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Coronavirus sfida anche l’economia: 5 priorità per rompere il circolo vizioso

Imagoeconomica

Il coronavirus ha già un impatto sulla domanda per il turismo e altri servizi, ma l’effetto maggiore sull’economia italiana sarà tramite le catene globali del valore. I conseguenti effetti dei danni all’offerta si tradurranno in salari e occupazione più bassi, ovvero riduzione del reddito e della domanda: un’altra crisi globale i cui effetti molti temono siano gravi come quelli della crisi finanziaria. Sappiamo che il virus ha conseguenze più gravi nelle persone già indebolite e lo stesso si applica all’economia. La condizione patologica pregressa di cui soffre l’economia italiana si chiama stagnazione della produttività. 

Il coronavirus dunque moltiplica la necessità di ripresa della produttività e toglie alibi ai troppo numerosi supporters dello status quo & diamo-la-colpa-all’Europa. La Cina sappiamo che ce la farà a riprendersi rapidamente dall’epidemia, ma noi? La nostra risposta alla crisi immediata deve contenere le basi per una crescita duratura. 

La stagnazione della produttività è problema vecchio di un quarto di secolo in Italia, ma la conoscenza delle dinamiche della produttività ha fatto un salto di qualità negli ultimi anni, ovvero da quando un privato ha creato una database di 360 mila imprese

L’analisi di questi dati ha spazzato via i precedenti paradigmi interpretativi basati sui dati di settore che erano contraddetti da crescenti eccezioni (proprio come la cosmologia pre-Galileiana). Abbiamo così scoperto che le imprese alla frontiera registrano una produttività del lavoro del 3,5% all’anno, e una produttività totale del 2,5% (o maggiore) all’anno come nei migliori momenti del dopoguerra e a cavallo del secolo. 

La produttività totale dei fattori, cioè l’efficienza nell’organizzare i fattori produttivi dentro e fuori le imprese, ha tirato la crescita italiana negli anni ’60 e ’70. Ma tra il ’95 e 2007 la sua crescita è scesa allo 0,2% annuo contro lo 0,7% dell’AE. Dal 2007 al 2015 è divenuta negativa allo 0,9% contro +0,3% dell’AE. In Italia le cause principali della caduta hanno 4 nomi: innovazione, formazione, giustizia e PA.  

Qui discuteremo le prime due per trovare le soluzioni per uscire dal circolo vizioso: bassa produttività, bassa crescita, bassi salari e living standards in calo, alto debito pubblico rispetto al PIL e ridotta capacità di ammortizzare le crisi che a loro volta riducono la produttività…

Anche le soluzioni sono cambiate. Ciò che caratterizza le imprese alla frontiera è l’innovazione (numero di brevetti), la taglia più grande, la collocazione sui mercati internazionali, la maggiore profittabilità.  Oltre alla R&S anche l’imitazione, l’adozione di tecnologie digitali può aumentare la produttività dell’impresa in presenza però di una dimensione, un business model e una collocazione internazionale appropriata.   

Ormai anche in Confindustria piccolo non è più bello. Speriamo voglia dire favorire la crescita dimensionale delle imprese e smettere d’incentivare i piccoli che non crescono. Alcuni sostengono che la lotta all’evasione delle piccole imprese è da considerarsi una politica per l’innovazione. Questa è la priorità numero 1, che non ha bisogno di nuove risorse perché fa diminuire la spesa dello Stato e aumentarne le entrate. 

Le tecnologie digitali permettono “scala senza massa” permettendo a start-up innovative di crescere e affermarsi sui mercati. Ma possono anche creare “winners takes it all” e concentrazione di mercato. E la forbice tra imprese alla frontiera e le altre continua ad allargarsi. Quindi le politiche pubbliche di regolamentazione, infrastrutture digitali, incentivazione o supporto a R&S e formazione di managers e lavoratori sono essenziali priorità. Anche per queste politiche i fondi ci sono già in larga misura e domandano solo di essere usati in modo coordinato ed efficiente riallocandoli all’interno di ogni categoria secondo la capacità dimostrata da ogni progetto di raggiungere l’obiettivo. 

Per questo la Commissione Europea e il Consiglio raccomandano di creare Comitati Nazionali per la Produttività (CNP). Ne ha parlato Erik Canton, responsabile a Bruxelles dei National Productivity Boards presentando le best practices discusse nel loro coordinamento europeo. Un elemento importante dell’attività dei CNP è la possibilità di fornire inputs per il rapporto sul paese della Commissione Europea. 

La fiscalità deve essere il partner della crescita dimensionale delle imprese e dell’adozione di AI che finora riduce la quota del lavoro sul reddito, piuttosto che i posti di lavoro, e quindi domanda anche forme di redistribuzione del reddito appropriate.  Oltre alla formazione e la ricerca, l’azione pubblica può abolire gli ostacoli alla mobilità del lavoro, dai trasporti alle case, agli asili.  

Infatti non c’è bisogno di essere Edison o Steve Jobs, basta riuscire a imitare e applicare gli ingredienti delle super star alla frontiera globale. Il digitale viene definito “general purpose technology” come l’elettricità: si può applicare alla costruzione di navi spaziali come alla raccolta di pomodori.

 Le innovazioni legate all’elettricità hanno fatto crescere grandi imprese che resistono dopo più di un secolo e ne hanno distrutte molte altre che sono state lente nel cambiamento e sono state spazzate via dalla concorrenza.

L’Italia è stata lenta nell’introduzione di tecnologie digitali a causa della piccola taglia di più del 90% delle imprese. Inoltre, la gestione familiare di queste imprese, ancor più della proprietà familiare, incide sulla capacità manageriale, perché i manager circolano da un’impresa all’altra portando le esperienze più efficaci.  

Ogni passo dell’adozione delle tecnologie ha conseguenze sul benessere. Sappiamo bene che la partecipazione femminile al mercato del lavoro è bassa in Italia rispetto al resto dell’UE e potrebbe peggiorare con un’automazione incontrollata: uno studio del FMI trova che, analizzando le mansioni piuttosto che il posto di lavoro, le donne hanno mansioni più di routine e meno analitiche degli uomini, in tutti i paesi, settori e occupazioni. E quelle con le professionalità più basse sono esposte all’automazione in maniera sproporzionata. 

Questo processo ridurrebbe ancora di più i redditi delle famiglie e la crescita demografica, che ne dipende. Inoltre, poiché nella transizione le super stars aumentano la produttività e non i posti di lavoro, questi ultimi aumentano nelle industrie, ma soprattutto nei servizi a bassa produttività e bassi salari che creano gravi tensioni sociali (Gilets jaunes) se non si prendono misure di supporto tempestive. 

In Italia la banda larga super-veloce che serve al controllo dei processi produttivi e alla produzione stessa con internet delle cose non copre ancora tutto il territorio nazionale, ma neanche tutto il centro della capitale. Che cosa limita l’investimento pubblico e privato necessario al completamento della copertura della banda larga e gli altri investimenti -di trasporti e abitazioni- necessari alla mobilità e dunque alla ripresa della produttività? 

Tra gli speakers intervenuti su innovazione e produttività, il professor Scandizzo dell Università Tor Vergata e braccio destro del ministro dell’Economia Giovanni Tria per gli investimenti pubblici, ha risposto a queste domande ricordando che la stabilità degli incentivi è altrettanto importante degli incentivi stessi per gli investitori privati e ha raccomandato di estendere il super-ammortamento agli investimenti per la transizione digitale ed energetica, come definita nella classificazione europea. 

Roberto Torrini della Banca d’Italia ed ex-presidente ANVAR oltre che coautore di un recente libro sulla produttività, ha ricordato come il calo demografico in Italia possa essere neutralizzato solo dall’aumento della produttività.  Inoltre, ha indicato precise articolazioni delle politiche per il dialogo imprese-scuole e la preparazione all’avvento dell’automazione. Tutti hanno prioritizzato la crescita dimensionale delle imprese e la formazione continua per uscire dalla stagnazione produttiva, incluso il discussant prof. Giampaolo Galli dell’Osservatorio CPI che ha mostrato come l’indicatore europeo per i diversi aspetti dell’adozione del digitale presenti l’Italia al 25 simo posto su 28 paesi europei.  

La formazione è decisiva nell’utilizzo dell’innovazione 

A quelle elencate dal Cottarelli nel suo ultimo libroaggiungerei un’altra “bufala dell’establishment”: che bastino gli investimenti in ITC a far ripartire la produttività. 

Nella figura qui sotto a destra ci sono gli investimenti in tecnologie informatiche e della comunicazione (ITC) che tirano la produttività da metà anni 60. La Spagna ha investito fortemente in IT a partire dal 1995, a differenza dall’Italia, ma l’uguale investimento non si è tradotto nell’uguale aumento di produttività di Spagna e Germania.  La ragione di questa differenza va trovata nella insufficiente capacità manageriale delle imprese spagnole come risulta dalle surveys del World Management.   

Mentre nel decennio 1985-95 la capacità manageriale non era così importante, dal 1995, dall’introduzione cioè delle tecnologie digitali, diventa determinante per la crescita della produttività. 

Ma ancora più grave è non aver formato chi deve usare il digitale nei processi produttivi o nell’acquisizione di conoscenza. E un sistema formativo e di ricerca che riduce le possibilità di creazione di spin-off e di nuove imprese high tech. 

La Formazione del capitale umano è stato il tema di Stefano Scarpetta, Direttore all’OCSE, le cui priorità sono state commentate dal prof Egidi, ex-rettore di LUISS e dell’Università di Trento. L’OCSE ha in questo campo delle pubblicazioni fondamentali per la valutazione delle conoscenze dei  quindicenni (PISA) e per gli adulti (PIACC) e la Strategia per le competenze per paese. 

E proprio i recenti risultati Pisa 2018 mostrano i quindicenni italiani al disotto della media dei paesi avanzati non solo nelle scienze, ma anche nella capacità di lettura critica ovvero valutare e selezionare le informazioni trovate on line. Questa capacità di distinguere tra vero e falso e ricostruire l’informazione è parte fondante della conoscenza in un’epoca in cui non c’è più solo il libro di testo, ma migliaia d’informazioni online tra le quali orientarsi. 

Con PIACC l’OCSE trova che in Italia i posti di lavoro attuali si prestano ad essere automatizzati fino al 50% in confronto al 30% della Norvegia. Questo dipende dalla qualificazione degli adulti che per il 38% hanno basse competenze di base. Dal confronto internazionale risulta che skill mismatch e livello d’istruzione non siano poi molto diversi in Italia dagli altri paesi OCSE: le imprese che non trovano le competenze che cercano sono poco più del 20% rispetto all’80% del Giappone e più del 40% in Germania. Il problema specifico dell’Italia sembra piuttosto che pochi adulti ricevano formazione e poche imprese offrano opportunità di formazione. La strategia per le competenze in Italia, approvata nel 2017, resta in un cassetto. 

Il prof Egidi ha fatto notare che con poche imprese alla frontiera e la maggior parte in industrie tradizionali non c’è da stupirsi dell’apparente contraddizione tra il fatto che produciamo meno laureati della media europea e allo stesso tempo molti di loro non trovano occupazione in Italia. Esportiamo quindi molti giovani qualificati, depauperando ulteriormente la composizione delle competenze nel sistema produttivo e riducendo le possibilità di creazione di spin-off e di nuove imprese su base tecnologica. 

A ciò contribuisce anche il fatto che in Europa l’invenzione scientifico-tecnologica nelle università e le opportunità di business nelle imprese rimandino a obiettivi e stili di analisi molto diversi rispetto agli Stati Uniti e all’Asia. L’integrazione o almeno il dialogo tra ricerca accademica e innovazione industriale ne risentono e depotenziano gli incentivi perché i ricercatori operino sui due campi.  

Invece di temere ogni forma di valutazione, ricorrere alle agenzie internazionali di valutazione non solo fornirebbe alle imprese elementi informativi credibili per individuare i potenziali partner universitari, ma incentiverebbe anche le università a disegnare strategie valide di sviluppo.  

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Anche le proposte relative ai contenuti della formazione (“Rafforzare le competenze tecnico-scientifiche, … i soft-skills “ ecc.) sono condivisibili, ma perché non restino grida manzoniane occorre da un lato che ci sia un monitoraggio dei soggetti istituzionali, pubblici e privati, che dovranno operare in tal senso, monitoraggio che ad oggi non esiste, e che soprattutto si formino i formatori: la formazione di un pensiero critico è un processo complesso che richiede di essere accompagnato da esperti; sono troppi anni che si parla di soft skills e di problem solving senza che  in realtà si faccia nulla per creare le competenze dei formatori in questi campi. 

°°°° Le soluzioni indicate in questo articolo derivano dalle proposte degli speakers e dalla discussione al convegno dell’Osservatorio per la produttività e benessere su “5 Priorità per innescare un nuovo dinamismo nella società italian” del 28 febbraio 2020

Categories: Economia e Imprese