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Cinema: il meglio del 2018 da The Post a Dogman

Il numero delle persone che si sono recate in una sala cinematografica, rispetto all’anno precedente, è diminuito in modo significativo. La maggior parte del pubblico appartiene a fasce di età comprese tra gli 11 e i 34 anni, il genere preferito è la commedia, a seguire l’action. Negli ultimi 25 anni sono aumentati gli spettatori saltuari rispetto a quelli abitudinari.

Inoltre, durante il recente Festival del cinema di Venezia, a settembre, sono stati presentati i dati, forniti da Anica e Anec, sull’andamento generale del cinema italiano nel 2017. I numeri essenziali dicono che nello scorso anno sono stati distribuiti nelle sale 536 film (-18 rispetto al 2016) e sono diminuiti considerevolmente il numero degli spettatori: da 105 mila a 93 mila (pari a – 12,3%) e ridotto l’incasso globale, sceso dell’11% circa. Numeri impietosi che fotografano una situazione complessa, nel pieno di una mutazione genetica in corso nei meccanismi di ideazione, produzione, distribuzione e fruizione da parte del pubblico di prodotti cinematografici.

In questo contesto, è molto probabile che anche il 2018 non entrerà negli annali del cinema, almeno per quanto riguarda il mercato nazionale, sia nella produzione sia per quanto riguarda i riscontri al botteghino. Se ci riferiamo alle nuove proposte del cinema italiano, non ci sono state sorprese particolari o titoli che rimarranno scolpiti nella memoria (con una parziale eccezione per il film di Luca Guadagnino, Chiamami con il tuo nome). Considerazione analoga per le proposte internazionali: alcuni titoli interessanti ma sempre nel solco di una apprezzabile “normalità” (vedi Tre manifesti a Ebbing, Missouri). In poche parole, non sono emersi nuovi geni della cinepresa e tantomeno abbiamo visto capolavori. È stato un anno, per certi aspetti, ancora di transizione da un mondo, da un modo, di ideare, produrre e distribuire prodotti cinematografici in senso tradizionale ed uno che invece guarda con molto interesse alle nuove tecnologie riferite, in particolare, alle nuove modalità di fruizione, di visione, dei film da parte degli spettatori. Ci riferiamo alle nuove piattaforme di distribuzione (e ora anche di produzione) in streaming che escono dai consueti circuiti nelle sale e entrano direttamente sul divano di casa. Si sta realizzando, in questo modo, un intreccio non sappiamo ancora quanto perverso o virtuoso tra piccolo e grande schermo generando una “contaminazione” di generi, di linguaggi, dai confini molto labili.

Per quanto riguarda i nostro paese, il 2018 ha visto, per la prima volta, lo sbarco nella produzione di un film originale di Netflix  con Rimetti i nostri debiti, uscito nello scorso aprile. Con questo titolo è stato dato fuoco alle polveri di un conflitto destinato ad espandersi. Al Festival di Cannes i francesi hanno dichiarato l’ostilità frontale verso tutto ciò che non passa prima per le sale cinematografiche e non hanno ammesso in concorso nessun titolo che non presentasse questo requisito. Del tutto opposta la posizione del Festival di Venezia dove, invece, non solo sono stati ammessi in concorso, ma i titoli di Netflix hanno anche vinto prestigiosi riconoscimenti.

Firstonline ha seguito attentamente questi due importanti appuntamenti che vi riproponiamo:

Cinema: quello che vedremo e non vedremo a Cannes

Per quanto riguarda l’Italia, dopo la mancata partecipazione dei nostri film in concorso lo scorso anno, questa volta ben due partecipano per la Palma d’Oro: Dogman, di Matteo Garrore e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. Il primo è liberamente tratto da una vicenda realmente accaduta negli anni ’80 a Roma, nel pieno delle nefandezze della Banda della Magliana dove il protagonista cerca una specie di riscatto umano sociale attraverso una sua personale vendetta. Una storia torbida, cupa e violenta, come proprio avvenivano in quel periodo nella Capitale e in un quartiere che da dato il nome ad una delle saghe criminali più brutali nella storia della città. Garrone si è fatto le ossa con questo genere di pellicole ispirate al mondo della malavita più o meno organizzata: il suo Gomorra del 2008, tratto dal libro di Giorgio Saviano, ne ha segnato un punto di svolta nello stile, nel linguaggio, che successivamente sarà ripreso per molti aspetti nelle fortunata serie Tv andata in onda su Sky a partire dal 2014 e giunta ora alla terza edizione. Il regista è sensibile al mondo della televisione ed è suo un buon prodotto realizzato nel 2012: Reality, che ha pure avuto un riconoscimento proprio a Cannes.

Il secondo film in concorso si riferisce ad una storia semplice, essenziale, come in parte lo era il precedente film, Le meraviglie del 2014, firmato dalla regista toscana. L’ambiente è la sana campagna dei valori forti e primitivi dove i buoni sono buoni fino in fondo e, in questo caso il giovane protagonista vive un racconto di sincera e semplice amicizia con un suo coetaneo. In ballo ci sono i sentimenti e la Rohwacher sembra essere molto capace a maneggiare una materia molto delicata, dove è facile scadere in luoghi comuni di facile presa sul grande pubblico. Finora ha dato prova di riuscire e anche lei a Cannes, nelle edizioni precedenti ha ricevuto il legittimo riconoscimento.

Nella squadra proposta da Rai Cinema, compare anche nella sezione Un certain regard, Euforia con la firma alla regia di Valeria Golino. La storia si riferisce a due fratelli, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, che la vita rimette l’uno di fronte all’altro nella loro sostanziale diversità di scelte di vita, di ambiente sociale e culturale. Un imprenditore affermato, di successo, spregiudicato e rampante come spesso capita di vedere, e l’altro insegnante in una scuola media di provincia, piccola e semplice come il suo mondo. Anche la Golino, nel 2013 nella stessa sezione, ha ricevuto riconoscimenti con Miele, la sua prima opera cinematografica.

Il cinema italiano si completa a Cannes, nella Quinzaine des Réalisateurs, con un lavoro di Gianni Zanasi, Troppa grazia, che chiuderà la rassegna. Poi partecipa La strada dei Samouni di Stefano Savona con le animazioni di Simone Massi. Infine, il nome affermato di Marco Bellocchio con La lotta.

In verità, non si completa correttamente la squadra con i nostri colori. Infatti, al momento e salvo ripensamenti dell’ultima ora, manca Loro, l’atteso lavoro di Paolo Sorrentino, liberamente ispirato alla vita pubblica e privata di Silvio Berlusconi. Sul perché e sul percome sia stata presa questa decisione correranno fiumi di inchiostro e anche noi parteciperemo al dibattito non appena sarà possibile vederlo nelle sale. Di certo possiamo dire che il mercato del cinema non è insensibile alle vicende della politica, nazionale e non solo, e non stupisce più di tanto che sia stata operata questa scelta. A meno che non si voglia pensare che si possa trattare di una mera operazione di marketing: bene o male purchè se ne parli. Rimaniamo in attesa.

La vera, grande, assenza invece riguarda un pilastro, una icona del cinema mondiale, un capitolo fondamentale della sua storia ormai ultracentenaria: Orson Welles. E rappresenta un altro tassello della battaglia in corso tra Cannes da un lato e il gigante Netflix dall’altro. Il titolo che non vedremo sul grande schermo è The other side of the wind, girato tra il 1970 e il 1976 . È probabile invece che si potrà vedere sul piccolo schermo della televisione  una volta che i proprietari dei diritti, Netflix, deciderà di renderlo disponibile in streaming. Si tratta dell’ultimo, forse fondamentale, lavoro di uno tra i più importanti artisti del cinema dell’era contemporanea, una specie di testamento incompiuto, dove si racconta proprio di un regista alla fine della sua carriera. Vedere un film del genere sul grande schermo può fare la differenza. Come abbiamo scritto sull’argomento, questa vicenda rappresenta un segnale forte dello scontro in atto tra i mondi del cinema e della produzione/diffusione di audiovisivi attraverso la televisione. Difficile parteggiare per l’una o per l’altra parte. La suggestione del grande schermo è forte, la possibilità di vedere film dove e quando possibile non è da meno. (pubblicato il 20 aprile 2018).

Il secondo articolo è stato pubblicato il 9 maggio:

Ha avuto inizio ieri sera  la 71° edizione del Festival di Cannes con alcune significative novità. Non si sono visti i selfie sul tappeto rosso (ce ne faremo una ragione) e ai partecipanti è stato consegnato un cartoncino con l’invito ad essere corretti (era proprio necessario!) pena severe sanzioni legali mentre non sono previste conferenze stampa di presentazione dei film in concorso (potenza delle recensioni on line!).

Si parlerà molto, speriamo, del post-cinema cioè di quanto le nuove produzioni saranno più o meno destinate alle sale piuttosto che alla distribuzione in streaming come già da tempo fanno i vari Netflix, Sky, Amazon etc. con importante successo di pubblico. Infine, da notare come gli appuntamenti di questo genere, si stano orientando sempre più verso il marketing globale piuttosto che alla qualità dei prodotti: andiamo verso il fine stagione e le produzioni USA sembrano più attratte a partecipare ai concorsi autunnali – Venezia – come pure con l’occhio agli Oscar, molto lontani da Cannes.

Nel frattempo a Roma si è consumato un delitto, un atto criminale, con una vasta eco mediatica. In verità il fatto si è svolto da oltre un mese ma solo nei giorni scorsi se ne avuta notizia con la pubblicazione (o meglio con l’inserimento in rete) di un filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza di un aggressione da parte di un noto clan malavitoso romano, i Casamonica, ai danni di una donna disabile e del cameriere di un bar dove reclamavano di volere essere serviti per primi e meglio degli altri clienti. Un atto di pura barbarie, di ostentazione di forza criminale.

Cosa lega i due fatti? Quale connessione esiste tra Cannes e Roma? Il filo comune è il tema della violenza che, in questo caso, si esercita a Roma, ma potrebbe avvenire dovunque, in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo (vedi Londra proprio in questi giorni). Di violenza dura, forte, ai limiti della sopportazione, si parla proprio nel film italiano in concorso alla Croisette: Dogman, di Matteo Garrone. Viene riportata alla memoria una vicenda che ha avuto molto clamore alla fine degli anni ’80, quando Pietro De Negri, detto il “canaro della Magliana” fece letteralmente a pezzi il corpo del suo aguzzino torturatore. Dalle sequenze nei trailer che abbiamo visto del film di Garrone possiamo immaginare che non ci verrà risparmiato nulla (sarà nelle sale il prossimo 17 maggio) sul clima non solo particolare di quella storia, ma anche sul più generale argomento della rappresentazione della violenza sul grande schermo.

Il filmato di cronaca invece ha riportato facilmente alla memoria anni di produzioni televisive e cinematografiche tutte concentrate su questo tema: innumerevoli puntate di Gomorra, di Romanzo criminale, di Suburra, come pure al cinema proprio recentemente ha avuto un discreto successo il film sul criminale messicano Pablo Escobar. È stata riproposta la visione di quel mondo da tutte le angolazioni possibili e spesso ci si è interrogati su quanto, in che modo, possano avere influenzato modelli di comportamento, linguaggi, poi ripresi ad esempio dai giovani, grandi appassionati del genere.

L’interrogativo è semplice e somiglia al dilemma dell’uovo e della gallina. La televisione e il cinema rispecchiano la realtà, ne prendono spunto, riproducono fedelmente le scansioni temporali, lo spessore dei personaggi, oppure la anticipano, la sintetizzano e la ripropongono metabolizzata? Il calderone entro il quale si mescola questa dimensione e si cercano risposte è composto da un mix di potenza formidabile: la televisione, il cinema e Internet.

Difficile trovare risposte convincenti ed esaurienti. Succede spesso, anche quando si discute su un film, che si possa sostenere che la finalità del racconto visivo può anche consistere nello svelare i limiti (apparentemente infiniti) cui è capace la natura umana di esercitare violenza verso se stessa, con la speranza di poter poi sviluppare i necessari antidoti. Allo stesso modo si pone il problema quando si dibatte la questione del “diritto/dovere” di cronaca nel voler mostrare immagini cruente, nelle trasmissioni di informazione o quando si immettono nei social network.

Secondo una rilevazione Audiweb per il Sole 24 Ore “indicano in 128 i minuti passati in rete dai navigatori tra i 4-7 anni e in 214 per gli 8-14 anni mentre il 97% dei bambini italiani con età compresa tra i 4 ed i 14 anni ha seguito la programmazione televisiva nel 2016 e vi ha dedicato 208 minuti al giorno, ogni giorno dell’anno”.

Nell’antica Cina, quando i bambini si recavano a scuola per la prima volta, ricevevano come manuale Il Libro dei tre caratteri e la prima combinazione di ideogrammi che dovevano apprendere significava: la natura dell’uomo è originariamente buona.

Nonostante questa visione, più o meno condivisibile, si deve invece constatare che, nella storia dell’umanità il terreno dei comportamenti violenti e aggressivi è stato sempre arato e seminato bene e in quei solchi crescono tuttora piante avvelenate che continuano a fare vittime. Cinema e televisione appaiono però innocenti: per quanto è stato studiato e approfondito l’argomento, sembrano sempre gli esseri umani ad essere i migliori sceneggiatori delle produzioni televisive seriali o dei film di grande successo.

Per quanto riguarda invece la 75° edizione del Festival del Cinema di Venezia, è stato pubblicato il 25 agosto

Sono trascorsi cinquanta anni dal 1968. Rivediamo alcune tra le principali immagini di quell’anno: infuria la guerra in Vietnam e, in Europa e Stati Uniti, inizia la stagione della contestazione; vengono assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy; Olimpiadi, con strage di civili, a Città del Messico; le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia; viene eletto Richard Nixon e la NASA completa la missione Apollo. L’anno successivo, tra il 20 e il 21 luglio, un uomo mette piede per la prima volta sulla Luna.

Tutto questo per ricordare un importante anniversario cinematografico che, peraltro, ci introduce al tema di questo inizio di stagione: proprio nel 1968 esce nelle sale 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Non sono pochi coloro che ritengono questo film una pietra miliare, tra i capolavori assoluti nella storia del grande schermo. Il racconto, ispirato da un soggetto di Arthur C. Clarke, ci porta nella fantascienza, nei mondi dell’intelligenza artificiale (sul computer di bordo, Hal, è fiorita una ricca letteratura. Citiamo una piccola curiosità rivelata da un crittografo: le lettere che compongono questo nome sono le precedenti di IBM, il noto colosso dell’informatica che tanta parte avrà nelle missioni spaziali), nella filosofia, nella religione, nelle innovazioni tecnologiche come mai era avvenuto in precedenza nello stesso film. Il successo internazionale che il film incontrò da subito era pienamente inserito nel contesto della tensione che in quel periodo tutto il mondo stava vivendo alla vigilia dell’inizio della grande avventura umana sul satellite della Terra. Kubrick ha saputo raccogliere e amplificare a dismisura le visioni, le attese immaginifiche, e per alcuni anche le speranze, per il futuro dell’uomo nello spazio. Sceneggiatura, effetti speciali, post produzione e montaggio lo rendono certamente un film da vedere e rivedere (disponibile in DVD o Blu Ray la versione recentemente restaurata presentata a Cannes e con sequenze inedite) con un bloc notes accanto per prendere appunti.

Ancora a proposito di ricorrenze citiamo due film: il remake, ovvero un omaggio come ha dichiarato il regista, di Suspiria di Dario Argento, uscito nelle sale italiane nel 1977 e ora riproposto al festival del Cinema di Venezia (dal 29 agosto all’8 settembre) con la regia Luca Guadagnino. A quel tempo, la pellicola venne accolta con pareri discordanti dalla critica: alcuni ne apprezzarono i grandi meriti (Grazzini) altri invece la stroncarono senza pietà (Kezich). Vedremo se il regista di Chiamami con il tuo nome, che pure ha avuto tanto successo, saprà replicare le sue qualità.

Il secondo film che pure verrà presentato a Venezia nell’ambito delle proiezioni speciali è The Other Side of the Wind, lavoro incompiuto di Orson Welles. Si tratta di un’opera firmata dal grande regista americano in tarda età (riuscì a completare il girato ma non il montaggio) insieme ad altri suoi amici come John Huston, Peter Bogdanovich, Norman Foster. È un film che somiglia, per molti aspetti, a 8 e ½ di Federico Fellini, dove si racconta il declino professionale ed umano di un regista al tramonto della sua esistenza. Interessante osservare che questo titolo, e il lavoro che è stato necessario compiere per riproporlo, è stato finanziato da Netflix che avrà l’esclusiva della sua distribuzione.

Torniamo a Venezia, il più antico festival di cinema, e alle avventure spaziali: la rassegna 2018 sarà aperta proprio da un film che ci riporta allo sbarco sulla luna: Il primo uomo (First man) con la regia di Damien Chazelle con Ryan Gosling come principale protagonista. Tre i registi italiani in gara: Luca Martone con Capri-Revolution, What you gonna do when the world’s on fire? di Roberto Minervini e il già citato Luca Guadagnino con Suspiria. Il programma completo dei film, sia in concorso quanto nelle sezioni speciali, sembra racchiudere bene un vasto panorama di soggetti e proposte di grande attualità. Vengono abbracciati tutti i grandi temi oggi all’attenzione del pubblico in termini di diritti civili, politica, ambiente come pure semplice intrattenimento e grande spettacolo.

Il nostro giudizio per i migliori film del 2018 (aggiornamento al 15 ottobre) si limita a due titoli:

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The Post di Steven Spielberg e Dogman di Matteo Garrone. Il 2018 è Il 2018 è stato anche l’anno di grandi titoli del passato restaurati oppure portati a compimenti: è il caso del capolavoro di Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello spazio, come pure l’ultimo lavoro di Orson Welles, The Other Side of the Wind. Da ricordare, inoltre, il restauro de La notte di San Lorenzo, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, realizzato in collaborazione tra il Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale e l’Istituto Luce – Cinecittà. Una menzione a parte, per quanto riguarda i documentari, il titolo di Wim Wenders su Papa Francesco, pubblicato il 6 ottobre.

The Post, il nuovo capolavoro di Spielberg: è la stampa, bellezza

Ci sono grandi avvenimenti della storia sui quali non è ancora stato scritto, e chiarito, abbastanza. Inoltre, come è noto, succede che quegli stessi avvenimenti possono ripetersi come tragedia o come farsa. Nella scena internazionale e nell’era moderna, uno tra questi è la guerra in Vietnam. Un conflitto scatenato con motivazioni e ragioni complesse e non sempre condivise, a partire dal discusso episodio nel Golfo del Tonchino che ne è stato il pretesto formale (rivelatosi poi una fake news, come verrebbe oggi definita). Era una guerra necessaria? Gli Stati Uniti avevano proprio bisogno di scatenare l’inferno nel Sud Est asiatico dove hanno perso la vita centinaia di migliaia di persone? Per molti americani la risposta è positiva, per molti altri no. Tra i sostenitori del conflitto troviamo a pari responsabilità sia i democratici quanto i repubblicani, da John Fitzgerald Kennedy a Richard Nixon.

Proprio di quest’ultimo e della guerra in Vietnam si parla nel film di questa settimana, The Post di Steven Spielberg. Si tratta di una pellicola tanto attesa quanto assolutamente contemporanea per le innumerevoli analogie con quanto sta avvenendo con la presidenza di Donald Trump e con quanto avvenuto con le recenti guerre in Medio Oriente. Per fortuna dell’umanità intera, la differenza sostanziale è che non c’è una guerra in corso, anche se è difficile dimenticare le minacce di apocalisse avanzate per fronteggiare la minaccia atomica della Corea del Nord.

Per introdurre questo film, sarebbe utile poter rivedere due pietre miliari della storia del cinema giornalistico di grande utilità a comprendere la vicenda e il suo contesto. Il primo è Quarto potere, di Orson Welles del 1941, il secondo è Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula del 1972. Il primo affronta la storia di un magnate dell’editoria intenzionato a modellare l’opinione pubblica a suo piacimento, il secondo riguarda proprio le circostanze che portarono alle dimissioni di Richard Nixon nel 1974, a seguito dello scandalo del Watergate.

The Post ricostruisce i fatti che assestarono il primo duro colpo alla sua presidenza  nel 1971 e si riferisce alla pubblicazione avvenuta sul Washington Post di dossier segreti in possesso del Pentagono in grado di demolire tutta la retorica giustificazionista e svelare tutte le bugie raccontate dalle diverse Amministrazioni sul conflitto vietnamita. Steven Spielberg, nei film che ha diretto e prodotto, ha sempre evidenziato il suo spirito democratico e attento ai valori dei diritti civili. In questo caso, il regista sembra aver avvertito l’urgenza di affrontare il tema della presidenza USA per tutte le implicazioni che pone sul fronte della sua politica interna e internazionale.

Il film si svolge su due binari: il primo riguarda quanto effettivamente avvenuto dal momento in cui il giornale inizia ad affrontare il problema di pubblicare o meno i documenti segreti sulla guerra del Vietnam  (che terminerà, sostanzialmente, con l’evacuazione dell’ambasciata Usa di Saigon nel 1975) e il secondo riguarda il ruolo, il peso, la responsabilità della stampa nei confronti delle Istituzioni. Il primo aspetto si riferisce ad una gloriosa quanto fondamentale tradizione del mestiere di giornalista: l’inchiesta, la ricerca di fatti distinti dalle opinioni, l’indagine fondata sulle verifica e il controllo delle fonti. In poche parole, si tratta dei principi fondamentali di un lavoro indispensabile per la crescita sociale, politica e culturale di un Paese. Per quanto riguarda invece il secondo filone invece il film ci racconta anche un sistema di relazioni tra stampa, poteri economici e politici non sempre trasparenti.

L’enfasi del racconto cinematografico è sul coraggio dei due protagonisti, Meryl Streep in stato di grazia e Tom Hanks in una delle sue migliori interpretazioni (candidati all’Oscar), nel decidere di pubblicare i documenti top secret che inchiodano tutti i vertici politici e militari USA nella conduzione della guerra “… utile al 70% solo a salvaguardare la reputazione“. Il valore assoluto della libertà di espressione, garantito nelle Carte Costituzionali della maggior parte dei paesi democratici, dovrebbe da solo essere sufficiente a fronteggiare il potere di chi governa rispetto a chi è governato e, in questa chiave, la vicenda dei Pentagon Papers trova la sua soluzione. Ma la storia prosegue in altra forma e il film si conclude laddove, appunto, la parabola di Nixon inizia il suo declino.

The Post merita attenzione non solo per le qualità che gli vengono dalla regia collaudata e sempre di sicuro effetto di Steven Spielberg, ma anche perché induce a riflettere in profondità sul nostro tempo, sulla delicatezza e fragilità dei sistemi politici e sociali dove la verità non è sempre al centro delle attenzioni di chi governa. Chiunque sia stato, anche solo marginalmente, vicino oppure addentro alla professione di giornalista può ben comprendere quanto possa essere professionalmente appagante scrivere un articolo anzitutto utile ai lettori per comprendere i fatti, sapere come stanno effettivamente le cose e, infine, decidere quale debba essere la propria opinione. Questo film, per certi aspetti, racconta questa lezione. Peccato, però, che spesso è facilmente dimenticata.

(pubblicato il 3 febbraio 2018)

Dogman, il canaro della Magliana secondo Garrone

Al cinema il barile della violenza non è stato mai raschiato fino in fondo. Non ci è stato risparmiato nulla: nefandezze e cattiverie di ogni genere, sangue a fiumi, torture raffinate quanto crudeli. Eppure, al termine di ogni visione si usciva sempre un po’ sollevati pensando che tutto quello che abbiamo visto sullo schermo non ci appartiene perché troppo lontano nel tempo, nello spazio fisico e mentale. Oppure, semplicemente, perché tutto il male che si è visto non è parte di noi, perché siamo diversi, siamo sostanzialmente buoni. Pensavamo di essere vaccinati, cinematograficamente parlando, e invece no, questa volta non è così.

Parliamo di Dogman, ultimo lavoro di Matteo Garrone, premiato al Festival del cinema di Cannes. Il film prende liberamente ispirazione da una vicenda realmente accaduta a Roma nel 1988. Un tosatore di cani, vittima di angherie e soprusi fisici e psicologici da parte di un pugile dilettante, lo scherano del quartiere, dopo l’ennesima violenza reagisce e si fa giustizia da solo. Lo spunto narrativo funziona perfettamente nel ricostruire e descrivere le vicende umane, l’ambiente e il contesto sociale, urbano e degradato, dove queste avvengono. Anzitutto le persone, gli attori: Marcello Fonte e Edoardo Pesce. Il primo nelle vesti di Marcello, e il secondo in quelle di Simone, il carnefice. Fonte, premiato come miglior attore al Festival del cinema di Cannes, è due spanne sopra la media: la sola sequenza finale, quando rimane muto di fronte alla cinepresa per alcuni minuti è una prova di capacità attoriale come raramente si vede sugli schermi nazionali.

Pesce non è da meno e riesce a proporre del proprio personaggio l’uno e il suo doppio. Si farebbe un torto a non ricordare tutti, comprese le comparse e i figuranti, che insieme compongono un affresco di umanità che rimane impresso. Un cenno particolare merita la fotografia, firmata da Nicolaj Brüel. Le inquadrature e la gamma cromatica, seppure rendono pienamente e correttamente la drammaticità della vicenda, appaiono per molti aspetti come già viste. Si sentono e si vedono anni di Gomorra, di Romanzo criminale, delle varie suburre non solo romane che hanno costellato il cinema e la televisione degli ultimi anni. Del resto, il dramma raramente avviene alla luce del sole (almeno sul grande schermo) e quindi in Dogman tutto si dipana tra i grigi scuri della notte, della pioggia, di ambienti fatiscenti.

È non film che non lascia indifferenti, colpisce duro e dritto al cuore di tanto buonismo che spesso maschera finzione e ipocrisia. Garrone il cinema lo sa fare e, in questo caso, la fa molto bene scegliendo dosando tutti gli ingredienti in modo corretto ed equilibrato. Lo stesso senso morale della storia appare impostato correttamente. Marcello ha cercato la giustizia e non la vendetta e, seppure a modo suo, l’ha trovata e, forse quando questa si è realizzata, non è sembrato più nemmeno tanto convinto di aver fatto il giusto. Ha cercato solo una sua forma di riscatto sociale da una ambiente dove ormai era tagliato fuori.

La storia vera è andata in tutt’altro modo: Pietro De Negri, il vero “canaro” della Magliana, come ha dichiarato successivamente al suo arresto, non si è mai pentito di quello che ha fatto. Il regista, per molti aspetti, ha alleggerito il carico di brutalità, di efferata violenza emersa in quelle circostanze. Ha fatto bene, per quello che abbiamo visto, ci è sufficiente. Il film merita ampiamente un legittimo riconoscimento non solo a Cannes: con i tempi che corrono per il cinema italiano sembra quanto di meglio possiamo offrire anche sulla scena internazionale.

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