X

Covid-19 tra mappatura genomica, profili genetici e privacy

Pixabay

La piattaforma 23andMe 

Recentemente sul supplemento del weekend, Life&Art, del “Financial Times” c’era una intera pagina dedicata a Anne Wojcicki, co-fondatrice e CEO di 23andMe. Una compagnia high-tech dal nome apparentemente bizzarro ma oggi posizionata benissimo per diventare una delle piattaforme più importanti di medicina predittiva e di cura personale. 

La pandemia globale non poteva che accendere i riflettori su 23andMe e Anne Wojcicki. Non tanto per il servizio che offre, cioè la mappatura del genoma personale o la raccolta spontanea di dati genomici, quanto per le i database che costruisce durante questo processo. Un’attività piuttosto delicata, come si intuisce facilmente, ma che non sembra minimante preoccupare la Wojcicki che dice di sentirsi “dalla parte giusta della storia”. 

La tecnologia non può che aiutare le persone a conoscere meglio la loro biologia e i ricercatori a trovare le cure che mancano alle malattie genetiche, dice a Hannah Kuchlerl la giornalista del FT che l’ha intervistata. 

Ora succede che i dati, compresi quelli genetici, sembrano proprio la chiave di volta della lotta al coronavirus. E 23andMe ha informazioni che nessun’altro possiede. Informazioni sulle variazioni genetiche di un campione vastissimo. E, come si inizia capire, sono proprio queste variazioni a far sì che il Covid-19 colpisca subdolamente una persona in modo duro, leggero o la lasci priva di sintomi e quindi una mina vagante. 

23andMe non è però una società non-profit o felicemente dedicata a supportare le ricerche, ma una compagnia high tech con investitori come Google, Genentech e fondi di venture capital. Il modello di raccolta dati di 23and Me è basato sul consenso, sull’adesione volontaria a una sorta di Wikipedia delle informazioni genomiche, quindi non c’è dietro il modello di Google o di Facebook. La questione si sposta quindi sull’utilizzo dei dati in relazione alle motivazioni d’ingaggio dei donatori dei medesimi. È qui che c’è da indagare. 

È proprio quello che fanno che tre professori dell’università di Amsterdam (Josf Van Dijck, Thomas Poell e Martijn De Waal) indagano nel loro bel libro Platform Society. Valori pubblici e società connessa, adesso disponibile anche in italiano grazie a Guerini e Associati. 

Siamo lieti di offrirvi, di seguito, l’estratto integrale dal libro che tratta proprio del modello di ingaggio e di finalità dei dati di 23andMe. 

Niente di nuovo: la tecnologia è un Giano bifronte. 

Un grande hub di dati 

La piattaforma 23andMe ha cominciato a operare nel 2006 come servizio per l’analisi del genoma personale, offrendo ai clienti di tutto il mondo una mappa del loro Dna; dieci anni dopo, la piattaforma rappresentava uno dei più grandi hub di dati del mondo rispetto alla mappatura del genoma, avendo collezionato più di «320 milioni di singoli dati fenotipici». 

I dati sono raccolti sia offline che online. Il metodo offline consiste nell’ordinare un «kit per il servizio di profilazione genetica» da 23andMe e mandare una piccola quantità di saliva; dopo aver pagato una cifra tra i 99 e i 199 dollari, i clienti ricevono una panoramica completa del loro corredo genetico, incluso un report sui rischi che specifica la probabilità, per ogni individuo, di manifestare disturbi o patologie di origine genetica. 

Oltre alla transazione commerciale offline per il test sui dati genetici, l’azienda si rivolge ai clienti anche online invitandoli a rendere disponibili dati fenotipici attraverso questionari pop-up. Questi dati integrativi probabilmente aiutano a comporre un profilo ancora più accurato dello stato di salute di un individuo. 

Sin dall’inizio, 23andMe ha voluto promuovere il suo prodotto come un test medico diagnostico, mentre i dati raccolti sono apparentemente un sottoprodotto impiegato nella ricerca medico-scientifica. 

Problemi con le autorità di controllo 

Nel 2013 la Food and Drug Administration (Fda) statunitense ha vietato i kit per il test Dna proposti da 23andMe poiché fornivano ai consumatori informazioni inaccurate, basate su algoritmi predittivi che si rivelavano fallaci. In conseguenza di questo momento di crisi, la piattaforma ha archiviato la componente medica e spostato la propria attenzione dalla diagnosi all’identificazione della genealogia dei singoli clienti. 

Successivamente all’intervento della Fda, 23andMe ha sviluppato per il Play Store di Google una «app che fa da bussola per il tuo genoma», con l’obiettivo di mostrare ai clienti «cosa dice il Dna su di te e sulla tua famiglia». 

Nonostante la nuova categoria in cui la app è stata inclusa, il sito web della piattaforma alludeva ancora alla finalità di offrire servizi di medicina predittiva personalizzata. Nel 2014, dopo aver lievemente modificato la retorica della presentazione, l’azienda ha sollecitato e ottenuto l’approvazione dell’autorità sanitaria britannica, sostenendo che il kit era commercializzato non come test diagnostico ma come un «prodotto informativo». 

Dal Regno Unito, 23andMe poteva spedire il kit per il test ai clienti residenti nel Regno Unito e in altri cinquanta paesi nel mondo. Poiché non esistono linee guida globali per gli standard che consentono la valutazione delle specifiche di un prodotto, ogni azienda può cercare quei mercati regionali o nazionali le cui politiche regolatorie permettono che sia distribuita come una app medica. 

Nel 2015 la Fda ha approvato il kit per il test di 23andMe limitandolo a pochi casi di specifici disturbi e patologie, così l’azienda ha potuto effettuare un nuovo lancio della versione modificata del suo prodotto negli Stati Uniti, godendo ora del consenso espresso dalla Fda. 

La narrazione di 23andMe 

È interessante vedere come 23andMe solleciti la cessione di dati dai clienti sulla base di una duplice argomentazione, strettamente interconnessa: la promessa di ricevere un profilo genetico personalizzato e la promessa di donare i dati sul proprio genotipo e fenotipo con l’obiettivo di aiutare la ricerca in campo genetico e promuovere il bene comune. 

Come riporta il sito, mandando un campione del tuo Dna, 

«non stai soltanto imparando qualcosa su te stesso; ti stai unendo a una comunità di individui motivati che possono collettivamente avere un impatto sulla ricerca e sulla comprensione della natura umana di base» (corsivo nostro). 

Quindi, 23andMe fa appello al bisogno degli utenti di esprimere solidarietà e senso della collettività evocando una «comunità di individui motivati» − un termine che richiama il fatto che pazienti attivi o gruppi di utenti siano coinvolti in questo sforzo. 

Nonostante i tentativi dell’azienda di acquisire piattaforme di pazienti già attive online, 23andMe ha mostrato minore interesse verso le comunità di pazienti come collettivo e maggiore attenzione alle diverse categorie di pazienti in quanto portatori di dati preziosi. 

Come notano Harris, Wyatt e Kelly, la retorica di 23andMe 

«scivola tranquillamente da nozioni che attengono all’assistenza sanitaria personalizzata alla celebrazione della partecipazione dei consumatori alla ricerca come forma di ‘scambio di doni’». 

Utenti partecipanti 

Comunque, quanto può apparire come uno scambio di doni è nei fatti uno scambio di dati, nel quale i dati fenotipici individuali sono trasformati in valore economico. Quando acquista un kit per il test sul Dna, ogni cliente viene esortato a concedere il proprio permesso a rendere i suoi dati genetici disponibili per scopi di ricerca, con una richiesta formulata in termini di altruismo e bene comune: 

Related Post

Affinché gli scienziati e i ricercatori accelerino i miglioramenti degli standard dell’assistenza sanitaria, hanno bisogno di grandi set di dati… da tutti noi. La tua partecipazione alla ricerca potrebbe contribuire a realizzare scoperte scientifiche che consentono prevenzione delle malattie, migliori terapie farmacologiche, nuovi trattamenti delle malattie e, soprattutto, l’introduzione di terapie genetiche. Una volta acquistato il tuo kit, potrai scegliere di unirti a questa rivoluzione della ricerca (corsivi nostri). 

Ci si rivolge agli utenti come «partecipanti» a una «rivoluzione della ricerca», che può aprire una prospettiva per trovare cure e rimedi preventivi per molte malattie. Come abbiamo appreso dalla scheda informativa, più dell’80% dei clienti sceglie di partecipare alla ricerca. 

I termini «ricerca» e «ricercatori» restano non qualificati; sembrano riferirsi sia alla ricerca pubblica sia a quella privata, come se i dati venissero resi disponibili senza alcuna restrizione a tutti i ricercatori. Ma gli utenti di 23andMe firmano dei termini di servizio nei quali si afferma che spetta all’azienda decidere con quale terza parte saranno condivisi i dati genetici dei clienti. 

La privatizzazione dei dati 

Già nel maggio del 2012 era emerso con evidenza che 23andMe avrebbe privatizzato le rendite delle risorse dati acquisite, poiché era stato assegnato al proprietario della piattaforma un brevetto per il «polimorfismo associato al morbo di Parkinson», scatenando contestazioni da parte dei clienti. I pazienti hanno affermato di sentirsi «raggirati» per aver donato informazioni a un’azienda che ha successivamente tratto profitto dal loro dono di dati. 

Nel gennaio del 2015 l’industria farmaceutica Genetech ha pagato 60 milioni di dollari a 23andMe per accedere a tremila profili del Dna di pazienti con il morbo di Parkinson. Non c’è voluto molto tempo prima che le principali aziende farmaceutiche e gli sviluppatori di prodotti medicinali iniziassero a finanziare 23andMe. 

Coloro che hanno investito nell’azienda prevedono un futuro dove la combinazione di database sanitari sarà la risorsa principale per sviluppare farmaci e trattamenti brevettabili. Quando 23andMe ha annunciato che sarebbe entrata nel settore della ricerca e sviluppo di farmaci, i suoi proprietari hanno fatto notare come l’enorme database di «partecipanti alla ricerca» avrebbe rappresentato il suo più grande patrimonio per fronteggiare l’aspra competizione con le aziende «big pharma». 

Il successo di 23andMe nel costruire un database genomico user-generated non può essere considerato un evento separato da quanto accade nel più ampio ecosistema delle connective platforms, nel quale l’integrazione verticale e orizzontale (delle piattaforme) rende possibile l’espansione globale. 

L’ ecosistema delle connective platforms 

La strategia per trovare il modello più efficace di ritorno dell’investimento di una singola app nel settore della salute dipende in buona parte da una riuscita integrazione nell’ecosistema. La distribuzione mondiale del kit per il test genetico e dell’app per la genealogia di 23andMe, nonostante gli intralci di tipo regolamentare, è stata resa possibile dalla presenza all’interno del Play Store di Google. 

La scelta di Google non è casuale: Alphabet-Google è il primo e il più grande tra gli investitori finanziari di 23andMe, principalmente attraverso la sua affiliata Google Ventures. Ma la piattaforma non è esclusivamente confinata nei percorsi tracciati da Google all’interno dell’ecosistema. 

Nel 2016, 23andMe ha anche lanciato un modulo Apple ResearchKit per aiutare i ricercatori a integrare senza soluzioni di continuità le informazioni genetiche negli studi basati sulla app. Sulla base dei risultati ottenuti in questi studi, i ricercatori costruiranno piattaforme per pazienti asmatici e che soffrono di malattie cardiache. 

Il progetto viene presentato come un «framework collaborativo» con le app Mount Sinai Asthma Health e MyHeartCounts della facoltà di medicina di Stanford; in questo modo i clienti di 23andMe possono caricare le loro informazioni genetiche direttamente attraverso queste piattaforme, a seguito di un processo di consenso informato. 

Con più di un milione di clienti in tutto il mondo, l’80% dei quali ha acconsentito a partecipare alla ricerca, 23andMe propone sul piano commerciale il suo database come una miniera d’oro per i ricercatori. I dati non sono gratuiti ma i ricercatori «potranno disporre di una maniera semplice e low cost per incorporare i dati genetici nei loro studi» (23andMe, 2016a, corsivo nostro). Non è specificato a cosa si riferisca low cost, ma è del tutto evidente che i ricercatori non inclusi nell’organizzazione privata dovranno pagare per i dati donati dagli utenti. 

L’evoluzione in azienda globale 

Come piattaforma di settore, 23andMe è gradualmente evoluta in un’azienda globale di dati genetici che è strettamente interconnessa con il nucleo infrastrutturale dell’ecosistema delle piattaforme. Attraverso l’interconnessione tra dispositivi hardware, servizi cloud e sistemi di software, i database rilevanti sono gradualmente privatizzati, nonostante l’originaria promessa di impiegare le informazioni «donate» dai pazienti per obiettivi collettivi. 

La spinta ideale verso la collettività, che si esprime nella richiesta ai pazienti di donare i loro dati per favorire un bene più grande come quello della ricerca, si trasforma in un investimento in connettività, che aiuta le imprese come 23andMe ad acquisire valore poiché trasforma i dati dei pazienti in beni commerciabili. Come sostiene Ajana, i dati condivisi sono «sempre più considerati come ‘bene pubblico’, un tipo di asset che potrebbe potenzialmente apportare benefici non solo all’individuo ma anche alla società nel suo insieme. 

In tale contesto, la solidarietà diventa quasi sinonimo di condivisione di dati e disponibilità a fornire informazioni». C’è un ironico stravolgimento in questa «filantropia dei dati» identificata da Ajana: se da un lato i pazienti vogliono contribuire con i loro dati al bene comune, dall’altro le tech company potrebbero finire per privatizzare ampiamente risorse comuni. 

Ritorneremo su questa ambiguità più avanti nel capitolo, dopo aver visto diversi altri esempi di piattaforme. 

JOSF VAN DIJCK è Professore all’Università di Utrecht. Precedentemente, ha insegnato Media Studies ed è stata Preside della facoltà di Humanities all’Università di Amsterdam. È stata Presidente della Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences. È autrice di The Culture of Connectivity. A Critical History of Social Media (2013). 

THOMAS POELL è Professore Associato di Nuovi Media e Culture Digitali all’Università di Amsterdam. Le sue pubblicazioni vertono principalmente sui social media, sulle proteste popolari e sul ruolo ricoperto da questi stessi media nello sviluppo di nuove forme di giornalismo. È coautore di diversi libri, tra cui The Sage Handbook of Social Media (2018) e Global Cultures of Contestation (2017). 

MARTIJN DE WAAL è ricercatore presso il gruppo di ricerca Play & Civic Media della Amsterdam University of Applied Sciences. Le sue attività si concentrano prevalentemente sullo studio delle relazioni tra media digitali, società e cultura urbana, con uno specifico interesse per lo spazio pubblico e i media civici. Il suo testo The City as Interface. How New Media are Changing the City è stato pubblicato nel 2012. Nel 2009 è stato visiting scholar all’M.I.T., presso il Center for Civic Media. 

Categories: Tech

View Comments (1)