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“Trump, 100 giorni di caos: l’Europa comincia a capire cosa fare ma l’Italia è marginale. La pax russa è la resa di Kiev”: parla Stefano Silvestri

Imagoeconomica

“Facciamo un punto su che cosa sta accadendo nel mondo? Certo, ma direi che si tratterà di un gran bel punto interrogativo”. Conversiamo con Stefano Silvestri, già presidente dell’Istituto di affari internazionali (Iai), grande esperto di affari militari, che anticipa le nostre domande con un’analisi non proprio ottimista sulle due guerre e sullo scenario internazionale. 

“Io direi – dice – che stiamo girando intorno ad  un argomento per noi inatteso e cioè la guerra. Credevamo fosse destinata a sopravvivere solo in “terre selvagge” mentre ora è vicinissima a noi. Abbiamo alcuni leader del ‘nostro’ mondo, tipi come Putin per intenderci, ma forse anche Xi, che credono, o sembrano credere, alla guerra come strumento per la risoluzione di problemi internazionali, contrariamente a quel che recita la carta delle Nazioni Unite. Abbiamo anche una “wild card”, un guerrafondaio, come Netanyahu. E abbiamo un presidente americano che sembra pensare di poter vincere solo facendo il contrario di tutto quello che è stato fatto  prima di lui. Quanto all’Europa abbiamo alcuni leader che sono pronti a difendersi, ma hanno bisogno di tempo per armarsi per bene; ed altri che scoprono la verità di don Abbondio, e cioè che uno il coraggio se non ce l’ha non se lo può dare.  Ecco, da questo quadro possiamo partire”. 

La guerra in Ucraina: lei pensa che Putin si stia prendendo gioco di Trump?

“In verità Putin dice sempre le stesse cose, è Trump che immagina di stare attendendo risposte che non arrivano e forse non arriveranno mai. Il fatto è che la pace per Mosca vuol dire la resa di Kyiv,  la trattativa non significa altro per Putin. E questa “pax russa”, non si ferma solo a questioni territoriali, come ha capito (o vuol far finta di capire) Trump, che, in uno dei suoi più curiosi discorsi, aveva già annunciato che, per arrivare alla pace, bastava smembrare l’Ucraina partendo dalla Crimea, che ‘si sa, è russa’, come aveva detto. Senza contare che qualcuno, mi pare l’ex premier Medvedev, è andato anche oltre, dichiarando che Odessa, mai stata toccata dalle conquiste di questi due anni, ‘è sempre stata russa’. Lasciando intendere che Mosca, ad un futuro tavolo delle trattative, non si accontenterà dei territori che ha occupato. In realtà il fatto più importante è che le condizioni di Putin per arrivare alla pace non sono solo territoriali, ma anche politiche: vuole una Ucraina smilitarizzata, neutralizzata e che, pur rimanendo in parte indipendente, dovrebbe dipendere dalla Russia”.

E quindi Trump che deve fare ora per ottenere qualche risultato?

“Per prima cosa gli americani dovrebbero convincere Putin che la guerra ormai è in uno stato di stallo e che è necessario fermare ‘l’operazione militare’. In conclusione dovrebbe ottenere da Putin lo stop alla guerra. Per lasciare tutto come sta e passando alle trattative. Che, come si sa, non sempre sono brevi. Trattative necessarie anche se qualcuno (Putin e Trump) avesse l’idea di lasciare alla Russia i territori conquistati con la forza. Perché non è che si può procedere come nel Medioevo, dichiarando, senza atti formali, che migliaia di cittadini dalla sera alla mattina passano da uno Stato a un altro. Per la precisione parliamo di 7 milioni di abitanti nel Donbass e 600mila in Crimea. Trattative che magari portino poi  a referendum in cui i cittadini di quei luoghi possano scegliere e in cui la situazione di diritto possa (o non possa) coincidere con quella di fatto. Insomma io penso che ci vorrà ancora molto tempo prima che si arrivi a una sistemazione della faccenda, sempre che la guerra si arresti. Per questo credo che Putin stia scommettendo sulla imprevedibilità di Trump e sul fatto che alla fine il presidente americano molli l’Ucraina definitivamente. Ed è evidente che lasciata sola Kyiv rischierebbe di essere sopraffatta. Anche se non è detto”. 

Per andare negli Usa, perché l’opposizione a Trump appare muta?

“È vero, lo è. O meglio è vero che la parte dei liberal più moderata, quella di centro per intenderci, è ancora sotto choc e alla ricerca di un leader dopo essere stata schiacciata dalla vittoria di Trump. Mentre i più radicali (Barnie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, per intenderci) portano la loro protesta in giro per gli Usa, ma sono minoritari e sono per questo i preferiti da Trump. Ma è nel campo trumpiano dove stiamo assistendo a un fatto curioso, una sorta di guerra di religione. Gli americani che hanno votato Trump sono stati sconvolti da una specie di scisma, fra i ‘trump-credenti’ e ‘trump-non credenti’. Con fatti propri da guerra di religione, se si pensa alla minaccia del presidente di tagliare i fondi a quelle università che danno spazio ai transgender. La posta in gioco, per i ‘trump-credenti’ non è solo l’economia, ma lo sono anche i valori nei quali gli americani devono credere. Le due fazioni sono destinate a scontrarsi in maniera sempre più feroce, fra di loro e con il resto degli americani che non ha votato per Trump. Già lo si sta vedendo con la reazione di alcune università. Forse che la rivoluzione di Trump verrà proprio dal suo campo?”

È possibile che gli oppositori moderati abbiano talmente fiducia nelle regole della loro democrazia che non temano (o non vedano) che Trump voglia svuotarla dall’interno?

“Il rischio che lo faccia c’è. La campagna contro i giudici, contro gli avvocati… sono tutte cose  che cercano di cambiare nel profondo le regole del gioco. Ma questo non può impedire agli oppositori di prepararsi a batterlo nelle urne, il mid-term non è lontano, e per il momento non si vede chi possa batterlo e come. E cosi lo scoraggiamento che ha colpito gli avversari è la carta vincente di Trump: più non compaiono alternative e più l’unica che rimane agli elettori è quella di non partecipare, di allontanarsi dalla politica. Ed è anche cosi che muoiono le democrazie.”

Veniamo ai cento giorni di cui molto si è vantato Trump: cosa ha ottenuto?

“Negli Usa  il dibattito è tutto sui dazi, della politica internazionale i cittadini si interessano poco, cosa che è comune non solo in America. Insomma del fatto che né in Ucraina né Israele Trump non abbia cambiato niente agli americani non importa. I dazi invece dividono e fanno discutere. I danni economici sono stati enormi, lo abbiamo visto come hanno reagito le Borse. E solo quando Trump ha cambiato atteggiamento, la calma è ritornata. Tuttavia gli americani che lo hanno votato non lo hanno ancora abbandonato, sebbene la sua popolarità sia fortemente in discesa. E quindi c’è chi si chiede se non bisogna aspettare ancora dando credito alle idee del presidente, una delle quali, quella che predica che le aziende devono   tornare (o venire) a produrre negli Usa, è la più popolare. Al momento tuttavia non c’è una grande corsa delle imprese a seguire l’indicazione; pare che una sola azienda, proveniente da Taiwan e che produce microchip, abbia aderito all’imposizione di Trump,  decidendo di aprire una fabbrica in Arizona. Ma la decisione era stata già presa prima dei dazi e quindi non vale come risultato”.   

Il mondo dopo questi cento giorni come è cambiato?

“Una cosa è certa che questi cento giorni non ci hanno dato nessuna certezza per il futuro. Trump ha mantenuto alto il livello di incertezza generale con la sua politica muscolare, minacciando conquiste (contro Canada, Groenlandia) o avviando guerre commerciali (i dazi appunto). E la cosa grave è che son si sa ancora cosa voglia fare e praticamente su tutto. Che cosa vuole fare per esempio in Palestina? Sul serio Gazaland? E i palestinesi? E pure sui dazi :vuole negoziare, ma su che cosa? “

Come definirebbe questi cento giorni?

“Io direi caotici. L’incertezza generale è calata su un contesto già difficile che di tutto avrebbe avuto bisogno meno di questa globale insicurezza sul futuro. Il rischio è che di fronte alla incertezza di Trump rimangano le sicurezze di uno Xi , di un Putin, di un Netanyahu, che sono certezze bellicose. Forse di Xi un po’ meno, ma chissà. Se veramente scoppiasse un’altra guerra, quella in Khasmir fra indiani e pachistani, due potenze nucleari non dimentichiamolo, e che venisse coinvolta la Cina, sconvolgendo non solo quello scacchiere, potremmo dire di avere il completamento di una profezia che aveva fatto Michael Howard, grande studioso di storia militare, quando disse durante una conferenza, con il solito humour inglese, che, visto quello che accadeva nel mondo (si era negli anni Settanta, con la guerra fredda, la Cina che bolliva, il conflitto in Vietnam, le due Coree divise e nemiche) si aspettava che l’Asia rendesse il favore all’Europa coinvolgendola in due guerre mondiali. Sono passati cinquant’anni e gli elementi di incertezza ci sono ancora, non solo non sono stati risolti, ma si stanno aggravando”. 

E questi cento giorni come hanno cambiato l’Europa e l’Italia?

“L’Europa finora, almeno a livello delle chiacchiere, ha una maggiore consapevolezza di quello che bisogna fare. L’Italia si è aggrappata finora a un Trump apparentemente benigno che però impone i dazi anche a noi. Non ho capito se il governo italiano vuole  seguire l’onda europea di maggiore consapevolezza. Mi sembra voglia ancora rimanere fuori da questo processo. Può essere che vada bene se il processo in Europa va male, ma se esso si approfondisce e diventa realtà,  dovremmo poi regolare i conti. Magari Meloni potrebbe essere più dentro il flusso europeo, ma ha problemi dentro la sua maggioranza. E fa un po’ rabbia il fatto che questo sia  il motivo principale per cui siamo marginali nel dibattito europeo. Perché che siamo marginali non è una favola raccontata dall’opposizione, lo siamo sul serio.” 

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