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Germania 2006, l’ultima volta che l’Italia vinse il Mundial: Lippi, gli scandali, il trionfo

Un mese esatto dal 9 giugno al 9 luglio, dall’inferno al paradiso: ecco in sintesi il mondiale tedesco del 2006 per gli azzurri. Quando allo stadio di Monaco, Germania e Costarica giocavano la partita inaugurale, l’Italia di Lippi se ne stava blindata al Landhaus Milser Hotel di Duisburg, frastornata dallo scandalo che aveva investito il calcio nazionale con epicentro Moggi e la Juve, accolta al suo arrivo in terra tedesca da una valanga di fischi per aver rifiutato ogni contatto con la gente, soprattutto con i tanti nostri emigrati.

Un’aria davvero brutta circondava la spedizione azzurra che aveva lasciato il centro di Coverciano nel pieno della bufera, con il vertice decapitato della Federcalcio. Via Franco Carraro, era arrivato un commissario prestato dagli studi legali della grande finanza. Era il professor Guido Rossi, che da fustigatore del capitalismo opaco aveva assunto le vesti di moralizzatore del calcio finito nel guano. Un nome che tolse il sonno anche a Lippi che avendo il figlio Davide impegnato presso la Gea messa a soqquadro da calciopoli, temeva di finire tra gli epurati. “L’etica innanzitutto ma non confondiamo ruoli e persone”: Rossi volle evitare alla nazionale altri traumi e facendosi immortalare con la maglia azzurra con il numero 10 e con il suo nome stampato si proclamò primo tifoso dell’avventura italiana in terra tedesca. Ma l’umore che si respirava a Casa Italia, nella struttura adiacente allo stadio di Duisburg, alla vigilia della prima partita con il Ghana, era pesantissima. Sembrava di essere a Fort Alamo. La folta rappresentanza del pallone azzurro aveva i nervi a fior di pelle. Per fortuna che la colonia di giornalisti sportivi non aveva alcuna voglia di infierire, anzi era tutt’uno con gli azzurri come se si andasse insieme a una crociata, tutti impegnati a dar coraggio.

C’era chi ricordava il 1982 quando – scoppiato lo scandalo del calcio scommesse che portò in B per la prima volta il Milan – Bearzot arruolò in extremis Paolo Rossi, squalificato per essere finito anche lui nella brutta storia. Sembrava anche allora un’Italia allo sbando, invece poi il “Mundial” spagnolo si trasformò per l’Italia in una sinfonia trionfale con Pablito grande protagonista. Altri, per combattere il pessimismo, ricordando come Lippi fosse anche un valente skipper, andarono a scovare che Duisburg è la città in cui lavorò per oltre 40 anni Gerhard Mercator, il grande geografo che fu autore di carte nautiche che da secoli hanno facilitato la rotta ai naviganti come il nostro commissario tecnico. Altri ancora che non sapevano più cosa scrivere per sollevare il morale alla truppa, si limitavano a toccarsi ogni volta che si citava il Ghana. Scaramanzia a parte, con il Ghana all’Awd Arena di Hannover, gli azzurri esordirono alla grande con un perentorio 2-0 che per almeno un giorno fece dimenticare il fango che proveniva dalle inchieste della magistratura in Italia. Metà nazionale era formata da giocatori juventini e la Juventus stava precipitando verso una condanna storica che avrebbe portato allo smembramento della squadra che aveva vinto due scudetti consecutivi poi revocati. Schizofrenia del mondo del calcio, battuti i black stars africani, gli azzurri si sentivano già con un piede agli ottavi. Una vittoria che fece felice in particolare il console italiano di stanza a Hannover che aveva in atto una querelle con il ministro dell’istruzione della Bassa Sassonia. L’oggetto dello scontro era un libro di geografia in dotazione ai ginnasi locali, dal titolo “Diercke Erkunde”, che trattava dell’Europa, dedicando ampio spazio a tutti i Paesi senza che dell’Italia ci fosse traccia. Il nostro console scrisse una lettera di protesta. Con la meticolosità tipica della gente teutonica, il funzionario tedesco rispose segnalando che il nome Italia era riportato a pag. 173 e che vi era anche una bella foto di Portovenere. “Ecco cosa sanno i ragazzi tedeschi del nostro Paese”, ci disse sconsolato il console. Ad Hannover, con altri colleghi si andò a festeggiare il successo sul Ghana, al Gallo Nero, uno dei più rinomati ristoranti della città, gestito da Emilio Dettori, un sardo di Bosa che ha fatto fortuna in Germania. “Ha ragione il console”, ci disse Dettori. “Anche sui libri scolastici di storia, quelli che studia mia figlia, si salta a piè pari l’insegnamento della civilta ellenica e romana. Come se la nostra storia cominciasse dalla calata dei barbari e dai tempi di Carlo Magno”.

Ma, se era tangibile che i tedeschi non tifassero per noi, non per questo va taciuto che quello tedesco dava subito l’impressione di essere il Mondiale meglio organizzato della storia del calcio. Tutto funzionava perfettamente: stadi bellissimi, mezzi di comunicazione puntuali, pochi treni al mondo efficienti come gli Ice della Deutsche Bahn, in più un clima mediterraneo raro per quelle latitudini. All’indomani della vittoria sul Ghana, a Casa Italia i volti tesi si erano sciolti nei primi sorrisi, Tanto più che il prossimo avversario da affrontare erano gli americani  allo stadio di Kaiserlautern, dedicato a Fritz Walter il leggendario centravanti della Germania Occidentale che sconfisse l’Ungheria nella finale di Berna del Mondiale 1954. Kaiserlautern è un enclave yankee, abitata da 50mila militari Usa che lavorano nella vicina base  di Ramstein. Essendo diventata la loro città hanno finito per chiamarla più semplicemente K.Town. Lo stadio, in cima a una collina che domina la città, era una bolgia di bandiere a stelle strisce. Tifavano Usa anche i tedeschi. L’Italia entrava in campo con la spocchia di chi in un baleno dovesse tramortire l’avversario. E il gol di Gilardino al 22’ del primo tempo illudeva tutti che fosse già finita la partita. Che invece si riapriva subito perché dopo poco gli Usa pareggiavano grazie a un autogol di Zaccardo. E il match si faceva drammatico, una battaglia aperta a tutti i risultati quando De Rossi, reo di una gomitata, veniva espulso. L’Italia, bella con il Ghana, tornava a essere tanto sciatta da far temere il peggio. Nemmeno quando l’arbitro mandava negli spogliatoi due americani, prima Mastroeni e poi, a inizio ripresa, Pope, gli italiani sapevano sfruttare la superiorità numerica. La partita finiva 1-1, un pareggio che all’improvviso rituffava nello sconforto il clan azzurro che paventava addirittura l’eventualità di una clamorosa eliminazione. Con la Repubblica Ceca, a Amburgo, diventava obbligatorio vincere per non pregiudicare il primo posto nel girone, unica condizione per evitare il temutissimo Brasile negli ottavi. Nell’attesa di andare ad Amburgo, con i nervi di tutti tornati a fior di pelle, mentre Lippi, scorbutico più che mai, faceva sapere di aver “già pronti i motori della sua barca a Viareggio, a Casa Italia ci si consolava con il subbuteo che aveva incoronato campione mondiale, nel torneo di Dortmund, Massimo Bolognino, un imbianchino di Napoli, che deliziava tutti con dei colpi spettacolari che ricordavano in miniatura le punizioni del miglior Pirlo.

L’ansia era palpabile. E anche il pessimismo. “Meglio uscire che trascinarci facendo figure da baraccone come quella contro gli Usa”, diceva Vittorio Zucconi, il capo di chi vedeva nero, un nome noto del nostro giornalismo, inviato da Repubblica per scrivere l’altra faccia del Mondiale. Amburgo rischiava di essere la Norimberga del calcio italiano, tra deferimenti romani e rischi tedeschi di un rientro a Roma anzitempo. Nella città sull’Elba la Repubblica Ceca di Pavel Nedved, altro juventino in sofferenza per le sorti della Juve, fece paura solo all’inizio ma Buffon fu un muro invalicabile sotto gli occhi di Alena Seredova, divisa tra affetti di famiglia e di patria. Su uno striscione sbandierato dai tifosi italiani stava scritto: “Non fateci tornare a casa Moggi-Moggi!”. In una delle rare giornate grigie e fredde del Mondiale tedesco, un gol di Materazzi e un altro di Pippo Inzaghi garantirono all’Italia il passaggio agli ottavi. Primi nel loro girone, gli azzurri, per una combinazione fortunata, non solo evitavano il Brasile ma incrociavano i più abbordabili canguri dell’Australia. Un giorno prima temevamo il lancio di pomodori per un’eliminazione ingloriosa. Ventiquattr’ore dopo ci sentivamo già ai quarti. “Ho messo dentro Materazzi perché sapevo che avrebbe segnato”, dichiarò un Lippi che sembrava all’improvviso quasi rinato a nuova vita.

Si tornava a Kaiserlautern, l’unica città tedesca del Mondiale non raggiungibile con gli Ice ad alta velocità ma solo con treni molto simili a quelli nostri delle Ferrovie Nord: una ressa indicibile, schiacciati come sardine, ma tutti felici i tifosi italiani, perché già si pregustava che il Mondiale era a una svolta e che la fortuna stava girando dalla parte nostra.

Lì, al Fritz Walter Stadion, quando gli ultimi raggi del sole illuminavano la gigantografia del grande panzer di Berna, il “fattore C” di Lippi, di cui si cominciava a mormorare in giro anche se con molta discrezione, si rivelò in pieno, mutando prepotentemente l’inerzia di una partita che ancora sullo 0-0 stava scivolando verso i tempi supplementari. Con l’Italia ridotta in dieci per l’espulsione di Materazzi, gli australiani, fisicamente più prestanti e numericamente in vantaggio, erano a un passo da una storica impresa. Ma l’incubo per gli azzurri si dissolveva all’improvviso grazie a un dribbling astuto di Fabio Grosso, che appena dentro l’area si faceva contrastare da un difensore australiano lasciandosi cadere come un fante colpito da un cecchino. Per tutti non era rigore tranne che per l’arbitro: sul dischetto andava Totti. Suspense nello stadio, “mica farà il cucchiaio…?”, era il pensiero che in una frazione di secondo balenò nella testa di tutti noi. Il Pupone, lungi dal rischiare, optava per la cannonata della vita che scosse la rete. Goool!

Una rete che cambiava definitivamente il corso del mondiale azzurro. Ci si accorse il giorno dopo al campo di allenamento di Duisburg: fotografi, tv, giornalisti da ogni parte del mondo avevano scoperto che l’Italia poteva davvero vincerlo, questò Mondiale, anche perché il Brasile era sempre più deludente (verrà eliminato dalla Francia in semifinale), ai quarti gli azzurri se la vedevano con l’Ucraina, un avversario che non spaventava più di tanto con uno Sheva ormai al tramonto. Restava la Germania di Klinsmann, vecchia conoscenza dei campi italiani per il suo passato interista a due facce, da Kataklinsman a Pantegana bionda per i troppi gol sbagliati, ma la Mannschaft del 2006 era tra tutte le nazionali tedesche quella meno micidiale. In una partita amichevole prima del mondiale gli azzurri l’avevano battuta per 4-1. “Ma a casa loro sarà dura, anzi durissima”, interveniva a smorzare gli entusiasmi il solito Zucconi. Ad Amburgo gli azzurri sommergevano gli ucraini per 3-0. Fu festa grande con la tifoseria azzurra sempre più gasata che si riversava nel quartiere a luci rosse della Grosse Freheit.

Da domani si penserà alla Germania che grazie all’errore dal dischetto di Cambiasso aveva eliminato l’Argentina. E fu proprio a Dortmund contro i panzen che l’Italia legittimava la sua candidatura a vincere il mondiale. Una partita giocata alla grande in un catino che aveva sempre visto la Germania vincente: uno spettacolare tiro a giro di Grosso, imbeccato alla perfezione da Pirlo, spegnevale speranze tedesche raggelando la cancelliera Merkel prima tifosa in tribuna. Si spegneva il “Wir gehen nach Berlin”, che orgogliosamente i tedeschi aveva gridato fin dal giorno dell’esordio dopo la vittoria sulla Costarica. Klinsmann doveva disdire l’albergo berlinese che con spavalderia aveva già prenotato per i suoi panzern prima ancora che iniziasse il Mondiale. Da noi era era un delirio inebriante. Un insolito Romano Prodi, dimenticando per un giorno le imboscate che da più parti minavano il suo traballante governo, si gettava a cantare “’O sole mio” negli spogliatoi in festa degli azzurri. A Berlino andavano gli italiani a contendere ai francesi di Domenech il titolo mondiale. Entrambe le squadre vi arrivavano dopo un avvio stentato. La Francia si era salvata in extremis nel girone battendo il Togo dopo due pareggi mortificanti e senza gol con Svizzera e Corea del Sud. Poi la musica era decisamente cambiata: se l’Italia aveva battuto la Germania, la Francia approdava in finale dopo aver eliminato il Brasile, il grane favorito della vigilia. E nella serata trionfale di Dortmund, con le strade ribollenti di bandiere tricolori, sapeva ormai di anacronismo una gigantografia di Ronaldinho che dominava l’ingresso di un grande shopping center con la scritta “Make the ball happy”. Chi l’avrebbe detto solo un mese prima: Brasile in rotta, Italia in finale?

Il 9 luglio è il giorno della finalissima. Si gioca a Berlino, città simbolo di una Germania che se aveva perso il suo Mondiale, aveva comunque trionfato sul piano dell’organizzazione e dell’immagine.  “E’ la partita della vita”, dice Lippi a poche ore dall’incontro che va in scena all’Olympiastadion. E’ l’impianto legato ai quattro ori di Jesse Owens, l’americano nero di Oakville che ridicolizzò davanti a Hitler le folli teorie razziali del nazismo. E’ anche lo stadio che vide i gol di Annibale Frossi, il “professorino” che giocava al pallone con gli occhiali e che portò l’Italia del calcio sul podio più alto delle Olimpiadi. Grande pretattica: all’ultima rifinitura del mattino l’unico estraneo ammesso da Lippi è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. La Francia gioca meglio ma la folle testata di Zidane a Materazzi priva i transalpini del loro migliore giocatore, che tra l’altro aveva segnato il gol francese, poi pareggiato dalla rete di Materazzi. I tempi supplementari non mutano il punteggio. Si va alla roulette dei rigori. Dopo tanti esiti avversi, a Berlino la fortuna sta dalla parte degli azzurri. Trezeguet stampa sulla traversa il suo tiro. Gli azzurri hanno già fatto quattro centri.  Ultimo ad andare sul dischetto è Grosso. Ha gli occhi del mondo addosso. Un tiro e un urlo infinito. Gli azzurri sono di nuovo campioni del mondo per la quarta volta, a 24 anni dal trionfo di Madrid. E’ la grande rivincita di Lippi che solo un mese prima mezza Italia invitava a fare le valigie. Ora che tutti l’implorano di restare, sarà lui a decidere di farle. Ma da vincitore.

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