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Trump in manovra per consolidare il controllo repubblicano sul Congresso

Di Martin Falbisoner - Opera propria, CC BY-SA 3.0 Wikimedia Commons

Domenica 3 agosto più di cinquanta deputati democratici della Camera dell’assemblea legislativa del Texas hanno lasciato il loro Stato con l’intenzione di non farvi ritorno per un paio di settimane, cioè fino a quando non si chiuderà la sessione parlamentare in corso nella capitale Austin.

Il governatore repubblicano, Greg Abbott, ha addirittura minacciato di farli arrestare se non rientreranno in Texas prima che il Parlamento statale aggiorni i propri lavori.

La loro assenza, infatti, fa mancare deliberatamente il numero legale alla Camera dello Stato – stabilito in almeno 100 deputati su un totale di 150 membri – e, di conseguenza, impedisce l’approvazione di un disegno di legge, già passato al Senato, che modifica la configurazione dei collegi per l’elezione dei rappresentanti del Texas alla Camera federale di Washington in base a un piano volto a favorire la vittoria di un maggior numero di candidati repubblicani nelle consultazioni che si terranno nel 2026.

Il progetto prevede l’accorpamento di distretti di deputati democratici in carica, l’unione di collegi i cui seggi sono al momento detenuti da democratici a circoscrizioni dove i votanti di orientamento repubblicano sono in larga maggioranza nonché la formazione di nuove ripartizioni in zone dove gli elettori repubblicani sono egemoni.

Oggi il partito del presidente Donald Trump controlla 25 dei 38 seggi del Texas alla Camera. Se fosse varata la riforma rimasta bloccata ad Austin, la delegazione repubblicana a Washington potrebbe salire a 30 deputati.

La mappa delle circoscrizioni elettorali come terreno di scontro tra i partiti

A chiedere insistentemente ai repubblicani del Texas di ridefinire la conformazione territoriale dei distretti elettorali del loro Stato per la Camera dei Rappresentanti di Washington è stato Trump in persona.

Al momento il partito repubblicano dispone di una maggioranza estremamente contenuta nel ramo basso del Congresso, la più risicata dai tempi della settantaduesima legislatura (1931-1933): appena sette seggi, cioè 219 contro i 212 controllati dai democratici (altri quattro seggi sono vacanti per dimissioni o decessi degli eletti).

Le consultazioni di metà mandato (mid-term elections), che si terranno l’anno prossimo, comportano il rinnovo dell’intera Camera, oltre che di un terzo del Senato. Con pochissime eccezioni, in questo genere di elezioni il partito che controlla la presidenza subisce una contrazione dei seggi al Congresso a causa di un senso di delusione e di scontento fisiologici di una parte dei propri votanti nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca, che quasi mai riesce a mantenere tutte le promesse fatte nella campagna che lo ha portato a sedersi nello Studio Ovale.

Quindi, in considerazione dello scarso vantaggio di cui gode sui democratici, è prevedibile che il partito repubblicano perda la maggioranza alla Camera nel 2026, uno sviluppo che metterebbe a rischio l’attuazione dell’agenda legislativa di Trump negli ultimi due anni della sua presidenza.

Un efficace antidoto a questo esito è appunto modificare l’assetto delle circoscrizioni della Camera in Stati come il Texas, dove i repubblicani sono complessivamente la forza politica maggioritaria, in modo da massimizzare il loro seguito elettorale e conseguentemente aumentare i seggi che potrebbero conquistare nel 2026.

Se la manovra in corso nel Texas andasse in porto, attraverso una semplice operazione di manipolazione geografica dei collegi il partito di Trump porterebbe a casa un numero di scranni alla Camera pari quasi al suo attuale margine di maggioranza.

Altri Stati egemonizzati dai repubblicani – in particolare, Florida, Indiana, Missouri e Ohio – si stanno preparando per seguire l’esempio del Texas. Ovviamente, il partito democratico ha già pronte le sue contromosse.

Non si tratta solo della strategia “aventiniana” dei legislatori del Texas, trasferitisi temporaneamente soprattutto in Illinois, Massachusetts e nello Stato di New York per far saltare il quorum alla Camera di Austin e impedire così l’attuazione del piano voluto da Trump.

Il governatore democratico della California, Gavin Newsom, ha già ipotizzato un’analoga ridefinizione della mappa dei collegi elettorali del proprio Stato per compensare i seggi che i repubblicani potrebbero conseguire in Texas o altrove.

Del resto, in un passato recentissimo il partito democratico ha già tratto benefici dall’aver disegnato a proprio vantaggio i collegi della Camera in alcuni Stati. Per esempio, nelle elezioni dello scorso anno Trump ha conseguito il 43,5% dei voti in Illinois, ma i repubblicani hanno conquistato solo tre dei diciassette seggi di questo Stato, cioè appena il 17,6% delle circoscrizioni. Addirittura in Nevada il tycoon si è imposto su Kamala Harris con il 50,6% dei voti, ma i democratici si sono aggiudicati ben tre dei quattro seggi della Camera.

Secondo una simulazione dell’autorevole settimanale britannico “The Economist”, se entrambi i partiti procedessero a una radicale modifica della configurazione dei collegi della Camera di Washington negli Stati dove ciascuno domina, la partita si concluderebbe in sostanziale parità a livello nazionale, con i democratici che si affermerebbero in 35 nuove circoscrizioni e i repubblicani in 34 nelle elezioni di mid-term del 2026.

L’esito ultimo di questo sviluppo, però, sarebbe una considerevole riduzione del numero dei distretti competitivi e l’aumento di quelli in cui potrà essere dato per scontato in partenza chi sia il vincitore, creando un deterrente alla partecipazione al voto.

La necessità di ridisegnare periodicamente le mappe dei collegi della Camera federale

Dal 1929 la Camera dei Rappresentanti di Washington è composta da un numero fisso di seggi, che sono distribuiti tra i cinquanta Stati dell’Unione in proporzione agli abitanti di ciascuno e sono assegnati in collegi uninominali con il sistema maggioritario. Poiché l’entità della popolazione varia nel tempo, i censimenti che si svolgono ogni dieci anni – l’ultimo è stato effettuato nel 2020 – comportano una riassegnazione dei seggi ai diversi Stati.

Per esempio, tra il censimento del 2010 e quello del 2020, la diminuzione dei residenti del West Virginia e l’incremento di quelli della Carolina del Nord ha comportato che la prima ha perduto un seggio e la seconda ne ha guadagnato uno.

Il problema non sussiste, invece, per il Senato federale perché ogni Stato ha diritto a due rappresentanti nel ramo alto del Congresso a prescindere da qualsiasi considerazione di natura demografica.

A loro volta, le variazioni del numero dei seggi di uno Stato alla Camera implicano pure una modifica dell’estensione territoriale dei collegi, anche alla luce del fatto che ogni circoscrizione deve contenere per legge un’entità comparabile di votanti. Fatto salvo quest’ultimo vincolo, sono i singoli Stati a stabilire come tracciare i collegi elettorali dei seggi di propria competenza alla Camera dei Rappresentanti.

Disegnare queste mappe, però, non è un’operazione politicamente neutra, perché il modo in cui vengono configurate può influenzare il risultato del voto in ciascuna circoscrizione. II partito che è in maggioranza in uno Stato generalmente ne approfitta per trarne vantaggi nelle elezioni successive.

I principali metodi per raggiungere tale scopo sono sostanzialmente due: raccogliere in pochi collegi il maggior numero di elettori del partito che si vuole penalizzare in maniera che i votanti dell’altro predominino nettamente in tutti i distretti restanti (packing) oppure diluire il seguito della formazione politica che si intende danneggiare, sparpagliando i suoi elettori potenziali nel maggior numero possibile di circoscrizioni così che non prevalgano in nessun collegio (cracking).

Tali operazioni sono agevolate dal fatto che, per votare, negli Stati Uniti è necessario registrarsi nelle liste degli elettori, con la possibilità di indicare quale sia il proprio partito. Quest’ultima indicazione non è obbligatoria e può sembrare una violazione della privacy, ma serve per poter partecipare alle primarie della formazione in cui ciascun elettore si riconosce.

Il metodo della salamandra

Il riconfigurare i collegi per interesse di partito non è un fenomeno nato con Trump, ma è una pratica vecchia di oltre due secoli perché risale all’inizio dell’Ottocento. Il termine inglese che indica la strategia di modificare le mappe dei distretti elettorali per favorire una delle due principali formazioni politiche è gerrymandering.

La parola fa riferimento a Elbridge Gerry, un governatore del Massachusetts, che nel 1812, a seguito del censimento del 1810, promulgò una legge che definiva le nuove circoscrizioni dello Stato in modo da avvantaggiare sfacciatamente il partito repubblicano-democratico al quale egli stesso apparteneva.

La configurazione artificiosa di uno dei collegi scaturiti da questa operazione ricordava la forma di una salamandra (salamander in inglese). I suoi avversari politici la ribattezzarono sarcasticamente gerrymander (l’espressione apparve per la prima volta sul giornale “Boston Gazette” il 26 marzo 1812) e la crasi con il cognome del governatore, per stigmatizzare in modo ironico la responsabilità di Gerry, fu successivamente estesa a questo tipo di pratica in generale, che divenne pertanto nota come gerrymandering.

L’elemento di novità emerso con Trump e con il contributo del tycoon a trasformare la dialettica del confronto tra i partiti in uno scontro tra repubblicani e democratici del tipo muro contro muro è dato dalla constatazione che, rispetto al passato, è definitivamente caduto il pretesto della redistribuzione dei seggi tra gli Stati dopo i censimenti decennali della popolazione per giustificare i cambiamenti nell’assetto dei collegi della Camera.

Il Texas, infatti, aveva già ridisegnato i propri distretti nel 2021, per tenere conto del risultato del censimento del 2020 che aveva aumentato da 36 a 38 i seggi dello Stato nel ramo basso del Congresso. Oggi, soprattutto i repubblicani, come nel caso del deputato Richard Hudson della Carolina del Nord, ammettono apertamente che le modifiche alla configurazione dei collegi sono finalizzate ad accaparrarsi più seggi dell’altro partito.

Esiste, però, un precedente in proposito, proprio nello Stato che è al centro della corrente controversia. Nelle elezioni del 2002, per la prima volta da oltre un secolo, il partito repubblicano conquistò la maggioranza sia alla Camera sia al Senato nell’assemblea legislativa del Texas.

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Così, senza aspettare l’esito del successivo censimento decennale della popolazione, che si sarebbe svolto nel 2010, decise di procedere a rielaborare le mappe dei collegi già nel 2003. Anche allora i legislatori democratici se ne andarono dal Texas per far mancare il numero legale, ma dopo settimane di assenza vi fecero ritorno, soprattutto per esigenze familiari, finendo per permettere il varo della modifica delle circoscrizioni.

Il gerrymandering ad personam

Uno degli attuali membri democratici alla Camera di Washington in rappresentanza del Texas, il cui seggio potrebbe essere messo a rischio dalla ridefinizione dei distretti dello Stato, è Al Green, balzato agli onori delle cronache lo scorso 4 marzo per aver ripetutamente interrotto il discorso sullo stato dell’Unione di Trump, diventando all’istante uno dei “nemici” di The Donald.

Espulso dall’aula per aver dato del bugiardo al presidente in diretta televisiva, una misura punitiva di cui non si ricordano precedenti, il malcapitato deputato texano è stato poi il destinatario di una mozione di censura, approvata appena due giorni dopo, il 6 marzo, dalla maggioranza repubblicana per il suo comportamento.

Nondimeno, la storia della Camera non manca di precedenti forme di gerrymandering ad personam per ragioni politiche o razziali. Un esempio paradigmatico è quello del deputato italoamericano Vito Marcantonio di New York, l’unico membro del Congresso di orientamento comunista nella storia degli Stati Uniti.

Sostenitore dell’indipendenza di Portorico da Washington, fautore di programmi di welfare a beneficio dei meno abbienti e oppositore dell’intervento statunitense nella guerra di Corea, nel 1950 Marcantonio perse il seggio a cui era stato eletto sette volte, dopo che il suo collegio di East Harlem, abitato in prevalenza da italoamericani, portoricani e afroamericani di classe operaia, fu fuso con la circoscrizione di Yorkville, dove vivevano in prevalenza persone di ceto medio e di ascendenza tedesca e irlandese.

Un caso analogo, ma con un esito opposto, si verificò in Georgia. Nel 1992 la democratica Cynthia McKinney divenne la prima donna afroamericana a conquistare un seggio alla Camera di Washington in rappresentanza della Georgia.

Ci riuscì anche grazie al fatto che la sua circoscrizione era costituita per circa il 60% da elettori afro-discendenti. Un ricorso alla Corte Suprema da parte di votanti e potenziali candidati bianchi che si sentivano discriminati per la composizione razziale del collegio provocò la ridefinizione della mappa del distretto.

Il nuovo assetto della circoscrizione comportò il dimezzamento della percentuale dei residenti neri. Nondimeno, sebbene gli abitanti afroamericani che vi risiedevano fossero scesi a un terzo della popolazione totale, McKinney riuscì a conservare il seggio nelle elezioni del 1996.

Il ruolo della Corte Suprema

I casi di Marcantonio e di McKinney costituiscono esempi di gerrymandering rispettivamente per motivi politici e di natura razziale.

Con la sentenza Miller v.Johnson del 1995, la Corte Suprema intervenne a favore dei ricorrenti nella questione del collegio di McKinney, constatando che la concentrazione di elettori afroamericani all’interno di una circoscrizione – cioè il criterio della razza quale “fattore predominante” nella definizione di un distretto – creava artificiosamente uno svantaggio per eventuali candidati bianchi e, pertanto, violava i diritti di questi ultimi.

Nondimeno, in seguito i giudici hanno preso posizione anche contro il gerrymandering che danneggiava la rappresentanza degli elettori neri. In particolare, nel 2023, il verdetto sul caso Allen v. Milliganstabilì che la ridefinizione dei collegi dell’Alabama per l’elezione dei rappresentanti dello Stato alla Camera di Washington discriminava i votanti afroamericani perché aveva finito per concentrarli in una sola delle sette circoscrizioni di questo Stato, ridistribuendo i rimanenti nelle altre sei in modo che risultassero una ristretta minoranza degli elettori.

In questa maniera, alla possibilità di esprimere un deputato nero nel distretto dove la maggioranza dell’elettorato potenziale apparteneva a questo gruppo, corrispondeva la quasi assoluta certezza che gli altri sei collegi avrebbero assicurato il successo a candidati bianchi.

Di contro, la Corte Suprema ha sostanzialmente rifiutato di esprimersi in concreto sul gerrymandering per ragioni politiche. In due sentenze del 2019, Rucho v. Common Cause e Lamone v. Benisek, ha concluso che disegnare i collegi per finalità esclusivamente di partito è in contrasto con la Costituzione federale.

Tuttavia, ha aggiunto che non è compito della magistratura, bensì del Congresso e delle assemblee legislative statali, prendere provvedimenti per fronteggiare questo fenomeno. Si è trattato di un atto pilatesco e paradossale.

Demandare ai politici la responsabilità di impedire che il gerrymandering degeneri in uno strumento di lotta tra i partiti è stato l’equivalente giurisprudenziale di assegnare alle volpi la protezione di un pollaio.

La diatriba attualmente in corso in Texas è almeno in parte l’esito di tale decisione. D’altra parte, già nel 2006, nella causa League of United Latin American Citizens v. Perry, la Corte Suprema aveva convalidato il precedente gerrymandering del 2003 in Texas, legittimando di fatto la possibilità di ridisegnare i distretti elettorali a prescindere dalla necessità di tenere conto delle trasformazioni demografiche attestate dai censimenti decennali della popolazione.

La rinascita del gerrymandering partitico

I verdetti del 2019 hanno, inoltre, frenato i tentativi di creare alternative al controllo dei partiti sulla definizione delle mappe dei collegi, arginando una tendenza emersa soprattutto all’inizio del XXI secolo.

Oggi sono appena otto gli Stati in cui commissioni indipendenti disegnano le circoscrizioni della Camera federale: Arizona, California, Colorado, Hawaii, Idaho, Michigan, Montana e Washington. In tutti gli altri a decidere sono le assemblee legislative statali, talvolta coadiuvate da organismi indipendenti come avviene dello Stato di New York, o appositi comitati in cui sono rappresentati i partiti.

Fanno eccezione Alaska, Dakota del Nord e del Sud, Delaware, Vermont e Wyoming, dove il problema di disegnare le mappe dei collegi non si pone perché questi Stati dispongono di un solo seggio alla Camera.

Il fatto che il governatore Newsom stia ipotizzando di indire un referendum il prossimo 4 novembre per ripristinare la prerogativa dell’assemblea legislativa statale, dove dominano i democratici, di tracciare i distretti, sia pure limitatamente alle elezioni di mid term del 2026, costituisce un’attestazione di come il gerrymandering apartitico sia in fase di regressione dopo le sentenze del 2019.

Un’ulteriore riprova è data da quanto si sta verificando nello Stato di New York. Qui è in vigore un sistema ibrido, in base al quale le mappe dei collegi vengono elaborate da una commissione indipendente, ma sono soggette all’approvazione dell’assemblea legislativa statale, che può in parte modificarle.

Lo scorso 4 agosto, però, circondata da alcuni deputati “aventiniani” del Texas, la governatrice democratica Kathy Hochul si è dichiarata insoddisfatta di questa procedura mista e si è impegnata a far abolire la commissione indipendente per conferire il pieno controllo all’assemblea legislativa, nella quale il suo partito è in maggioranza.

Se il gerrymandering sembra non bastare

In una prospettiva di medio periodo, che va oltre le prossime due tornate elettorali (le mid-term del 2026 e le presidenziali del 2028), Trump ha escogitato un ulteriore strumento, da affiancare al gerrymandering, per rafforzare la presenza repubblicana alla Camera.

Al momento, la distribuzione dei seggi tra gli Stati avviene sulla base della popolazione. I censimenti decennali non distinguono tra cittadini statunitensi, immigrati regolari e clandestini.

Questi ultimi tendono a concentrarsi in alcune metropoli come New York, Los Angeles, Chicago e Boston, non solo perché nelle grandi aree urbane ci sono maggiori opportunità d’impiego, ma anche perché queste località costituiscono sanctuary cities (città rifugio), nel senso che le amministrazioni municipali hanno adottato la politica di non collaborare con il governo federale nell’identificare e arrestare gli immigrati irregolari.

L’attrazione esercitata sui clandestini contribuisce a mantenere consistente il peso demografico degli Stati a cui appartengono queste metropoli (New York, California, Illinois e Massachusetts) e, di conseguenza, la rilevanza politica del partito democratico. Infatti, una quantità elevata di abitanti si traduce in un largo numero di seggi alla Camera.

La ricetta formulata da Trump per invertire questo fenomeno è semplice: escludere i clandestini dal computo della popolazione per la ripartizione dei seggi alla Camera. La proposta, già avanzata al tempo del primo mandato, per il momento non ha avuto seguito.

Ad essa, però, si è recentemente aggiunto un disegno di legge ancor più radicale, presentato dalla deputata repubblicana della Georgia Marjorie Taylor Greene, la pasionaria del trumpismo: conteggiare soltanto i cittadini statunitensi.

Se uno dei due progetti dovesse essere approvato, influirebbe pure sulle elezioni presidenziali, perché il numero di grandi elettori di cui dispone ogni Stato è pari a quello dei suoi senatori e deputati al Congresso.

Quindi, ridurre la rappresentanza di Stati come California, Illinois, Massachusetts e New York alla Camera comporterebbe diminuire anche il numero dei grandi elettori di Stati che sono generalmente conquistati dal candidato o dalla candidata del partito democratico alla Casa Bianca.

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