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Venier (Hera): “L’acqua è occasione di sviluppo. Tre idee per uscire dall’emergenza”

Acqua, siccità, caldo torrido. L’estate 2017 si ricorderà anche per questo mix da bollino rosso che ha riportato a galla problemi antichi: la tenuta dei sistemi idrici, gli investimenti infrastrutturali non fatti, il rischio di razionamento dell’acqua a Roma, caso unico di una capitale in deficit che da un lato consuma più del dovuto e dall’altro non provvede a rendere sostenibile la sua sete. Ma è davvero solo “emergenziale” la gestione dell’acqua in Italia? Perché? E cosa si può fare per risolvere i nodi storici di un settore che sempre più sta diventando il nuovo petrolio su cui attrarre investimenti, muovere la finanza e generare sviluppo?

Lo abbiamo chiesto a Stefano Venier, amministratore delegato del gruppo Hera, la multiutility partita dall’Emilia Romagna e cresciuta in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Marche per produrre, vendere e distribuire elettricità, gas e acqua e per gestire i rifiuti. L’assetto azionario è per metà in mano ai Comuni delle aree servite e per l’altra metà sul mercato, con una presenza qualificata di investitori istituzionali italiani ed esteri. Proprio nell’acqua Hera è il secondo operatore in Italia dopo Acea e prima di A2A e Iren, serve un bacino di 3,6 milioni di abitanti, fattura 300 milioni di metri cubi l’anno e nel Report di R&S Mediobanca sulle utility locali è in testa alla classifica nazionale per utili e redditività. Un polo di eccellenza con 1,2 miliardi di investimenti in dieci anni nel sistema idrico e un’esperienza che consente una visuale non soltanto aziendale sul tema più “caldo” dell’estate, quello appunto della gestione dell’acqua.

Venier lancia tre proposte, in questa intervista a FIRSTonline, per dare una svolta e accelerare il rinnovamento indispensabile del settore. Ma, anche, rassicura: “Garantire la continuità delle forniture e la gestione efficiente è più che possibile e noi ne siamo la testimonianza. Ma occorrono dimensioni adeguate, tecnologie  e una regolazione che premi gli operatori che garantiscono prestazioni migliori”. Ecco dunque il testo dell’intervista.

Acquedotti colabrodo e interventi in emergenza: il 90%, in media nazionale, risulta non programmato. Sono dati dell’Autorità per l’energia e il sistema idrico. A fronte di situazioni virtuose ce ne sono altre come Roma o Agrigento che preoccupano l’opinione pubblica. L’acqua è ancora un’”arma” per la ricerca di consenso politico. Perché è un problema in Italia?

“L’acqua è stata per troppo tempo un’arena per conquistare consenso attraverso l’uso strumentale delle tariffe con il conseguente blocco degli investimenti, per non parlare del fuorviante dibattito sull’acqua pubblica. Ora ci ritroviamo un’Italia con il 60% della rete che ha più di 30 anni e paghiamo le conseguenze di questo deficit strutturale. Va detto però che se l’acqua è un problema in alcune aree, in altre è un’opportunità, una leva per migliorare la qualità dell’ambiente e la messa in sicurezza del territorio considerato che quando parliamo di acqua non dobbiamo pensare solo alla gestione degli acquedotti per l’uso civile ma anche per l’agricoltura che assorbe il 60% dei consumi e per l’industria (20%).

Il tema è fortemente collegato allo sviluppo: l’industria turistica, per fare un esempio, non può permettersi di rischiare la continuità della fornitura idrica. E la continuità si garantisce con strumenti come il Water safety plan, introdotto dalla Ue e recepito dall’Italia che noi già utilizziamo e che ora tutte le aziende del settore dovranno adottare. Si tratta di piani per la messa in sicurezza della rete idrica individuando soluzioni per la riduzione del rischio. Noi abbiamo puntato sull’interconnessione delle reti, il telecontrollo, il monitoraggio via satellite, misure per migliorare l’assorbimento di energia necessaria alla gestione delle reti. Così Hera ha ridotto del 50% il rischio di fabbisogno mancante”.

Giovanni Vallotti, presidente di A2A e di Utilitalia, ha detto pochi giorni fa in Parlamento che al tasso attuale di realizzazione serviranno 250 anni per sostituire tutte le reti idriche italiane e che con le attuali tariffe “gli investimenti che possiamo permetterci sono esattamente la metà di quelli che sarebbero necessari”. In verità l’Authority ha iniziato ad aumentare le tariffe, ma può bastare?

“L’Autorità ha creato condizioni di stabilità e programmabilità. E’ un fatto molto positivo e non a caso si vede la ripresa degli investimenti almeno per quei gruppi che hanno dimensioni, conoscenze e capacità necessarie a realizzarli”.

E qui veniamo ad uno dei grandi colli di bottiglia nel Paese degli 8 mila Comuni: la frammentazione. In Italia 4 grandi gruppi – Acea, Hera, Iren e A2A – guidano il settore, il resto è in mano a migliaia di piccole gestioni locali. E’ un fattore di arretramento?

“La frammentazione è certamente un fattore di arretramento. Dibattiamo del problema della siccità e di Roma ma in realtà prima ancora che della penuria d’acqua il Paese soffre per il problema della depurazione con il 20% del contenuto organico degli scarichi che finisce ancora non trattato nei fiumi e in mare. E’ questo il problema più grave per il quale siamo sotto diverse, e costose, procedure d’infrazione europee.

Bisogna allora comprendere che il settore della gestione delle acque è un settore ad alta intensità di capitale e che la dimensione industriale è necessaria per garantire la performance e per affrontare impegnativi e innovativi piani di investimento che una piccola azienda non può in nessun caso affrontare. Per fare degli esempi: Hera, con Comune e Regione, ha varato un piano decennale da 150 milioni per la balneazione a Rimini, già attuato per un terzo del valore; e stiamo realizzando a Trieste un depuratore del costo complessivo di 50 milioni. Sono due progetti all’avanguardia in Europa.

E’ tutto un insieme di competenze – ingegneristiche, tecnologiche, amministrative – che viene messo in campo anche perché si tratta di progetti che richiedono impegni pluriennali e che vengono ripagati con aumenti tariffari necessariamente spalmati nel tempo. Resta il fatto che le tariffe italiane sono tuttora circa la metà di quelle francesi e un terzo di quelle tedesche e ciò toglie risorse”.

Quindi le tariffe sono un freno?

“Le tariffe sono in parte un freno, onestamente meno per le grandi aziende,  noi investiamo 40 euro per abitante l’anno, ancora meno di alcuni paesi europei, ma contro una media nazionale di circa 27 euro. Il vincolo esiste ma riguarda innanzitutto realtà locali definite. In ogni caso ci sono tre possibili strumenti per superare i vincoli e rilanciare gli investimenti”.

Quali?

“Il primo: sarebbe utile adottare una tariffa unica nazionale, come per l’elettricità. Metterebbe fuori gioco le società che oggi tengono basse le tariffe usando il blocco degli investimenti. Il secondo è un ulteriore enforcement dell’Autorità dell’Energia nei confronti degli Ega locali, gli enti degli ambiti territoriali ottimali: ancora 13 Ato su 92 non sono stati costituiti in Calabria, parzialmente in Sicilia e Campania a danno dell’intero sistema. Il terzo passo riguarda il sistema regolatorio: va rafforzato il meccanismo che premia le aziende che danno prestazioni migliori. Tutto ciò nella consapevolezza che la ripresa degli investimenti privati consente di valorizzare al meglio anche quelli pubblici che vengono messi in sicurezza all’interno di un programma unico e ben fatto”.

Il consolidamento del mercato porterebbe vantaggi dimensionali evidenti ma non avanza. Resterà un miraggio? Perché?

“Alle misure di cui abbiamo appena parlato, si dovrebbe aggiungere una riflessione sulla definizione degli ambiti territoriali minimi e lo spazio alle piccole società in house che poi affondano. L’ultimo decreto della riforma Madia per la pubblica amministrazione, quello che disciplinava i servizi pubblici locali, aveva avviato un percorso ma è stato in parte bocciato dalla Corte Costituzionale e ciò ha rallentato le integrazioni.

Come gestire i servizi pubblici? Se si scegliesse la dimensione sovra-provinciale, gli Ato scenderebbero da 92 almeno a una cinquantina; se invece si scegliesse la dimensione regionale, si arriverebbe a 20. Oggi Acea ha una quota di mercato del 12%, Hera arriva al 7 per cento; A2A, Iren, CAP e Smat Torino fanno insieme il 10% del mercato. In sostanza i primi 6 operatori controllano il 30% del sistema delle acque ma il 70% è diviso tra un migliaio si operatori di portata comunale o poco più. Troppi”.

Venendo a Hera: siete presenti in quattro regioni, secondo operatore idrico nazionale. Quali sono i vostri volumi, quanto investite e con quali risultati?

“Oltre alle cifre che già abbiamo indicato, ricordo che Hera gestisce 35.000 km di condotte idriche, dispone di 400 impianti per la depurazione e potabilizzazione delle acque, coprendo tutti i comparti di attività. In dieci anni abbiamo investito oltre 3 miliardi, includendo anche l’energia,  e nell’acqua circa un terzo di questi. Dopo la quotazione in Borsa ci siamo dati delle priorità. Puntare sul rinnovo e lo sviluppo della dotazione infrastrutturale e impiantistica: il 60% della spesa ha riguardato l’area fognaria-depurativa e l’Emilia Romagna è oggi la sola regione esente da procedure d’infrazione su questo tema. Non solo, ma tutto questo ha rappresentato un elemento di valore nella competizione tra territori per attrarre investimenti. Non è un caso che Philip Morris abbia aperto uno stabilimento a Bologna”.

E dal punto di vista della riduzione delle perdite di rete?

“La media nazionale sulle perdite di rete è al 39%, noi siamo scesi al 29%, quindi circa un quarto in meno. Il risultato è frutto di investimenti in tecnologie innovative: il nostro sistema di telecontrollo monitora l’intera rete 24 ore su 24 con una centrale operativa degna della Nasa. E’ il più grande d’Italia. A completamento, dal 2016 utilizziamo anche un sistema di scansione satellitare per la ricerca di perdite occulte fino a 3 metri di profondità. Sono interventi che una piccola azienda non potrebbe sostenere”.

Hera è arrivata in Borsa nel 2003. Il 49,6% è in mano a 118 enti locali del territorio, ha introdotto un tetto del 5% sui diritti di voto per i privati, ha una governance che ricorda la public company, ha superato il nodo della frammentazione territoriale e garantisce dividendi passati da 5,3 centesimi il primo anno a 9 centesimi oggi. Cosa tiene uniti gli azionisti di controllo rispetto alla tradizionale rivalità dei Comuni?

“Credo innanzitutto l’esperienza di successo e la condivisione del progetto. I risultati ottenuti, la crescita costante e stabile e il dividendo credo siano ulteriori fattori di coesione. Anche A2A e Iren sono altri esempi di come sia possibile creare realtà industriali importanti senza perde l’aggancio con il territorio”.

E’ un’esperienza replicabile, vista la necessità di cui parlavamo di superare la frammentazione in Italia?

“Pensare di replicare mi sembrerebbe tardivo. Si possono però usare soggetti come Hera quali catalizzatori per i processi di aggregazione. Partire da una piattaforma solida e sperimentata è un grande vantaggio e consente un effetto di amplificazione enorme”.

Per concludere, cosa fa la differenza tra un gestore e l’altro: la qualità del management o la stabilità dell’azionariato?

“Entrambe sono due condizioni necessarie ma non sufficienti. E’ indispensabile avere anche un progetto industriale e strategico che sappia guardare avanti. E per concludere mi piace sottolineare che settore delle multiutility è tra i più importanti in Italia, non solo perché diamo servizi essenziali ma anche per il sostegno dato al Paese e al suo sviluppo con un flusso di investimenti costante, anche negli anni difficili della crisi. Un po’ di attenzione e riconoscimento gioverebbe”.

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