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Dollaro sempre più debole e rendimenti dei T-bond alle stelle: devastante l’effetto Trump sull’economia Usa

Lummi.AI

Che sta succedendo al dollaro? Nei primi due mesi di quest’anno era più o meno stabile intorno a 1,04 dollari per euro. Dall’inizio di marzo è iniziata una brusca china discendente (vuol dire che l’ammontare di dollari necessario per comprare un euro sale): il tasso di cambio dollaro/euro venerdì 23 maggio era giunto a 1,13, con una perdita di valore del dollaro in termini di euro dell’8% circa. Il dollaro aveva anzi toccato, nei confronti dell’euro, punte di svalutazione di quasi il 10% nella seconda parte di aprile, ma alla fine della settimana scorsa era ancora molto depresso. Ho scelto l’euro come termine di confronto solo per semplicità, ma andamenti analoghi si riscontrano nei tassi cambio del dollaro con tutte le altre principali valute.

Cosa influenza il tasso di cambio? Le forze dietro il valore del dollaro

Il tasso di cambio di una valuta rispetto a un’altra è semplicemente il prezzo chiesto sul mercato per scambiare fra di loro quelle due valute. Dipende da una miriade di motivi, per questo è praticamente impossibile prevederlo nel breve periodo. Può discendere dalle transazioni commerciali che hanno una delle due valute come mezzo di regolamento, sia di beni manufatti tangibili sia, in misura sempre maggiore nella moderna economia del mondo, di servizi intangibili. Può discendere dal desiderio di un investitore di vendere o comprare attività finanziarie (fondi liquidi, obbligazioni, azioni) denominate in una delle due valute, con fondi denominati nell’altra delle due. Può discendere soprattutto dall’aspettativa di ciascun commerciante o investitore che quel prezzo cambi in futuro in una certa direzione e dalla sua conseguente decisione di muoversi subito per trarre profitto da quel supposto cambio di prezzo: la decisione viene presa anche se non c’è una transizione commerciale o finanziaria immediatamente sottostante, dunque per ragioni puramente speculative.

Ma nel lungo periodo, dunque in capo a qualche mese o anno, i tassi di cambio di una valuta finiscono col riflettere la condizione reale dell’economia nei suoi rapporti col resto del mondo. Questo ci si chiede oggi: il movimento discendente del dollaro negli scorsi tre mesi è il segno di un cambiamento duraturo, presente o atteso, nelle condizioni dell’economia americana o è un’oscillazione accidentale? Fra i tanti indicatori disponibili per cercare di rispondere a questa domanda ne prendo uno che ritengo particolarmente significativo: il rendimento dei titoli di Stato americani aventi durata di trent’anni, i cosiddetti Treasuries trentennali.

Perché salgono i rendimenti dei Treasuries e crolla il dollaro

Da fine febbraio a venerdì scorso esso è salito di oltre il 10%. Quando il rendimento di un titolo obbligazionario a reddito fisso sale vuol dire che il suo valore di mercato scende proporzionalmente, perché se voglio vendere un titolo che rende meno di quanto si può spuntare in quel momento sul mercato devo accontentarmi di un valore minore di quello a cui l’ho comprato. E viceversa: fra rendimento e valore è impossibile dire quale sia l’uovo e quale la gallina. Sta di fatto che c’è stata negli ultimi tre mesi una tendenza di tutto il mondo a disfarsi di titoli a lungo termine dello Stato federale americano e questo ne ha determinato una perdita di valore, quindi un surriscaldarsi del rendimento. Simultaneamente, e forse conseguentemente, il dollaro si è deprezzato sui mercati dei cambi.

Questo duplice fenomeno è peculiare. I titoli a lungo termine americani sono sempre stati il “paradiso sicuro” per i risparmiatori di tutto il mondo, quelli desiderosi di sicurezza molto più che di guadagno immediato. Una sicurezza discendente dal fatto che gli Stati Uniti sono stati considerati dalla fine della Seconda guerra mondiale il Paese egemone: la potenza nucleare di gran lunga maggiore, l’economia più efficiente e dinamica la cui valuta campeggia nelle riserve di tutte le banche centrali, la democrazia più stabile, perfino il centro di creazione e diffusione della cultura popolare dominante (film, televisione, musica, fumetti). Il grande ombrello americano tutti ha coperto, tutti ha fatto prosperare, è naturale che chi ha un peculio da proteggere ne investa almeno una parte in titoli pubblici di quel paese dalla durata più lunga possibile, e pertanto domandi dollari in cambio della propria valuta.

Dollaro in crisi e fiducia in calo: l’effetto Trump

Da quando è entrato in carica il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, all’inizio di quest’anno, l’incantesimo sembra offuscato. In giro per il mondo potrebbe star serpeggiando il dubbio che gli Stati Uniti non possano, anche perché non vogliono, più svolgere il ruolo di potenza protettiva, anche economico-finanziaria, finora esercitato. Tutta colpa di Trump? Tutta no, molta si. Tutta no, perché la perdita di smalto della potenza americana è iniziata almeno vent’anni fa, col prorompere e l’affermarsi sulla scena geoeconomica mondiale di altri grandi paesi, in primis la Cina. Molta si, perché l’amministrazione Trump ha fatto esplodere il problema, accelerando bruscamente in tre mesi tendenze che altrimenti sarebbero andate avanti per trent’anni. Ha assestato colpi tremendi al sistema internazionale di cooperazione economica e politica, all’ordine giuridico e politico interno, perfino a quel pilastro della grandezza americana che da oltre un secolo sono le sue università. Soprattutto, ha seminato incertezza e confusione, mostrando al mondo come l’onnipotente America sia caduta preda di un manipolo di personaggi improbabili di scarsa competenza e dubbia moralità, che lanciano urla contraddittorie e proclami controproducenti.

In questa temperie, non c’è da meravigliarsi che il dollaro scivoli. Continuerà a farlo finché il sistema politico e istituzionale di quel grande Paese non trovi il modo di far ritrovare al suo governo coerenza e credibilità.

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