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Hollande non è il Mitterrand del 1981. E anche i mercati lo hanno capito

Prima la copertina dell’Economist, con la Francia che diventa una “bomba a orologeria nel cuore dell’Europa”. Poi la bocciatura di Moody’s: Parigi ha perso la tripla A sul debito pubblico. Questa settimana era iniziata così, per di più con François Hollande giù nei sondaggi (ormai non ha più la maggioranza dei francesi dalla sua parte). La settimana, però, sta finendo in questo modo: con gli Oat, i titoli di Stato francesi, a dieci anni, che presentano un rendimento intorno al 2,18%, praticamente ai minimi storici. E di sicuro decisamente più bassi del 3,5% superato a più riprese nel difficile autunno 2011 (anche questo livello da un punto di vista italiano o spagnolo rimarrebbe invidiabile…).

Insomma, i mercati, almeno per il momento, non sembrano condividere i timori espressi un giorno sì, un giorno no dai media anglosassoni e (ancora peggio) dalle agenzie di rating e dagli analisti delle banche d’affari. Tra di loro, uno degli argomenti classici è paragonare il cammino di Hollande, al potere dal maggio scorso, a quello di François Mitterrand, che diventò Presidente nel maggio 1981. E che, con i comunisti alleati nel Governo (non è il caso di Hollande), imbastì una politica di sinistra a 360 gradi, con nazionalizzazioni a ripetizione e spesa pubblica a go go per ridare slancio all’economia nazionale.

Solo un anno più tardi, operò una svolta decisa (si disse che capì i suoi errori), grazie soprattutto al ministro delle Finanze, tal Jacques Delors: avviò il Paese (che non trovava acquirenti alle aste dei bond, esattamente il contrario di quello che avviene ora) verso una politica di rigore, compreso l’annullamento della scala mobile. C’era anche un giovanissimo Hollande all’Eliseo, allora al servizio di Jacques Attali, “consigliere speciale” di Mitterrand.

Ebbene, chiariamolo subito: Hollande del 2012 non è il Mitterrand del 1981. Sì, dopo l’elezione qualche contentino in pasto al popolo della sinistra, compresa quella estrema, che l’ha eletto, ha dovuto concederlo. Ad esempio, la decisione di assumere 60mila professori e insegnanti in cinque anni. Altre concessioni sono forse più discutibili, come il ritorno dell’età pensionabile a 60 anni per una parte della popolazione. Ma passata quella iniziale fiammata, Hollande, a differenza del suo padre politico putativo nel 1981, è ritornato subito nei ranghi.

E’ ritornato quello che è: “un socialista-liberale lucido e riappacificato con se stesso”, come ha scritto il settimanale Le Nouvel Observateur in un editoriale qualche giorno. Un socialdemocratico, che si è servito dell’estrema sinistra, comunisti compresi, per l’elezione alle presidenziali, per poi farli fuori subito dopo tra i suoi alleati (non ne ha bisogno, i socialisti hanno ottenuto da soli la maggioranza all’Assemblea nazionale).

Basta guardare al progetto di Finanziaria per il 2013, in discussione ora in Parlamento (e che riceverà quasi sicuramente il via libera come è), che prevede già il rientro del deficit pubblico al 3% del Prodotto interno lordo l’anno prossimo. Si mettono in cantiere tagli alla spesa pubblica pari a 60 miliardi (praticamente solo la scuola è salvata). Non solo: poiché Hollande sa benissimo (al pari dei grandi esperti intervistati dall’Economist o degli analisti di Moody’s) che uno dei problemi principali dell’economia francese è il costo del lavoro troppo elevato, ha varato sgravi per 20 miliardi annui a favore delle imprese.

Erano i consigli arrivati da un rapporto sulla competitività, stilato da un team di esperti, guidato da Louis Gallois, ex manager pubblico. Appena uscito lo studio, tutti dissero che Hollande-Mitterrand non li avrebbe mai accolti, erano di destra… Ma la sera stessa, meno di tre settimane fa, Hollande annunciò il taglio di 20 miliardi di euro ai contributi sociali a carico delle imprese: pari pari quanto previsto da Gallois e compagnia. Sembra che quella decisione sia arrivata troppo tardi per essere considerata nel dossier dell’Economist dedicato alla Francia (in gran parte chiuso in precedenza in tipografia) o da Moody’s, che agisce su tempi assai lunghi nelle sue decisioni. E che da tempo aveva ormai previsto il declassamento di Parigi.

Fra l’altro, va detto che una buona parte di quei 20 miliardi arriveranno da un aumento dell’Iva. L’Hollande candidato aveva promesso di non ritoccare verso l’alto l’imposta. E l’Hollande appena eletto era ritornato su una delle ultime misure prese da Nicolas Sarkozy, l’Iva sociale, appunto il finanziamento di una parte dei contributi sociali con un aumento dell’Iva. Che è poi sostanzialemente quello che ha fatto a pochi mesi dall’elezione (anche se abbassando l’aliquota ridotta prevista per i beni di prima necessità, a differenza del predecessore). Perché, ripetiamo, Hollande non è il Mitterrand del 1981. Il suo prossimo banco di prova è la riforma del mercato del lavoro, già oggetto di un negoziato fra le parti sociali.

Dovranno fornire al Governo del socialista Jean-Marc Ayrault gli elementi per procedere verso una maggiore flessibilità. Hollande sa benissimo che è lì che bisogna agire. Il contributo dell’industria al Pil è calato del 18% del 2000 al 12,5% dell’anno scorso, quando il costo del lavoro orario medio è diventato più elevato di quello tedesco (34,17 euro contro 33,1, mentre l’Italia si trova a 25,2 e la Spagna a 21,7). L’altra sfida, affrontata con i tagli ora in arrivo, è rappresentata dalla spesa pubblica ai massimi in Europa. E che con il quinquennio di Sarkozy è cresciuta (dal 52 al 57% del Pil dell’anno scorso). Intanto, comunque, gli investitori continuano a comprare i bond francesi. E lo spread con i Bund oscilla intorno ai 70 punti base, addirittura in calo nelle ultime settimane. Alla faccia di Economist e di Moody’s.

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