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Venezia, Brunetti: “Il modello basato sul turismo va cambiato”

Imagoeconomica

“Il pendolo tra valorizzazione e salvaguardia va riportato verso la salvaguardia”. Soprattutto, “il modello economico che si è imposto, basato sul turismo, compreso quello mordi e fuggi, è incompatibile con l’equilibrio della laguna e con l’unicità di Venezia”.

Giorgio Brunetti, con i toni gentili e rispettosi di sempre, è molto schietto nell’indicare la via per evitare la morte di Venezia. Professore emerito di Strategia e politica aziendale alla Bocconi, veneziano DOCG, curiosità e intelligenza da giovane 82enne, Brunetti ha da molto tempo elaborato un’analisi originale delle caratteristiche distintive di Venezia. Da cui occorre partire per costruire l’agenda delle cose da fare. 

Cosa rende Venezia unica al mondo?

“Prima lasciami dire che nel dilemma tra valorizzazione e salvaguardia bisogna ridare importanza alla seconda. E questo comporta di cambiare il modello economico incentrato sul turismo.

Infatti, Venezia fonda la sua unicità su tre elementi: il patrimonio artistico immenso, con chiese, musei, monumenti; il paesaggio, che vuol dire la laguna tutta; e una mobilità che è quella medioevale, perché ci si sposta a piedi o in barca”.

Il primo non ha bisogno di molte spiegazioni.

“Sì, ma anche qui c’è una tipicità veneziana. La presenza di molte fondazioni, che si prendono cura del patrimonio. Una realtà che non esiste in altre città d’arte”.

Più intrigante è il secondo: il paesaggio.

“Certo. La laguna è importante e si connette al patrimonio artistico perché gli conferisce una coloritura con una serie di nuance che cambiano con l’ora del giorno, la stagione, la presenza in cielo di nuvole, il vento. Ma la laguna ha un altro aspetto importante: è una realtà instabile. Questo è sempre stato chiaro ai veneziani. Il Magistrato alle acque nel Cinquecento diceva che c’erano tre pericoli per la laguna e quindi per Venezia. Il primo è che si insabbi, a causa del deposito dei materiali portati dai fiumi, che sono stati perciò deviati. Il secondo è che sia invasa dal mare”.

E il terzo pericolo?

“L’uomo, con i suoi interventi e le sue attività. Fino alla fine dell’Ottocento le attività umane erano state compatibili con il mantenimento del delicato equilibrio della laguna. Pensa che il pescaggio alle bocche di porto, ossia ai punti di collegamento tra la laguna e il mare, era allora di qualche metro, perché ai bastimenti era sufficiente per navigare”.

Pescaggio che è ora di oltre dieci metri per le petroliere e le navi portacontainer.

“La modernità ha deturpato il paesaggio. La navigazione a vela e i piroscafi non erano squilibranti. Mentre le grandi navi non sono compatibili con la laguna. Si pensa che Venezia sia un porto naturale. Ma non lo è. Lo era, appunto, per i natanti che pescavano poco. Il “canale dei petroli“ era stato scavato per consentire l’ingresso delle navi, prima quelle che portavano materie prime da lavorare a Marghera e poi quelle commerciali (portacontainer) ma è stato pure il veicolo mediante il quale il mare è entrato in laguna. È un tema delicatissimo su cui si discute molto, perché rompe l’ecosistema. Ci si preoccupa che il porto non ne soffra. E qua torna il discorso iniziale della convenienza economica contrapposta alla salvaguardia”.

E la terza caratteristica, del muoversi come nel Medio Evo?

“Comporta un modello di vita diverso dal resto del mondo. E rappresenta un elemento di preoccupazione, perché sta subendo l’effetto mostruoso del turismo. Non solo il turismo stanziale (arrivo e mi fermo un paio di giorni) ma anche di quello “mordi e fuggi”, escursionistico. Che è figlio dell’attrazione del marchio Venezia. Venezia ha sempre attratto visitatori nella sua storia. Ma adesso è diventata una moda di massa solo per dire: a Venezia ci sono stato anch’io. E questo tipo di turismo, quello escursionistico, ha imposto modelli commerciali rivolti essenzialmente a questa categoria di persone. Consuma la città. In ogni dove ci sono folle di turisti che rendono difficile la vita ai veneziani, generando fastidio. È un turismo onnivoro, è una lebbra.

I veneziani mettono a reddito le loro case, i negozi tradizionali scompaiono a causa degli affitti sempre più elevati, si diffondono i negozi di chincaglierie veneziane, di maschere carnevalesche, di street food, che sono ormai in ogni dove e hanno subito danni enormi dalle alte maree di questi giorni. I turisti escursionistici, poi, che alloggiano in terraferma, dove è stato appena costruito un polo alberghiero vicino alla stazione ferroviaria di Mestre, intasano i mezzi di trasporto pubblico e creano non pochi problemi dal punto di vista della mobilità agli abitanti”.

Insomma, più che una città d’arte Venezia è diventata un parco a tema.

“Sì, una specie di Disneyland. Si sente dire che si vive sempre più di turismo e che questo è il grande futuro. Ho seri dubbi. Se crollasse la Basilica di San Marco verrebbero pure a vedere le rovine. Questo modello economico è onnivoro”.

Quale può essere il futuro di Venezia?

“Occorre ripopolarla. Attrarre persone che vivano in città, giovani, start up, creativi. Se non ha alternative al turismo diventa una città perduta. Non penso che il referendum sulla separazione dalla terraferma risolverebbe qualcosa. Una realtà che ha avuto successo è la Biennale di Paolo Baratta, che ha dato origine ad attività di formazione, nel cinema e nel teatro, oltre a rilanciare l’istituzione a livello internazionale”. 

E sul MOSE?

“Il MOSE è la metafora dell’Italia: un’opera incompiuta dopo tanti anni di lavori. Molto discussa fin dall’inizio. Naturalmente oggi i punti interrogativi sono aumentati, con gli effetti del cambiamento climatico. Ma è sperabile che il MOSE funzioni. Peggio del peggio sarebbe lasciarla incompiuta. Anche perché ha comportato interventi pesanti sulla laguna. Ora va completata e fatta funzionare. Anche se rischia di essere molto utilizzata per l’intensificarsi degli effetti del cambiamento climatico, creando problemi alla portualità”.

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Bisognerebbe spostare il porto fuori dalla laguna.

“Per farlo occorre passare da una visione localistica a una più ampia e generale. Siamo in cul de sac, perché la visione localistica è quella degli interessi anche e soprattutto di tantissimi piccoli operatori, una folla che fa pressione politica”.

Alcuni dicono che bisogna fare come gli olandesi.

“Il modello olandese non c’entra nulla. Costruire una diga fissa significa far morire la laguna, farla diventare una cloaca. Però dagli olandesi dobbiamo imparare velocità ed efficienza. Ma qui rientriamo nel discorso dei mali che affiggono l’Italia: la burocrazia e la corruzione”.

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