deflazionistici, nel senso che sgonfiano la domanda estera e creano pressione al ribasso sui prezzi, perché l’eccesso di offerta che non trova più sbocco negli USA si riversa altrove. Di fronte a questa constatazione analitica, si osserva una certa tenuta della crescita. L’India prosegue la galoppata verso standard di vita più elevati: il suo PIL è atteso salire di oltre il 6% l’anno da qui al 2030 (+43% cumulato; previsioni FMI), e trae vantaggio dal friendshoring, essendo fuori da ogni schieramento. Anche le altre economie asiatiche avanzano, sebbene a passo più incerto e tentennante; la Corea del Sud fatica maggiormente.
L’anello debole continua a essere l’Eurozona, dove i servizi patiscono ordini ancora deboli e il manifatturiero offre opinioni contrastanti. Quelle raccolte nel PMI appaiono più solide di quelle rilevate nell’indagine della Commissione europea, nella quale gli ordini sono tornati a flettere e le scorte ad aumentare.
Le condizioni restano diverse tra le varie economie che compongono l’Unione monetaria, con la Francia sempre fanalino di coda, la Germania in stagnazione e Italia e Spagna che si contendono la testa. Per evitare fraintendimenti, qui ci riferiamo all’indicatore PMI output, mentre per il PIL la crescita spagnola è attesa a +2,5% quest’anno, e quella dell’Italia a +0,4% (secondo l’FMI, aprile 2025).
Le inflazioni divaricanti
<Obiettivo raggiunto>, ha dichiarato Christine Lagarde, Presidente BCE, soddisfatta della discesa al 2% della dinamica dei prezzi al consumo. Jeremy Powell, Presidente della FED, non le fa eco: <L’inflazione si è allentata notevolmente dai picchi di metà 2022, ma rimane di un po’ alta rispetto al nostro obiettivo del 2% nel lungo periodo>. Tuttavia, anche Lagarde ha ammesso che la missione non è finita, per ragioni in parte simili e in parte diverse da quelle che assillano Powell
La similitudine consiste nel fatto che la componente servizi dei prezzi al consumo nell’Eurozona viaggiava ancora al 3,3% annuo in giugno, e in USA al 3,6% in maggio. Siccome i servizi ben sintetizzano l’inflazione fatta in casa, essendo ad alto contenuto di lavoro (il costo del lavoro è il primo motore mobile nella formazione dei prezzi), allora anche nell’Eurozona bene fa la BCE a vigilare.
La diversità, invece, è profonda e nasce dagli effetti asimmetrici dei dazi. I quali tendono ad aumentare i prezzi nel Paese che li impone (gli USA) e a farli scendere in quelli che li subiscono (tutti gli altri), con intensità sbilanciata verso i rincari nel primo, perché il suo import ha un peso basso sul valore della produzione mondiale. Quindi, il rischio da fronteggiare è ben diverso per le due Banche centrali: per la FED si tratta di fare in modo che l’aumento da dazi del costo della vita statunitense formi uno scalino e non faccia fare un altro giro alla giostra inflazionistica, per la BCE si tratta di impedire di cadere dalla padella dell’inflazione alla brace della deflazione.
In realtà, la distribuzione della probabilità dei rischi è pure assai asimmetrica: in USA la probabilità è alta, nell’Eurozona è bassa. È alta là sia per quel che si è appena detto sull’elevata intensità dei probabili rincari, sia perché il mercato del lavoro rimane tirato, con la dinamica salariale in lenta discesa ma ancora sostenuta rispetto a prima della pandemia. È bassa qua per la minore intensità dell’impatto, in questo caso negativo sui prezzi, dei dazi USA e perché è difficile finire in deflazione quando i lavoratori scarseggiano e le retribuzioni aumentano di oltre il 3% (3,4% annuo nel primo trimestre).
Infine, c’è da chiedersi perché i prezzi al consumo e alla produzione USA ci mettano così tanto a incorporare l’effetto dazi. In giugno la componente prezzi del PMI mostra una significativa diffusione dei rincari, al più alto valore dalla seconda metà del 2022 nel manifatturiero e con un ulteriore ampio allargamento rispetto a maggio, mentre nei servizi c’è stato un modesto restringimento, seppure sia rimasta anch’essa ai livelli di oltre due anni e mezzo fa.
Il fatto è che le imprese sono ancora incerte sul da farsi: finché non si sarà chiarito lo scenario dazi, per il proprio Paese e per quello concorrente, che per le aziende americane vuol dire per il resto del Mondo. La variazione dei listini è una questione delicata, che si gioca tenendo conto di vari fattori, compresa la fedeltà della clientela; per cui è meglio evitare rincari multipli, se si fosse sbagliato il dosaggio iniziale per difetto, o retromarce, se l’errore si rivelasse essere l’opposto.
Questa è la quarta ragione, accennata sopra, per cui ancora i maggiori dazi USA non hanno pienamente dispiegato i loro primi effetti. Oltre al fatto che molte merci erano state importate prima dell’introduzione dei dazi, diluendone i rincari.
Il dollaro, stella cadente
La Fed si preoccupa dell’inflazione (vedi sotto). E c’è anche da considerare l’impatto del dollaro debole. L’economia americana è relativamente chiusa (l’import di beni e servizi è solo il 14% del Pil), ma quell’impatto si aggiunge ai dazi. La debolezza del dollaro continuerà?
In questa fase storica l’andamento del dollaro assomiglia a quella di una stella cadente nella notte di San Lorenzo. Solo che non ha senso esprimere desideri (anche se ce ne sarebbero molti da soddisfare in questa valle di guerre e lacrime) perché non è una stella, seppure sia cadente. Ci sono ragioni di pensare che il ruolo del dollaro come moneta di riferimento e di riserva negli scambi mondiali stia oggi scemando. Ragioni sia economiche sia politiche. Per quanto riguarda l’economia, gli americani da mezzo secolo hanno continuato a spendere al di sopra dei propri mezzi, inanellando deficit commerciali (beni e servizi), e accumulando così una terrificante ‘Net International Investment Position’ negativa (PFNE, posizione finanziaria netta sull’estero), pari (1° trimestre 2025) a circa 25 trilioni di dollari (più dell’80% del Pil). Per fare un confronto, la PFNE dell’Eurozona è invece positiva, malgrado i grossi ‘segni meno’ di Francia e Spagna e grazie ai grossi ‘segni più’ di Germania, Olanda e Italia.
Ora, in un Paese normale tutto questo avrebbe portato a una forte pressione al ribasso sul cambio. Ma l’America non era un Paese normale, e il dollaro si è invece andato rafforzando negli ultimi decenni: vedi il grafico che ci dà il cambio effettivo nominale e reale verso 41 valute. Il problema sta in quello che l’ex presidente francese Giscard d’Estaing chiamava un “esorbitante privilegio’. Essendo una moneta dominante – di riserva e di fatturazione – il dollaro godeva di una costante domanda di valuta e non era quindi sottoposto al fato dei comuni mortali. Fino a che…
Come si vede dal grafico, a inizio di quest’anno il dollaro aveva raggiunto il massimo storico nei suoi cambi effettivi. Uno scomodo primato, totalmente incompatibile col dichiarato proposito di Trump di far scendere il deficit con l’estero. E, come successe al famoso Wile E. Coyote, il biglietto verde si accorse che non poteva star lì, sospeso sul vuoto, e ha iniziato a cadere. Da notare che questa discesa è stata più forte contro l’euro che contro le altre valute che compongono il cambio effettivo. Fra queste ultime ci sono molte valute asiatiche, che sono ancora sottovalutate, come suggerisce un confronto fra il cambio di mercato e quello basato sulle parità di potere d’acquisto (una versione più sofisticata del cambio ‘Big Mac’). Ci sono, insomma tutte le condizioni affinché la discesa del dollaro continui, anche perché concorre il secondo tipo di ragioni, quelle politiche.
Le sortite di Trump sui dazi contro tutti hanno scolpito una nuova immagine – e non lusinghiera – del ruolo dell’America. Gli Stati Uniti non sono più un fattore di aggregazione, un faro della democrazia, una ‘Statua della Libertà’… – sono un fattore di disturbo, una nota stonata nel concerto internazionale. Quest’altra ‘discesa dal podio’ è stata appena messa in risalto dall’incredibile lettera mandata dal Presidente Trump al Presidente del Brasile, Lula. Trump ha annunciato dazi del 50% al Brasile. Perché? Non certo per i deficit negli scambi. Il Brasile è uno dei pochi Paesi con cui l’America ha un surplus commerciale. La ragione sta nel fatto che a Trump non piace che l’ex presidente del Brasile Bolsonaro sia messo sotto processo per un tentato ‘colpo di Stato’ dopo la sua mancata rielezione. Questa invasata interferenza negli affari interni di un Paese sovrano mostra che ormai gli Stati Uniti di Trump non abbiano alcuno scrupolo nel punire altri Paesi con l’arma dei dazi, anche quando ci sono zero ragioni per correggere asimmetrie negli scambi.
Tutti in salita i tassi sui titoli più lunghi
“Nel lungo periodo siamo tutti morti…”, disse J.M Keynes. Quell’affermazione, vera per definizione, voleva significare che i reggitori delle politiche economiche dovrebbero preoccuparsi dei problemi di oggi, hic et nunc, e non affidarsi a soluzioni di lungo termine che possono non materializzarsi al momento giusto… Il che, tuttavia, non ha impedito a emittenti lungimiranti di proporre investimenti in titoli a 30, 50 o anche 100 anni.
La ‘curva dei rendimenti’ per i titoli pubblici disegna i rendimenti, appunto, sulle diverse scadenze, dai tre mesi ai trent’anni, e di solito parte dal basso e continua verso l’alto. Sì, talvolta si inverte, come successe dopo l’inflazione da sussulti post-pandemici, quando le Banche centrali aumentarono i tassi a breve per soggiogare la dinamica dei prezzi. Ma oggi la curva, come il clavicembalo, è ‘ben temperata’: i rendimenti salgono man mano che si allungano le scadenze. E la curva manda messaggi: se si irripidisce, vuol dire che c’è chi si preoccupa del futuro. “Sì, ti presto i soldi, ma ho paura che quando me li ridarai, saranno mangiati dall’aumento dei prezzi” (ansia da inflazione) – oppure: “Sì, ti presto i soldi, ma non son sicuro se me li ridarai” (ansia da troppi debiti dell’emittente).
Questo irripidimento è in corso in questi mesi. Il grafico mostra come i tassi a trent’anni siano andati aumentando, non solo in America, ma anche in Germania, in Inghilterra e in Giappone (non in Italia, ma nel nostro caso il mercato dei BTp a 30 anni è troppo ristretto, emissioni e circolante sono bassi e i titoli vanno solo in mani sicure e controllabili). La coralità negli aumenti aiuta a capire quale delle due ansie sopra menzionate sia responsabile. L’ansia da inflazione è da escludere, perché, se pure comprensibile per il Giappone (che, dopo decenni di deflazione, sta diventando un Paese ‘normale’, con l’inflazione core sul 3%) e per gli Usa, dati gli effetti dei dazi sui prezzi (effetti che sono ancora nella pipeline), non si vede perché debba essere un fattore di preoccupazione per l’Europa (dove, semmai, i dazi americani avranno un effetto di rallentamento della domanda e quindi dei prezzi).
Rimane l’ansia – quella sì a tutti comune – da finanziamento dei deficit pubblici. Ansia comprensibile sia per l’America (l’OBBBA – One Big Beautiful Bill Act – potrebbe essere anche letto: OBBBA – One Big Bad Bill Act, visto che deficit e debiti pubblici sono garantiti in ascesa), sia per l’Europa, dove le spese pubbliche per difesa e infrastrutture terranno i bilanci pubblici sotto pressione (e, sia detto per inciso, forzeranno una messa a riposo delle regole europee coniate l’anno scorso).
Ci sono buone ragioni per aspettarsi un’altra riduzione dei tassi della Bce. Nell’Eurozona l’inflazione non preoccupa, e la forza recente dell’euro agisce in senso restrittivo sulle condizioni monetarie. Per gli Stati Uniti, il discorso è diverso. A parte gli assalti verbali di Trump a Powell (sempre più pesanti – ma in America non c’è la querela per diffamazione?), il dilemma della Fed rimane quello. Combattere l’inflazione o combattere il rallentamento dell’economia? Sull’inflazione pende l’impatto dei dazi, che dovrebbe cominciare a vedersi nei dati di giugno o di luglio. Per quanto riguarda l’economia reale, questa continua a tenere testa a «dardi e strali della sorte avversa» (leggi caos dei dazi e caos geopolitici): i dati del mercato del lavoro a giugno hanno fatto pensare che la Fed non abbasserà i tassi. Quei dati, tuttavia, se pure superiori alle attese nell’aumento dei posti di lavoro, non sono forti come sembrano: si registra una diminuzione del monte-ore, mentre continuano a crescere i sussidi continuativi di disoccupazione (che sono al massimo dal 2021).
La Fed dovrà soppesare il pro e il contro. Prima del 30 luglio, quando si riunirà per deliberare, ci saranno i dati sull’inflazione a giugno e altri segnali assortiti. Se dovessimo scommettere diremmo che la Fed lascerà i tassi invariati (sarebbe male se lo facesse solo per far dispetto a Trump, ma i banchieri centrali, dopotutto, sono esseri umani…).
Da notare che, per quel che riguarda i BTp, i nostri spread col Bund sono migliorati ancora, a livelli anche più bassi di quelli dell’inizio 2021 (‘zona Draghi’). Andranno verso la ‘zona Ciampi’ (50 punti base)? Non mettiamo limiti alla Provvidenza… In ogni caso, a riprova del fatto che la riduzione dello spread con il Bund è dovuta alla forza del BTp, gli spread sono migliorati (vedi grafico) anche rispetto a Francia e Spagna.
Mercati euforici. Sì, ma…
Veniamo ora ai mercati azionari. Bisogna ammirare le Borse: di fronte a tutte le bordate dell’inquilino della Casa Bianca, a tutti i rivolgimenti tariffari, ai tanti ‘penultimatum’ sui dazi, ai tanti punti bollenti del globo – la ‘guerra dei 12 giorni’ contro l’Iran, il sangue che continua a scorrere a Gaza e in Ucraina… – che cosa fa Wall Street? «Ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode». Le «altre prime creature» sono le Borse consorelle in giro per il mondo: sì, anche l’indice mondiale MSCI World ha segnato record storici, così come in Germania e in Italia… Di tutto questo dovremmo essere lieti, dato che abbiamo sempre consigliato, per gli investimenti a lungo termine, le azioni come ricettacolo privilegiato dei nostri risparmi. Ma, se passiamo dal lungo al breve termine, c’è da essere cauti. L’S&P500 ha un rapporto prezzi/utili (attesi sui prossimi 2 mesi) di 22: un 35% sopra la media di lungo termine. E la Bank of America riporta che, di 20 metriche di valutazione usate dai suoi strateghi, l’S&P500 viene fuori come ‘expensive’ su tutte le 20.
C’è un’altra sorpresa per i giardinetti degli investitori. Da quando è iniziata la partita ‘Trump contro il resto del mondo’ lo scopo dichiarato del Nostro era di far ripartire gli Usa con un boom mai visto prima, penalizzando con i dazi gli altri Paesi che avevano fino allora ‘sfruttato’ impunemente l’America. Ebbene, le Borse raccontano la storia opposta. Come si vede dal grafico (che parte dal mese precedente l’elezione di Trump) Wall Street è stata lasciata indietro dal resto del mondo (esclusa la Cina, che ha i suoi problemi). Insomma, caveat emptor…