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Google va a processo: fatti e misfatti di Big G

Pixabay

Il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e 11 Stati federali hanno fatto causa a Google, con l’accusa di aver violato la legge utilizzando il proprio potere di mercato per mantenere una posizione di monopolio. Ogni volta che effettuate una ricerca sulla rete attraverso un iPhone venite infatti indirizzati, tramite Safari, su Google, a scapito di altri motori di ricerca. Non per caso. Nel 2018 il numero uno di Apple, Tim Cook, si è incontrato con Sundai Pichar, il ceo di Google. In quella sede i due colossi di decisero di superare le liti passate, quando Eric Schmidt di Google aveva sfidato Steve Jobs introducendo un software mobile in competizione con la Mela.

Maturò così l’accordo che oggi viene contestato dal Dipartimento di Giustizia del governo degli Stati Uniti che, in una memoria lunga 64 pagine, accusa la società fondata da Larry Page e Sergej Brin di essersi assicurata tutto il traffico della Mela in cambio del pagamento di 10 miliardi di dollari all’anno, un canone d’affitto che si giustifica perché di lì passa un terzo dei profitti di Google (e tra il 15 e il 20% del giro d’affari di Apple). “Praticamente lavoriamo come se fossimo un’azienda sola”, ha confessato un dirigente. Lo stesso capita con gli altri colossi del web, invogliati da accordi commerciali convenienti che servono anche a garantire il quasi monopolio di Google (l’88% del mercato) a scapito di Bing, il motore di Microsoft. 

Quasi vent’anni dopo il mega processo contro l’azienda di Bill Gates, la normativa antitrust torna ad essere protagonista. Certo, come notano stamane gli analisti, Google dispone di una forza d’urto e di una superiorità tecnologica che la mette al riparo dalle insidie della concorrenza come conferma il rialzo a Wall Street dopo l’annuncio delle contestazioni. Ma la minaccia per i giganti del web è comunque elevata. Se vittoriosa, l’offensiva antimonopolistica costringerebbe Google a cambiamenti strutturali, nei suoi comportamenti. E il precedente avrebbe grossi effetti su tutti. Finora, infatti, l’azione dell’Antitrust ha puntato a tutelare il prezzo più conveniente per gli utenti. Per questo, è la difesa di Google, le accuse non hanno fondamento perché offriamo servizi gratuiti a vantaggio di tutti.

Al contrario, sostiene l’accusa, grazie al gigantesco fatturato pubblicitario, Google può erigere robuste barriere contro chiunque si azzardi a farle concorrenza. E non ci vuole molto per capire che questo si traduce in un enorme vantaggio sulla concorrenza ma anche sulla qualità della vita degli Americani. Equel che vale per Google, conta anche per Amazon, Facebook e così via. 

A muovere le accuse è stato il procuratore generale Bill Barr in persona, ovvero uno dei più fidati collaboratori di Donald Trump, deciso a sfruttare una causa popolare contro i nuovi ricchi alla vigilia del voto, oltre a punire Silicon Valley che gli è ostile. Ma, nel bel mezzo della campagna elettorale più velenosa, la causa contro Google e soci è sostenuta in pratica da tutti. Soffia in Usa un vento che ricorda le campagne di fine Ottocento contro i Robben Baron, i supericchi senza scrupoli  padroni delle ferrovie. E non basta più promettere, come Google, “don’t be evil” per farla franca.

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