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Cinema, la Cina sta diventando la capitale del mondo e Hollywood non è un posto per start up

Cinema 2015: ancora una buona annata

Dalla Cina con furore

Il 2015 è stato un anno ottimo per il cinema. Gli incassi al box office sono cresciuti rispetto al 2014, i profitti degli studios sono stati buoni, non ci sono stati flop catastrofici e soprattutto ha iniziato a tirare, come un gatto delle nevi, il mercato cinese che si sta avviando a diventare il più importante del mondo. Forse sarà proprio la Cina a scrivere il prossimo capitolo di questa industria del divertimento, dello svago e anche della cultura. Succederà anche che la capitale del cinema si sposterà in Cina. Si potrebbe chiamare Oriental Movie Metropolis, un’enorme struttura con 10mila metri quadri di studi di posa (uno sottacqua) parchi a tema che l’uomo più ricco della Cina, Wang Jianlin, sta edificando a Qingdao sulla costa orientale della Cina. Consapevoli di questo ruolo i cinesi hanno già iniziato a fare shopping a Hollywood. Il conglomerato cinese Dalian Wanda presieduto da Wang Jianlin, che già possiede la più grande catena di cinema del mondo in Cina e negli USA, ha recentemente acquisito per 3,5 miliardi di dollari Legendary Pictures, lo studio cinematografico di Burbank che ha co-prodotto il super-blockbuster Jurassic World, che ha frantumato 29 record d’incasso, e, tra molti altri, anche il meno fortunato Steve Jobs che ha però vinto due Golden Globes.

Forse è anche per questo (ma la Cina è al momento un El Dorado per gli studios, i film americani vanno come l’iPhone), ma è soprattutto per l’arrivo di competitor spietati come Netflix ed Amazon che hanno iniziato a produrre contenuti originali destinati alla distribuzione mondale direttamente in concorrenza con quelli acquistati dagli studios e dai canali televisivi tradizionali, che il nervosismo a Hollywood è stellare.

 

Oltre l’ossessione del franchise

Ci sono anche altri segnali che la salute di quest’industria non è così florida come sembrerebbe a guardare alcuni indicatori. Questo segnali sono la diminuzione dei film prodotti, l’ossessione del “franchise” (cioè la creazione di una stringa di sequel meglio se tendente all’infinito) e il ruolo sempre più determinante del marketing nel determinare il successo di un prodotto culturale come un film. Shawn Levy, un produttore canadese che lavora con i maggiori sei studios della capitale del cinema, ha dichiarato che il 90% dell’attenzione dei di questi studios va ai progetti che includono un supereroe o sono facilmente serizzabili. Ormai non si discute più del film in sé, ma delle sue possibilità di avviare un franchise. Adam Fogelson, ex presidente di Universal Studios, ha dichiarato che il 75% del successo di un film non deriva dalla sua qualità, ma dal marketing e dalla sua commerciabilità iniziale. Non è quindi un caso che nel 2014 ci siano stati 29 sequel, molti dei quali basati su personaggi dei fumetti. Questa crisi creativa inizia a preoccupare le persone più accorte di Hollywood che vedono nel principio di produrre film “too huge to ignore” una formula rischiosa.

C’è anche chi sta cercando, come STX Entertainment, un modello di business nuovo che non sia quello dei franchise e dei supereroi usciti dai fumetti, ma qualcosa di meno artificioso che ponga l’esperienza umana al suo centro e che possa stare, includendo una o più star, tra i 20 e gli 80 milioni di investimento. STX ha dichiarato che questo tipo di film possono produrre profitti più alti del 30% rispetto al modello prevalente di Hollywood. Naturalmente la scala dei profitti è differente.

Anche in questo progetto c’è lo zampino dei cinesi: la casa di produzione cinese Huayi Bros. ha chiuso un accordo con STX per finanziare a partire dal 2016 la produzione di 18 film che si vanno ad aggiungere ai 15 film già pianificati da STX nel biennio 2016-2017. Si tratta della stessa quantità di produzioni dei grandi studios.

Tad Friend su “The New Yorker” ha dedicato un lungo articolo a discutere le strategie di STX e di Adam Fogelson che da poco si è unito al nuovo studio cinematografico. Da questo lungo articolo intitolato The Mogul of the Middle. As the movie business founders, Adam Fogelson tries to reinvent the system abbiamo tratto uno stralcio che fotografa bene la situazione di Hollywood agli inizi del 2016. Ilaria Amurri ha tradotto questo brano per i nostri lettori.

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Le montagne russe dell’industria cinematografica

La storia dell’industria cinematografica ha visto una grande ascesa seguita da un lungo declino. Nel 1927, quando l’America aveva un terzo della popolazione attuale e un biglietto del cinema costava 25 centesimi, gli studios registrarono 780 milioni di dollari di incassi al botteghino, l’equivalente odierno di 10,6 miliardi, cioè quasi 300 milioni in più rispetto al guadagno del 2014. All’epoca ogni casa di produzione aveva i suoi cinema e distribuiva fino a 200 film all’anno, sapendo che la gente sarebbe andata a vedere qualsiasi cosa. Nel 2014 sono usciti 178 film in tutto e di ognuno si è dovuto curare attentamente il marketing per attirare gente che poi è rimasta a casa comunque.

Gli adolescenti, cioè gli spettatori del futuro, vanno al cinema in media sei volte all’anno, solo che le sale cinematografiche non sono più luoghi dove ritrovare noi stessi, per quello c’è la televisione. Adesso ci andiamo con lo stesso spirito con cui i romani andavano al Colosseo: per ridere, gridare e divertirci. La commedia, l’horror e il trionfo dell’umanità continuano ad essere più efficaci al cinema che a casa, ma naturalmente non c’è niente di meglio di una bella nave spaziale che attraversa lo schermo a razzo. Le immagini computerizzate e di grande impatto sono tipiche di quei film d’azione che sono creati appositamente per non “aver bisogno di recensioni positive”, cioè per non essere necessariamente belli. Secondo un produttore:

Il cinema non è migliorato, ma almeno dà più soddisfazioni. Fino a venti o trent’anni fa i produttori facevano film che piacevano a loro. Kramer contro Kramer è ottimo, ma non va bene per un’audience globale, mentre Harry Potter o la trilogia de Il signore degli anelli non erano eccezionali, eppure sono andati alla grande.

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Il regista Billy Ray riconduce il fenomeno alla crisi economica del 2008 e al declino del mercato dei DVD:

Da quel momento in poi il timore delle case di produzione si è trasformato in panico. Mi sono sentito dire frasi del tipo “non portarmi niente di buono perché sarei tentato di comprarlo e non posso permettermelo”.

 

La tecnologia al servizio della spettacolarità

Non è la prima volta che gli studios ripiegano sulla spettacolarità per inchiodare alla poltrona un pubblico affamato. Quando arrivò la televisione, negli anni ’50, risposero con i kolossal in CinemaScope come La tunica e Tempeste sotto i mari (Billy Wilder suggerì che la tecnologia widescreen potesse funzionare al massimo per raccontare “un amore tra due bassotti”). La novità è che oggi si fa ampio affidamento su serie di sequel chiamate “franchise”. Shawn Levy, regista di Una notte al museo dice di avere progetti in ballo “con sei diverse case di produzione, ma il 90% di quelli che vengono selezionati parla di supereroi o si presta palesemente al franchise. Ogni singolo incontro di presentazione a cui ho partecipato negli ultimi due anni non ha riguardato il film in sé, ma il suo possibile franchise.

Nel 2014 sono usciti 29 sequel, molti di stampo fumettistico. Come confessa un alto dirigente

Non vado pazzo per tutti questi sequel, ma siamo costretti a rendere giustizia agli azionisti, il che rende tutto più semplice dal punto di vista del marketing: Star Wars, ma per piacere!. Il concetto è che azzeccare un film è già difficile di per sé, quindi perché non accontentarsi di farne uno che porti a casa 500 milioni di dollari?

 

… e poi rimasero in tre

Il cinema d’azione è un business fantastico, finché funziona, ed è per questo che i grandi gruppi continuano a comprare le case di produzione. Peccato che col tempo il business stia diventando sempre meno entusiasmante, ragion per cui i gruppi si mettono a rivendere gli studios. Un produttore ha detto chiaramente: “il film di Ronald Emmerich costato centinaia di milioni di dollari per 500 milioni di incassi? Il suo profitto non farà che diminuire di anno in anno”. È probabile che la strategia di produrre meno film a causa del loro margine di declino non sia la ricetta del successo a lungo termine, anche perché la concorrenza è dappertutto. Una volta un vecchio dirigente predisse questo scenario:

Man mano che Google, Verizon, A.T.&T., Comcast, Hulu, YouTube, Facebook, Amazon, e Netflix metteranno le mani sui contenuti originali, gli studios non saranno più in grado di competere con la distribuzione digitale. Fra tre anni la Paramount non esisterà più, la Sony scomparirà, la Fox comprerà la Warner Bros. e rimarranno solo la Fox, la Disney e la Universal. Eppure i dirigenti intervistati non sembrano così intimoriti. Uno di loro ha affermato con nonchalance:

Nonostante l’instabilità attuale, l’industria cinematografica è stata la più solida nella storia degli Stati Uniti. I sei studi di produzione odierni esistono fin dall’inizio, fin dalla prima metà del secolo scorso. Certo, bisogna superare molti ostacoli per entrare nel business.

Se Hollywood è riuscita a resistere è perché il legame con professionisti talentuosi, la sensibilità nei confronti delle diverse categorie di pubblico e la capacità di accontentare tutti non possono essere replicati molto facilmente da una semplice startup.

 

Hollywood non è un posto per start-up

Tra le varie start-up aspiranti ci sono stati Orion, Hemdale, Artisan, Overture, Morgan Creek, Relativity Media e molti altri. Il produttore Joe Roth fondò la Revolution Studios nel 2000 con in tasca un miliardo di dollari di finanziamenti e un accordo molto vantaggioso con la Sony. “Il nostro compito era di  coprire un terzo delle produzioni Sony con film di medio livello, il problema è che ci vuole un minimo di buon gusto”. La Revolution debuttò con I gattoni, un fiasco totale, poi lanciò il tremendo Amore estremo – Tough love. La produzione chiuse i battenti nel 2007. “Onestamente i nostri film non erano abbastanza buoni”, ammette lo stesso Roth.

C’è da dire, però, che il buon gusto non è tutto. Stacey Snider, della Fox, dichiara:

Alla Universal, Adam Fogelson [ex presidente della Universal Pictures] ha trovato carte vincenti nella categoria del medio budget, ma scommetto che non ci sta riuscendo alla STX Entertainment. La STX sta affrontando grosse sfide, perché si scontra continuamente con le major. Un marchio forte fa spesso la differenza e loro non ce l’hanno. I loro film non hanno neanche grandi effetti speciali, perciò sono di interesse più domestico che globale. Se il mercato domestico è piatto e se la STX non può permettersi di produrre film da lanciare anche in Cina il flop è assicurato.

Secondo un agente del settore:

la STX sta prendendo in giro se stessa cercando di abbattere studios che sono già sul viale del tramonto. Anche se riuscisse a sviluppare un franchise non so come farebbe a sopravvivere alla lunga. Ogni volta che ne parlo con qualcuno aleggia sempre il ricordo dei tempi d’oro.

I tempi d’oro appunto, che non ci sono più.

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